Per una cultura dell’accompagnamento

Ho accettato volentieri di offrire un contributo al vostro “Master in accompagnamento spirituale nella malattia en el moriré”. Siamo tutti consapevoli della importanza di questo tema in un momento storico come quello che stiamo vivendo. E’ urgente – proprio in rapporto al notevole cammino compiuto dalla scienza nel campo della medicina – che si intensifichi la riflessione sul versante umanistico per affrontare in maniera sapiente le enormi sfide etiche riguardo alle questioni relative alla malattia e al fine vita. Tutti peraltro sappiamo bene quanto sia facile, in queste situazioni gravi, che i malati gravi e i morenti subiscano le tragiche conseguenza di quella “cultura dello scarto” che papa Francesco non cessa di denunciare. Ebbene, l’unica alternativa al prevalere della “cultura dello scarto” è promuovere una “cultura dell’accompagnamento”.

Le cure palliative e la cura del malato

In tale contesto la Pontificia Accademia per la Vita sta promuovendo una rinnovata attenzione al movimiento per le cure palliative. Ricordo queste parole di Papa Francesco: “Le cure palliative sono espressione dell’attitudine propriamente umana a prendersi cura gli uni degli altri, specialmente di chi soffre. Esse testimoniano che la persona umana rimane sempre preziosa, anche se segnata dall’anzianità e dalla malattia. La persona infatti, in qualsiasi circostanza, è un bene per sé stessa e per gli altri ed è amata da Dio” (Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 5 marzo 2015). Ribadire che la persona umana è sempre degna di rispetto e di attenzione, e che mai va eliminata o scartata, e ciò a prescindere dalle condizioni del suo stato, è una convinzione che va ribadita. E deve essere altresì ribadito che “prendersi cura” dell’altro fa parte della missione di ciascuna persona umana. E’ una dimensione che richiede una scelta, ma è proprio questa la scelta che distingue la dimensione antropologica dal resto della creazione. Ed è in questo orizzonte di servizio alla vita e alla dignità della persona, soprattutto quando è malata e indebolita, che si misura la qualità sia della persona che della società. Il movimento delle cure palliative, pertanto, mentre esprime un modo sapiente di stare accanto a chi soffre, diviene anche un messaggio di come concepire l’esistenza umana.

Le cure palliative, mentre spingono verso il recupero di un accompagnamento integrale del malato, mostrano la vocazione più profonda della medicina, che consiste prima di tutto nel prendersi cura del malato. E’ bene ricordare che il compito della medicina è quello di curare sempre, anche se non sempre è possibile guarire. La medicina è chiamata ovviamente ad acquisire nuove conoscenze e a sconfiggere un numero sempre maggiore di malattie. Ma deve restare salda la consapevolezza che il limite – la malattia e la norte – va combattuto ma anche riconosciuto e accettato. Nel concreto questo significa che il malato non va mai abbandonato. Mai. E’ necesario stargli vicino e accompagnarlo fino alla fine. E quando tutte le risorse del “fare” appaiono esaurite, proprio allora emerge l’aspetto più importante nelle relazioni umane che è quello dell’“essere”: essere presenti, essere vicini, essere accoglienti. Questo richiede anche la condivisione dell’impotenza di chi giunge al termine della vita. Se c’è la compagnia anche il limite cambia significato: non è più luogo di separazione e di solitudine, ma occasione di incontro e di comunione. La stessa morte viene introdotta in un orizzonte simbolico: non appare più solo come il termine contro cui la vita si infrange e soccombe, ma anche come compimento di un’esistenza gratuitamente ricevuta e amorevolmente condivisa. Insomma, il malato inguaribile non è mai incurabile.

Prendersi cura del malato è un indispensabile passo culturale da compiere. C’è ancora troppo poca cultura dell’accompagnamento. In un mio recente volume, “Sorella morte”, ho sottolineato l’urgenza di una cultura dell’accompagnamento. La logica dell’accompagnarsi – nel senso di prendersi cura gli uni degli altri – richiama quella dimensione di mutua dipendenza d’amore che nei momenti di malattia e di sofferenza, soprattutto al termine della vita, emerge con particolare evidenza. A dire il vero la mutua dipendenza attraversa tutte le età della vita e tutte le relazioni umane. Anzi, ne costituisce la più specifica caratteristica. E quel che l’Apostolo richiama: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (Rm 13,8). Il cardinale Parolin, in una lettera inviatami in occasione di un recenté Congresso sulle cure palliative, mi scriveva tra l’altro: “Appare allora ragionevole gettare un ponte tra quella cura che si è ricevuta fin dall’inizio della vita e che ha consentito ad essa di dispiegarsi in tutto l’arco del suo svolgersi, e la cura da prestare responsabilmente agli altri, nel susseguirsi delle generazioni fino ad abbracciare l’intera famiglia umana. Per questa via può accendersi la scintilla che collega l’esperienza dell’amorevole condivisione della vita umana, fino al suo misterioso congedo, con l’annuncio evangelico che vede tutti come figli dello stesso Padre e riconosce in ciascuno la sua immagine inviolabile. Questo prezioso legame sta a presidio di una dignità, umana e teologale, che non cessa di vivere, neppure con la perdita della salute, del ruolo sociale e del controllo sul proprio corpo. Ecco allora che le cure palliative mostrano il loro valore non solo per la pratica medica – perché, anche quando agisce con efficacia realizzando guarigioni talvolta spettacolari, non si dimentichi di questo atteggiamento di fondo che sta alla radice di ogni relazione di cura –, ma anche più in generale per l’intera convivenza umana”.

