Quando Benedetto XVI sentì il papato sfuggirgli di mano

La memoria collettiva – i commenti di queste ore la confermano – probabilmente rimarrà bloccata sul fermo-immagine delle dimissioni, consegnando l’evocazione della figura alla piccola cronaca delle foto-opportunity e alla maliziosa speculazione sul papato-ombra. Entrambe suonano un po’ dissonanti con il profilo di un uomo – un cristiano, un sacerdote, un papa – di aristocratico candore e di mite semplicità, certamente non mediatico, certamente non polemico. Molte sono – e debbono essere – le considerazioni sull’uomo e sulla sua opera, compreso ovviamente il gesto delle dimissioni. Chissà, forse sentiva che il Papato gli stava sfuggendo di mano. E prese la decisione – inedita – di riconsegnarlo nelle mani dei cardinali. Bisognerà andare ancora più a fondo.

Tra le cose più importanti che ci lascia, come eredità e come compito, se vogliamo esserne all’altezza, ci sono due tratti su cui vorrei spendere qualche parola: il candido disinteresse nei confronti di ogni espediente inteso a costruire un’immagine pilotata di sé; la sofferta delusione per la penosa immagine offerta da una Chiesa trafitta dagli odi di parte. Non è stato animoso nello svolgimento del suo compito di tutore della fede cattolica, non è stato cedevole nel suo sforzo di prevenire rotture più dolorose.

Le sue stesse dimissioni sono state l’insegnamento – questo sì notevole – di un credente che considera il Papato, non sé stesso, indispensabile alla Chiesa. Ed è per questo che al Papato, chiunque lo eserciti, va rivolto ogni rispetto e ogni sostegno. Ora che il Padre dei cieli lo accoglie nel suo grembo, gli dobbiamo almeno questo: deporre la presunzione dei censori di parte, che si arrogano il ruolo, senza minimante averne l’autorità; e scusarci del linguaggio offensivo che osa presentarsi come tutela della fede. Questo per quanto riguarda lo stile e l’uomo: dovranno essere apprezzati in modo ben diverso da quello più usuale.

Per quanto riguarda il lascito magisteriale vero e proprio, tralasciando naturalmente l’enorme ricchezza del suo pensiero teologico e della sua intelligenza culturale dell’epoca, è utile mettere a fuoco, per incominciare, due motivi che a mio avviso possono accompagnare il traghettamento del cristianesimo nell’epoca nuova che si è aperta.

Il primo motivo è questo: la fede, nella sua essenza, è un atto d’amore. Per Benedetto XVI la fede non è una resa della ragione, non è un pedaggio per la salvezza, non è l’apologia di una dottrina, non è un progetto di reclutamento. È anzitutto e soprattutto un atto d’amore: si acconsente a Gesù per questo; si segue Gesù per questo; si rende testimonianza a Gesù per questo. Tutto il resto viene in sovrappiù. Non è a caso che le sue ultime parole come viene riferito – siano state: «Gesù, ti amo». Ci lascia un «piccolo tesoretto» di intense meditazioni sulle virtù teologali, dove la carità – l’amore di Dio – compare per due volte. Deus caritas est; Caritas in Veritate, Spe salvi. E infine Lumen fidei – la cui bozza è stata assunta significativamente, dalla prima enciclica di Francesco, Lumen fidei. Questa riscoperta provoca un sommovimento vero e proprio della logica aristotelica alla quale tanto spesso ci si affida ancora oggi quando si parla di verità. E può essere compresa, invece, come la forza più creativa a disposizione in questo momento per la cultura contemporanea: tenuta in ostaggio da una sofisticata versione dall’amore di sé, che tende a renderci indifferenti alla destinazione della vita oltre la morte, svuotandola in anticipo delle profondità dello amore umano.

Il secondo motivo coglie la condizione della Chiesa in questo momento: l’esperienza dell’esilio, nella fede, diventa creativa. L’antico Israele biblico nel tempo dell’esilio scoprì i tesori della Sapienza di Dio nelle cose umane, il dialogo con la cultura, la trasformazione della comunità di elezione in comunità di affezione intorno all’alleanza irrevocabile dell’amore di Dio. Per secoli, il cristianesimo stesso fu questo. Finita la sua avventura politica – di certo piena di luci, non solo di ombre, attraverso la cultura europea che ha fecondato – il cristianesimo in questo tempo della storia ritorna a essere questo.

Benedetto XVI ha visto per primo, e con serena fermezza, la tipologia biblica di questo passaggio storico. Più che tempo dell’Esodo, oggi siamo piuttosto nel tempo dell’Esilio. E Benedetto XVI, con saggezza, ha invitato i credenti a inoltrarsi in questa avventura della fede – in uscita dalla sua abituale comfort zone – con amore, passione, spirito creativo. Non una «riserva indiana» da difendere, ma un lievito performativo, che cambia la storia. Dio sa trarre anche dalle conseguenze del peccato lo spunto per una inedita apertura della grazia. Senza la diaspora la vocazione universale del popolo di Dio non sarebbe stata riconosciuta e abitata con fede, speranza e amore. Stava per succedere anche a noi, peccatori. E Benedetto XVI, come i profeti che Dio ha mandato sulla soglia dell’esilio e a sostegno della speranza, accettò – con il suo stile di «un umile operaio del Signore» di indicarne la grazia.