Ricordare i morti di Covid

Il quotidiano annuncio del numero di persone morte a causa del Covid 19, a oggi 32.995 in Italia e 351.000 in tutto il mondo, ci ha ricordato impietosamente la nostra condizione mortale. Gli incredibili progressi scientifici e sociali che hanno allungato e migliorato in modo significativo le nostre esistenze sono riusciti, al massimo, a posticipare la fine della nostra esistenza terrena, non a cancellarla. La censura di ogni discorso sulla morte nella conversazione culturale e quotidiana, la riduzione del morire a fatto privato, la sua ospedalizzazione, la nostra incapacità di presentare questo evento ai più piccoli, sono tutti segni di un maldestro tentativo di rimuovere ciò che obiettivamente appare come la più insopportabile caratteristica della nostra esistenza umana: siamo mortali.

Ciò che però ha colpito tutti noi più ancora del numero delle vittime è stato il fatto che non abbiamo potuto vivere alcun gesto di commiato, civile o religioso, per i nostri defunti, nel tempo della pandemia, anche di quelli morti per altri motivi. È stato questo lo scandalo che abbiamo provato tutti vedendo le immagini dei camion dell’esercito che portavano via le salme da Bergamo. È stata l’infinita tristezza che hanno provato molti congiunti che non hanno potuto accompagnare i loro cari in un questo passaggio decisivo della loro esistenza. Perché se c’è una morte ancor più insopportabile, questa è quella vissuta in solitudine, e grande merito hanno avuto quei medici e infermieri che si sono sostituiti ai parenti in quello stare vicino che non evita la morte ma la rende meno insopportabile. La condizione mortale non è superabile ma chiede di essere almeno “compresa”, di essere vissuta con parole, segni, vicinanze, affetti, anche silenzi. Per questo motivo sono molto favorevole alla proposta, lanciata su questo giornale dal Corrado Augias, di istituire una Giornata Nazionale per la commemorazione di tutte le vittime del Covid19.

Solo elaborando la nostra esperienza della morte, possiamo tentare di vivere tale condizione in modo umano. La forma simbolica, con cui ciò è possibile farlo, ha due conseguenze significative. La prima è che tale esercizio, fatto di parole, segni e presenze, consegna l’esperienza della morte dell’individuo al noi sociale, alla comunità nazionale, civile e religiosa. Questa terribile esperienza che stiamo vivendo ci ha ricordato in modo feroce e al contempo provvidenziale, che la custodia dell’insuperabile dignità di ogni persona, anche nel suo tragico finire, si fonda esattamente in quella fraternità che dice la condizione di possibilità della libertà individuale. La fraternità che custodisce la libertà diventa poi responsabile della giustizia, per cui c’è da sperare che tale doverosa e dolorosa presa di coscienza del mistero della morte non accada solo in questa tragica occasione, ma sia opportunità perché non sia dimenticato nessun defunto su questa terra, soprattutto quando vittima fragile e innocente dell’ingiustizia generata dagli uomini.

Questo allargamento sociale imposto dalla doverosa elaborazione del lutto è, infine, un movimento di cui non possiamo onestamente decretare il limite. Le parole e i segni che possiamo e potremo dire su questa tragedia ci sembrano e saranno sempre insufficienti, lasceranno sempre insopprimibili domande. Questo orizzonte aperto è ciò che i credenti continuano a custodire: in questo spazio invocano, quasi pretendono con le lacrime agli occhi che il Dio di Gesù mantenga le sue promesse, memori di quell’annuncio pasquale in cui la morte non è stata elusa ma vissuta fino in fondo in modo umano.

LA REPUBBLICA