Sanctity of life and the medical profession from Humanae Vitae to Laudato si’

I quasi cinquant’anni che intercorrono tra l’Humanae vitae (1968) e Laudato si’ (2015) hanno visto realizzarsi grandi cambiamenti negli assetti del pianeta e grandi trasformazioni negli equilibri fra diverse culture. Le dinamiche della globalizzazione hanno infatti condotto a confronti molto più ravvicinati fra gruppi umani caratterizzati da differenti culture, che peraltro già al proprio interno conoscevano notevoli evoluzioni. Le questioni riguardanti la vita umana e le specifiche tematiche trattate da HV non hanno però perso di attualità.

Dal senso della generazione alla “sacralità” delle vita

All’interno delle numerose questioni teologiche, e soprattutto teologico-morali, che nel corso di questi cinquant’anni hanno visto concentrarsi sulla Humanae vitae una grande discussione, vorrei qui soffermarmi sull’affermazione che mi pare centrale in questa enciclica, perché costituisce la sua più sapiente e preziosa eredità teologica e antropologica: la «connessione inscindibile» (HV 12) tra sponsalità e generazione, nel matrimonio. La formula è da inscrivere all’interno del precedente n. 9, dove Paolo VI ricorda le quattro “caratteristiche” fondamentali dell’amore coniugale: un «amore pienamente umano, vale a dire nello stesso tempo sensibile e spirituale», un «amore totale, vale a dire una forma tutta speciale di amicizia personale», un «amore fedele ed esclusivo fino alla morte», un «amore fecondo». Così Paolo VI affermava che l’amore coniugale, come tale, è fecondo, superando in un colpo solo la annosa questione del rapporto tra i fini del matrimonio: il fine primario (la prolis generatio et educatio) e il fine secondario (mutuum adiutorium e remedium concupiscentiae). In questo modo la fecondità della generazione veniva pensata come una caratteristica intrinseca all’amore coniugale e non una sua aggiunta successiva. Questo mi pare il primo, essenziale, “guadagno” dell’enciclica di Paolo VI. Una lezione profetica di sapienza umana, che non possiamo e non dobbiamo perdere.

E’ necessario ricordare che già in quel periodo storico – siamo alla fine degli anni ’60 – il papa aveva intuito la difficoltà che allora era soltanto agli inizi e che oggi, indubbiamente, ha trovato una radicalizzazione oserei dire estrema: la separazione tra amore coniugale e generazione. Nella cultura attuale – sia nella vita quotidiana sia, soprattutto, nelle sue forme mediatiche – il sesso ha un destino contraddittorio. Da una parte gli viene conferita una importanza determinante per il raggiungimento della felicità. Dall’altra sembra incapace di realizzare quella soddisfazione profonda che si vorrebbe ricavarne. Si pone quindi la domanda se la ragione di questo disagio non provenga da un modo riduttivo di intendere il significato della sessualità, che viene sganciata dalle altre dimensioni della persona e dalle relazioni che la costituiscono.

Perdendo questa prospettiva non appare più evidente come un figlio meriti di essere generato all’interno di una relazione di amore tra un uomo e una donna e nemmeno all’interno di una relazione stabile, socialmente istituita e riconosciuta, come è la famiglia. Tocchiamo qui qualcosa di centrale per la fede cristiana. La realtà della generazione ci introduce nell’intimità del mistero di Dio stesso, in cui al generare del Padre corrisponde l’essere generato del Figlio. Il legame del Padre e del Figlio fa essere entrambi, nello Spirito. La rivelazione mostra così che l’amore che conduce alla felicità non può realizzarsi se non facendo essere l’altro da sé, in una circolazione della vita di cui la creatura umana è fatta capace e responsabilmente partecipe. L’ingresso di Dio nella generazione umana con l’incarnazione (attraverso il grembo di una Donna) apre una prospettiva di vita che, assumendo la storia con le sue contraddizioni in una logica di agape, giunge alla risurrezione.

È solo in questo ampio orizzonte di significato che diventa possibile cogliere in modo cosa si intenda per sacralità (sanctity) della vita. È infatti solo sullo sfondo della chiamata soprannaturale che possiamo comprendere la grandezza e la preziosità della vita umana anche nella sua fase temporale, come dice S. GP2 in EV 2. Egli proprio all’inizio dell’enciclica afferma che “proprio questa chiamata soprannaturale sottolinea la relatività della vita terrena dell’uomo e della donna. Essa, in verità, non è realtà «ultima», ma «penultima»”. È in questo contesto che essa si presenta come “realtà sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell’amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli” (EV, 2). Ciascuno è quindi chiamato a realizzare la propria vita nella logica del dono, in relazione a Dio e ai fratelli, come ribadisce poco oltre S. GP2: “la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù, «chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8, 35)” (EV, 47).