La comunità cristiana e la cura dei malati

Per la comunità cristiana l’accompagnamento dei malati è una costante della sua storia e sempre legata all’utopia della guarigione piena. Fin dall’antichità, le comunità cristiane hanno chiamato Gesù “medico dei cristiani” e la Chiesa “vera e propria clinica”. E’ nota l’espressione di Ireneo: “Il Signore è venuto come medico di coloro che sono malati”. E Origene: “Sappi vedere (nei Vangeli) che Gesù guarisce ogni debolezza e malattia, non solo in quel tempo in cui queste guarigioni avvenivano secondo la carne, ma ancora oggi guarisce; sappi vedere che non è disceso solo tra gli uomini di allora, ma che ancora oggi discende ed è presente. Ecco, infatti, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo”. Potremmo continuare a lungo. Dalla Liturgia di San Marco ove la Chiesa prega: “Signore… medico delle anime e dei corpi, visitaci e guariscici”, a un’antica iscrizione cristiana: “Ti prego, Signore, vieni in mio aiuto, tu solo medico”.

Dovremmo chiederci con maggiore serietà perché oggi, nelle nostre comunità, abbiamo messo da parte queste pagine evangeliche ritenendole di fatto inapplicabili. Non dovremmo riprenderle nella loro forza originaria? Forse, un cristianesimo troppo razionalistico ha spinto a ignorarle. E’ raro sentir parlare di preghiera di guarigione dei malati. Eppure, la domanda di guarigione continua a crescere. Quanti – nella nostra società ipertecnologizzata – ricorrono a pratiche magiche, occulte, esoteriche, per guarire da malattie fisiche e psichiche, delusi dalla técnica medica! Peraltro, cresce il numero dei pellegrini nei santuari che sono ritenuti – dalla pietà dei credenti – luoghi di protezione e di guarigione. E’ una riflessione che potrebbe coinvolgere anche gli ospedali cattolici, in diverse angolature. Del resto, il rapporto tra Chiesa e malattia, tra Comunità cristiana e guarigione, è parte della missione stessa indicata da Gesù. Si potrebbe dire che Chiesa e Medicina hanno lo stesso scopo: guarire i malati. Sappiamo bene che i due termini, curare e guarire, possono essere interscambiabili, anche se vi sono diverse sfumature di diversità. La guarigione eccede la cura e tende verso la pienezza della vita. Gesù che guarisce vuol dire che ridona ai malati la salute nella prospettiva del Regno di Dio. Per la comunità cristiana la cura della malattia è stata sempre legata a questa utopia che spinge verso un duplice oltre: la pienezza della vita e la dimensione comunitaria. Dio è venuto a salvare l’intero suo popolo e ogni singolo membro.

La malattia e la morte segno della fragilità umana

Credo sia importante comprendere il senso della malattia – e della morte – come manifestazione della fragilità umana. La fragilità, la debolezza, il limite – considerati come dannosi e da combattere in ogni modo – in verità è una condizione che va riscoperta nella sua profondità. La fragilità – proprio perché è un “ferita” – spinge a uscire da se stessi per chiedere ascolto, aiuto, amore, compagnia. L’autonomia e l’autosufficienza – l’opposto della fragilità e della debolezza – sognano invece una salute piena. Ma è una illusione crudele. Una società di forti e di autosufficienti, che disprezza i deboli e vulnerabili, è inevitabilmente disumana, anzi crudele. Le persone consapevoli della loro fragilità invece sentono il bisogno degli altri, sanno invocare aiuto, sanno pregare, sanno suscitare una forza di solidarietà e ritessere lacerazioni umane. Vorrei dire che c’è un magistero della fragilità. Sì, la fragilità ci ricorda che tutti siamo fragili, anche coloro che si ritengono sani. Quest’ultimi diventano facilmente arroganti che fanno sentire in colpa chi è caduto nella malattia e nella debolezza. Ma l’apostolo Paolo ci viene in soccorso. Egli afferma: “quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Nella debolezza dell’apostolo si manifesta la potenza di Dio. La fragilità di chi si ammala aiuta chi si crede sano a scoprire i suoi limiti e il suo bisogno di Dio e degli altri. Per una società più umana è decisivo scoprire che la fragilità è una delle strutture portanti della vita: la fragilità ci aiuta a considerare il valore della gentilezza e della mitezza, dell’ascolto e dell’attenzione agli altri, ed anche il valore dell’essere in comunione con le sofferenze, con le attese e le speranze degli altri. Si crea così una comunione straordinaria tra chi cura e chi è curato, tra chi assiste e chi è assistito.

