Quarta Domenica di Pasqua
Dal vangelo di Giovanni 10,11-18
Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”.
La Chiesa dedica questa domenica, chiamata del Buon Pastore, alla riflessione e alla preghiera per le vocazioni sacerdotali e religiose. Al centro della liturgia della Parola c’è l’appassionato discorso con il quale Gesù, in piena polemica con la classe dirigente d’Israele, si presenta come il “buon pastore”, ossia come colui che raccoglie e guida le pecore sino ad offrire la sua stessa vita per la loro salvezza. E aggiunge: “Chi non offre la vita per le pecore non è pastore bensì mercenario”. In effetti, l’opposizione tra il pastore e il mercenario nasce proprio da questa motivazione: il pastore svolge la sua opera per amore, rinunciando al proprio interesse anche a costo della vita, mentre il mercenario agisce per interesse personale e per denaro, ed è quindi logico che nel momento del pericolo abbandoni le pecore al loro destino. L’evangelista, per indicare il pericolo, usa l’immagine del lupo che “rapisce e disperde” le pecore. È una sferzata durissima ai farisei, accusati di “pascere se stessi… e non il gregge” (Ez 34,2), mentre egli è venuto “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).
A guardare bene, l’opera del lupo è congeniale all’atteggiamento del mercenario. Ad ambedue, infatti, interessa solo il proprio tornaconto, la propria soddisfazione, il proprio guadagno e non quello delle pecore. Si realizza così un’alleanza di fatto tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri. Ne viene fuori una sorta di diabolica congiura degli indifferenti e degli egoisti contro i più deboli e gli indifesi. Se pensiamo all’enorme numero di persone che hanno smarrito il senso della vita e vagano senza mèta alcuna, se guardiamo i milioni di profughi che abbandonano le loro terre e i loro affetti in cerca di una vita migliore senza che nessuno se ne preoccupi, se osserviamo lo sbandamento dei giovani in cerca della felicità senza che ci sia chi gli indichi la strada, dobbiamo purtroppo constatare la triste e crudele alleanza tra i lupi e i mercenari, tra gli indifferenti e coloro che cercano solo di trarre vantaggi personali da tali sbandamenti. Scrive il profeta Ezechiele: “le mie pecore si disperdono su tutto il territorio del paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura” (Ez 34,6).
Viene il Signore Gesù e con autorità afferma: “Io sono il buon pastore, offro la vita per le mie pecore”. Non solo lo ha detto. Lo ha anche mostrato con i fatti, particolarmente nei giorni della Passione, quando ha amato i suoi fino alla fine, sino all’effusione del sangue. Sì, finalmente è arrivato in mezzo agli uomini chi spezza la triste e amara alleanza tra il lupo e il mercenario, tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri. Chi ha bisogno di conforto e di aiuto ora sa dove rivolgersi, sa dove bussare, sa dove muovere i suoi occhi e il suo cuore. Gesù stesso lo aveva detto: “Quando sarò elevato da terra, attrarrò tutti a me” (Gv 12,32). Tutto il Vangelo, in fondo, non parla d’altro che di questo legame tra le folle disperate, abbandonate, sfinite e senza pastore e Gesù che si commuove per loro. “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?” (Lc 15,4), dice il Signore. Si attribuisce a san Carlo Borromeo la frase: “Per salvare un’anima, anche una sola, andrei sino all’inferno”. Questo è l’animo del pastore: andare sino all’inferno, ossia sino al limite più basso per salvare una persona. Si può comprendere anche in questa prospettiva la “discesa agli inferi” di Gesù nel Sabato santo. Neppure da morto, potremmo dire, Gesù si è fermato a pensare a se stesso. Come buon pastore è andato a cercare chi era perduto, chi era ed è dimenticato, chi era ed è negli inferni di questo mondo che il male e gli uomini hanno creato.
Il Vangelo sembra dire: o si è pastori in questo modo o non si può essere che mercenari. È vero, solo Gesù è “buon pastore”: o si somiglia a lui o si tradisce la sua stessa missione. Sappiamo bene di essere inadeguati ed è il suo Spirito effuso nei nostri cuori a trasformarci per avere “in noi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5). L’odierna pagina evangelica si applica certo a coloro che hanno responsabilità “pastorali” nella Chiesa, in particolare ai vescovi e ai sacerdoti. Ed è opportuno, anzi doveroso pregare, e non solo oggi, perché i “pastori” somiglino sempre più a Gesù, vero ed unico “buon pastore”. Papa Francesco insiste perché i pastori abbiano in se stessi “l’odore” delle pecore. E dobbiamo intensificare la preghiera perché il Signore doni alla sua Chiesa giovani che ascoltino l’invito ad essere “pastori” secondo il suo cuore, secondo la sua stessa passione d’amore.
Ogni comunità cristiana è chiamata tuttavia a guardare l’abbondanza della “messe” e la scarsità degli “operai”. Potremmo dire che c’è una responsabilità “pastorale” che appartiene a tutti i credenti, non solo ai sacerdoti. Ogni cristiano, infatti, è nello stesso tempo membro del gregge del Signore e, a suo modo, anche “pastore”, ossia responsabile dei fratelli, delle sorelle e del prossimo. In tante altre pagine della Scrittura emerge questa responsabilità “pastorale” diffusa di ogni credente. A partire dalle origini dell’umanità quando Dio chiese conto a Caino di suo fratello. E non fu certo esemplare, la risposta di Caino: “Sono forse io custode di mio fratello?”. Sì, Caino aveva la responsabilità del fratello Abele (in questo senso si può dire che ne era il “pastore”). E ogni credente deve esserlo per il suo prossimo. Pregare perché nella comunità cristiana ci siano coloro che ascoltino la chiamata del Signore a servire la Chiesa nel ministero ordinato è parte della spiritualità di ogni credente. Ma è da un terreno pieno di attenzione “pastorale”, ossia una comunità di credenti che sanno preoccuparsi degli altri, che possono nascere “pastori” per l’oggi. Una comunità appassionata del prossimo genera pastori. Il buon pastore, infatti, non è un eroe, ma è una persona che ama e l’amore porta là dove neppure sogneremmo di arrivare.
Amare gli altri vuol dire avere sentimenti larghi come quelli che aveva Gesù: “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore”. L’amore di Dio intenerisce il cuore: fa commuovere su coloro che vagano nelle nostre città in cerca di un approdo, su quelli che non sanno ove trovare conforto, sui milioni di disperati che coprono la faccia della terra, su quell’uomo o quella donna vicina o lontana che aspetta consolazione e non la trova. Scrive Matteo: Gesù “vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore che non hanno pastore”. E aggiunge immediatamente l’evangelista: “Allora disse ai suoi discepoli: La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe” (Mt 9,36-37). Tutta la comunità cristiana è unita al Signore Gesù che si commuove ancora sulle folle di questo mondo. E con lui prega perché non manchino gli operai per la vigna del Signore. Ma nello stesso tempo, ogni credente, davanti a Dio e davanti “ai campi che già biondeggiano per la mietitura” (Gv 4,35), deve dire con il profeta: “Ecco, Signore, manda me!” (Is 6,8).