Da Humanae vitae a Laudato si’

Il tema della generazione si presenta quindi come snodo che tocca non solo la vita delle singole persone o della famiglia, ma l’intera sfera delle relazioni sociali. Il collegamento che lo stesso Paolo VI ha posto tra HV e Populorum progressio, ci consente di fare un ulteriore passo verso LS. Possiamo notare che l’intero pianeta, pur con sensibili differenze nei diversi continenti, tende all’invecchiamento. E quelle società che sono più povere di figli appaiono più colpite da una sorta di declino non solo materiale ma anche spirituale. LS mette in evidenza come non è la terra a essere avara, ma è la nostra amministrazione a essere ingiusta. È forte la tentazione di ripiegamento dei gruppi umani sui propri interessi, culturalmente più inclini alla riproduzione dell’individuo che alla generazione della comunità. Focalizzandoci sull’autorealizzazione, si moltiplicano le forme di sterilità. La LS ci indica quindi come – lasciandoci illuminare dal mistero generativo di Dio che si rivela nella realtà del Figlio fatto uomo nel grembo di Maria – la Chiesa è chiamata a restituire fiducia a un mondo che fatica a trasmettere il senso stesso del venire al mondo.

Ma offre anche altri spunti che invitano a comprendere la vita umana nel contesto della casa comune, secondo il paradigma della ecologia integrale. Questa prospettiva sistemica ci aiuta a porre in relazione aspetti della vita che spesso non consideriamo nella loro interconnessione, restringendo così l’orizzonte di pensiero. Il quadro concettuale dell’ecologia integrale permette di sviluppare una comprensione più articolata e convincente (e forse anche comunicabile) di alcune categorie che ci stanno a cuore nel difendere e promuovere la vita umana in tutte le fasi del suo decorso, soprattutto quando è più fragile e più esposta.

Vorrei ora proporre qualche breve cenno di riflessione sul senso della dignità della persona, l’argomento al centro della vostra attenzione questa mattina. Sappiamo che la nozione di dignità viene infatti invocata da tutti. E in genere si fa riferimento al Preambolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1948, che recita: “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. E l’articolo 1 ribadisce: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Essa è anche più volte invocata nella Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti dell’uomo dell’UNESCO (2005). Ma le interpretazioni sono diverse, con la conseguente difficoltà a trovare un accordo sulle decisioni da prendere nelle situazioni concrete a cui l’evoluzione delle biotecnologie ci mette di fronte.

La diversità delle interpretazioni nasce anche dalla diversità degli orizzonti culturali che in Occidente possiamo raggruppare in tre prospettive principali: quella ebraico-cristiana, quella kantiana e quella più recente della (tarda) modernità.

1. La tradizione ebraico-cristiana Pur conoscendo diverse accentuazioni e sfumature nel corso dei secoli, la tradizione ebraico-cristiana ha manifestato una notevole costanza circa gli elementi centrali della nozione di dignità che trova la sua ragione sulla creazione dell’uomo “a immagine e somiglianza di Dio”. Sebbene il peccato sfiguri questa immagine, essa viene ripristinata dalla grazia e dalla salvezza che Gesù Cristo offre all’uomo. Questo vale per ogni uomo e per ogni donna. In tal senso, la dignità è un altro nome per indicare la figliolanza da Dio. La dignità pertanto non dipende da altri fattori, come il comportamento o particolari capacità del soggetto, ma solo dal fatto di essere figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza. Gesù proseguendo in questa direzione, giunge ad affermare che i poveri – coloro che sono scartati perché privi di dignità – lo rappresentano sulla terra. Sono il suo sacramento.

2. La svolta kantiana. Nei Fondamenti della critica dei costumi, Kant afferma che la dignità è la condizione per cui la persona è fine in sé: essa non è suscettibile di una stima economica, cioè non le si può attribuire un prezzo. La dignità non è né graduabile, né divisibile. Tutti gli uomini sono uguali nella dignità. Kant fonda questa affermazione sulla legge morale che ognuno trova dentro di sé. Potremmo dire che “laicizza” quanto nella tradizione cristiana risultava dipendente dalla relazione (di figliolanza) con Dio. E il Vaticano II (GS 16), parlando della coscienza dell’uomo come il luogo in cui ciascuno scopre una legge che non si è dato, ma che ha ricevuto da Dio, opera in certo modo una saldatura tra la prospettiva kantiana e quella maturata in contesto ebraico-cristiano.

3. Nell’epoca moderna – l’emergere sia della soggettività che della relazionalità – la dignità è legata al giudizio sia degli altri che alla convinzione dello stesso soggetto. Si parla perciò della percezione della propria dignità più che della sua dimensione ontologica che, ovviamente, non deve essere perduta. In termini aristotelici si potrebbe dire che la dignità non riconosciuta dagli altri è in potenza, ma non ancora in atto. E’ importante allora lo sguardo del medico credente per dare un po’ di coraggio e di serenità a chi dubita della propria dignità perché si trova in una condizione di debolezza e di dipendenza. E’ quindi indispensabile favorire in ogni modo condizioni di cura, alleanze tra medici e malati soprattutto in contesti fortemente invalidanti o di morte prossima. Oserei dire che la dignità è strettamente legata alla relazionalità.