Naturalmente tutti sappiamo quanta sofferenza viene generata dalla malattia. Ed è saggio cercare in ogni modo di ostacolare la sofferenza e il dolore, anche se di fatto sono ineliminabili dall’esistenza umana. E resta l’obbligo di accompagnare chiunque è colpito dalla malattia e dalla sofferenza. In tal senso mi verrebbe da dire, in linguaggio kantiano, che l’accompagnamento è un “imperativo categorico”. Dio stesso ne dà l’esempio: Dio, che non ci protegge da ogni dolore, sempre però ci sostiene in ogni dolore, mai ci abbandona. E questa compagnia d’amore è la prima cura per il malato. La malattia – voi lo sapete bene per esperienza diretta – non è un problema solo di medicina: è anzitutto una domanda di aiuto, di amore, perché si intensifichi la vita attorno a chi la sente ferita e indebolita. Di qui l’importanza della cura, della relazione con i malati: la compagnia del medico, degli amici, della comunità cristiana ha una forza terapeutica. E questo soprattutto in una società che, con i suoi squilibri sociali e i suoi processi di emarginazione, aggrava la già radicale debolezza di ogni persona.

Ha un senso il soffrire?

Anestetizzare la vita da ogni dolore, da ogni angoscia, da ogni preoccupazione è vano e pericoloso. E’ la deriva a cui vorrebbe portare il dilagante narcisismo contemporaneo tutto teso al raggiungimento del proprio benessere, della propria armonia, della propria tranquillità, allontanando ogni angoscia, preoccupazione e ferita. Credo che sarebbe davvero triste, molto triste, questa società, anche perché sarebbe priva di passioni e quindi anche senza sdegno per le sofferenze e per il male che le provoca. Soffrire per il male, angosciarsi per le ingiustizie, è un patrimonio non solo da custodire, ma è da far crescere. Se qualcuno in passato ha parlato di passioni tristi, oggi si parla di passioni deboli. E’ l’inverno dell’amore. La beatitudine degli afflitti, come enunciata dal Vangelo, scuote da questo freddo inverno. La beatitudine riguarda non solo chi è afflitto dal dolore, ma anche chi deve affliggersi per coloro che soffrono. Senza “compassione” – ossia senza un “patire-soffrire” assieme – la vita diviene crudele per tutti. C’è bisogno di un’ascesi che aiuti a stare accanto, a soffrire assieme, come anche a combattere la sofferenza sino ad eliminare il dolore. Questa è somma dignità.

Certamente la malattia e il dolore non vanno ricercati per se stessi, come se fossero un valore in sé. Mi paiono sagge queste parole di Gabriel Marcel: “Io sono incline ad affermare che la sofferenza è un male, ma che l’anima umana, in certe condizioni, può liberamente, cioè con un atto libero, trasformare questo male non tanto in un bene, quanto piuttosto in un principio suscettibile di irradiare amore, speranza e carità. Questo implica che l’anima che si trova nel dolore si apra maggiormente agli altri invece di rinchiudersi su se stessa o sulla sua ferita”. L’apostolo Paolo, cantore dell’agape, ossia l’amore, che “tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”, a Timoteo, suo discepolo prediletto, scrive: “Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato al corsa, ho conservato la fede” (2 Tim 4, 6-7). L’apostolo Paolo suggerisce che la sofferenza può – deve – essere trasformata in un’occasione di crescita ancora più grande dell’amore. Non siamo invitati a rassegnarci al dolore – che va combattuto e curato – sappiamo però che ogni goccia di dolore è preziosa se vissuta nell’amore, in quell’amore che “tutto sopporta” e che non “avrà mai fine” (cfr. 1Cor 12, 7-8). Tale amore lo riceviamo da Dio stesso e, come i talenti della parabola, glielo restituiamo raddoppiato dalla fede che conserviamo anche nella sofferenza e nel dolore.