I tre poli della nozione di dignità

Il percorso svolto ci mostra come nella nozione di dignità si sedimentino diverse linee di pensiero che forniscono indicazioni preziose per determinare il senso della dignità della persona umana. E accolgo volentieri queste parole di un filosofo francese laico, Luc Ferry, il quale afferma: “l’idea stessa che un essere umano possa ‘perdere la sua dignità’ perché è divenuto debole, malato, vecchio e per questo in una situazione di dipendenza è un’idea intollerabile sul piano etico, e si pone accanto alle funeste teorie degli anni Trenta”. E fanno riflettere queste osservazioni di uno scrittore italiano, Lucio Magris, attento studioso della cultura contemporanea, sulla questione della dignità nel contesto eutanasico: ““Proposta in nome della pietà e della dignità umana, l’eutanasia può divenire facilmente un’obbrobriosa anche se inconscia igiene sociale; l’arbitrio di chi, in nome della qualità della vita, afferma che al di sotto di una certa qualità la vita non è degna di essere vissuta e si conferisce il diritto di stabilire quale sia il livello che autorizza a eliminare chi non lo possiede. Indubbiamente, per molti dei milioni di bambini spaventosamente denutriti che ci sono al mondo – e spesso lesi, nella loro scandalosa condizione, pure nel pensiero e nell’affettività – la morte sarebbe una sventura minore della vita infame che li attende, ma è dubbio che ciò autorizzi la loro eliminazione”.

Vale la pena leggere un bel testo del Vaticano II pieno di sapienza: “ciascuno consideri il prossimo, nessuno eccettuato, come un altro «se stesso»… Inoltre tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, le costrizioni psicologiche; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni di vita subumana, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro, con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili: tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose”.

Non credo ci siano dubbi sul fatto che ciascuna persona dovrebbe vivere e morire in modo dignitoso. Mi hanno fatto riflettere queste parole di una signora novantenne che spiegava cosa fosse per lei morire dignitosamente: “Vorrei una morte tranquilla, nel mio letto, non all’ospedale. Vorrei che ci sia qualcuno attorno a me e che mi dica parola d’amore, che mi dia la forza di morire, che mi carezzi con gesti dolci e leggeri, che mi lasci scivolare nella morte senza forzarmi a mangiare, se non ne ho più voglia. Voglio sentire la vita attorno a me, i bambini che corrono, la gente che parla, e se io soffro, che qualcuno mi dia ciò che mi aiuti a non soffrire. Questo è per me morire con dignità”. Certo, è difficile legare questa morte ad un dispositivo legislativo. In verità, parlare di dignità del morire significa promuovere una nuova cultura della vita e delle relazioni. Non è dignità mettere una pillola mortale sul comodino a disposizione del moribondo; e tanto meno è dignità una iniezione di veleno, o un bicchiere di bevanda letale, anche se a chiederlo è stato lo stesso malato. Ed è certo indegno non accorgersi del mare di solitudine e di non senso che sta vivendo chi ritiene che non vale più la pena di vivere. Tale indifferenza è l’amara conferma di ciò che lo tormenta: non valere più nulla per nessuno. Il medico cattolico – almeno lui – stia accanto e accompagni, cerchi di guarire fin dove è possibile e non smetta mai di curare. E’ quel che Gesù faceva e per questo dall’antica Chiesa fu chiamato “medico”.

Cari amici, la vera dignità è quella che prova la persona fragile, malata, quando viene curata con delicatezza, tatto, attenzione e accompagnata con affetto e generosa attenzione. La dignità, infatti, è essere riconosciuti come persona sempre, in ogni condizione, in ogni situazione. La vicinanza, il contatto fisico – una stretta di mano continuata, una parola detta con dolcezza, una carezza sulla guancia mentre si è negli ultimi istanti della vita – testimoniano a chi muore la sua grande dignità e a chi resta un ammaestramento sul senso della vita anche al momento della morte. Per questo dovremmo sdegnarci molto di più per la morte indignitosa di milioni di persone per la fame, la guerra, l’abbandono terapeutico, e così oltre. Lo scrive Papa Francesco nell’ultima Esortazione Apostolica, Gaudete et Exultate: “La difesa dell’innocente che non è nato, per esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù, e in ogni forma di scarto”(101). Mi parrebbe quanto mai opportuno suscitare iniziative culturali – e questo Congresso ne è un esempio – assieme a proposte di leggi perché tutti abbiano una vita dignitosa, sana, e una attenta assistenza sanitaria. In un breve scritto redatto da cristiani evangelici e cattolici, in Germania, e pubblicato da Bernhard Vogel con il titolo “Al centro: la dignità dell’essere umano”, vien detto molta chiarezza che “la dignità è l’esigenza di rispetto”. Ma forse più che “esigenza” andrebbe usato il termine “diritto”. In tal senso si dovrebbe dire: “La dignità è il diritto al rispetto”.