Certo, restano le domande: quali sono le parole della fede di fronte a chi soffre? Come accompagnare chi è in una condizione di gravissime sofferenze? Come stare accanto a chi continua a vivere ma in condizioni di terribile sofferenza e la morte è ormai alle porte, inesorabile? La prima cosa è evitare le formule stereotipate, affermazioni che invitano alla rassegnazione o peggio a suggerire che è Dio che manda dolore e sofferenza. Non si deve mai dimenticare che Gesù slega dall’automatismo che sovrappone sofferenza e peccato personale. I Vangeli non rispondono alla domanda sull’origine del male. Raccontano, invece, che Dio sta accanto a chi soffre per combattere con lui la battaglia della vita contro il male e la morte. E sta vicino come un Dio Crocifisso: “esperto” nel dolore, che porta “fuori” dal dolore, verso la risurrezione. Diceva Paul Claudel: “Dio non è venuto per spiegare la sofferenza; è venuto per riempirla della sua presenza”. Questa è una delle ragioni che spiega perché i malati dotati di risorse spirituali riescono a far fronte alla malattia con maggiore forza. La fede, potremmo dire, è un presidio terapeutico per l’interezza della persona, ben determinata a sconfiggere – in ogni senso – l’insidiosa alleanza del dolore e della disperazione alla quale siamo così vulnerabili (e talora, per debolezza, anche religiosamente condiscendenti). La fede combatte questa alleanza, che il farmaco convenzionale non arriva a sconfiggere, attraverso un amore che non si lascia intimidire dalla sofferenza. E anche in essa, e fino alla morte, si dispone a rendere testimonianza al Dio della speranza e della vita.

Per una cultura dell’accompagnamento

Sono convinto che il “prendersi cura” del malato richieda un nuovo orizzonte culturale ove la persona umana sia al centro dell’attenzione. Ogni uomo, ogni donna hanno diritto ad essere prese in cura. Solo una cultura dell’accompagnamento può contrastare il narcisismo individualista che sta sempre più indebolendo, anzi corrompendo, il tessuto relazionale delle nostre società. In tale prospettiva le cure palliative – per lo stile di coinvolgimento che realizzano attorno al malato con medici delle diverse discipline, familiari e amici – mentre compiono un’alta opera umanitaria, contribuiscono anche a ricostruire quella cultura solidaristica che rende umano questo nostro mondo.

Siamo consapevoli che noi e coloro di cui ci prendiamo cura siamo creature mortali. E da questo non guariremo né noi né loro. Ma nulla è più commovente della nostra quotidiana lotta contro i segni dolorosi della fragilità che manifesta la nostra condizione mortale. Noi lottiamo strenuamente perché non sia l’avvilimento della morte a decidere il valore della vita. Lottiamo, perché non sia la malattia a decidere l’utilità della nostra vita, il valore della nostra persona, la verità dei nostri affetti. Noi accettiamo la nostra condizione mortale. E resistiamo all’illusione delirante di poter cancellare il mistero della fragilità e dell’estremo passaggio della morte. Il lavoro della cura e dell’accompagnamento fanno parte del nostro impegno a rendere umana questa accettazione, impedendole di diventare complicità. Insomma, noi ci rifiutiamo di fare il lavoro della morte: anche solo simbolicamente. L’atto della cura accetterà – e aiuterà ad accettare – il proprio limite invalicabile: con tutta la delicatezza dell’amore, con tutto il rispetto per la persona, con tutta la forza della dedizione, di cui saremo capaci. Nessun atto di cura, però, vorrà portare il segno di quella complicità con la morte: nemmeno nell’apparenza.

Questa mi sembra la sfida – difficilissima e umanissima – che abbiamo davanti e che credo dobbiamo affrontare insieme. L’accompagnamento ad accogliere la necessità di vivere umanamente anche il tempo della malattia e della stessa morte, senza perdere l’amore che lotta contro il suo avvilimento, è l’obiettivo della “prossimità responsabile” alla quale tutti, come essere umani, siamo chiamati. L’intera comunità deve esserne coinvolta. Non staremo a guardare la morte che fa il suo lavoro, senza fare nulla. Ma non faremo il lavoro della morte, che ci libera dal disagio, come fosse un atto d’amore. L’amore per la vita, nella quale abbiamo amato e ci siamo amati, non è più solo nostro: è di tutti coloro con i quali è stato condiviso. E così deve essere, sino alla fine. Nessuno deve sentirsi colpevole del peso che la sua condizione mortale impone alla comunità dei suoi simili. Siamo umani. E l’idea umana della cura contrasta l’idea della malattia come esclusione dalla comunità e colpa imperdonabile. Per non dire del Vangelo, naturalmente, che ce ne libera anche teologicamente.

Prato, Villa del Palco, 8 aprile 2018