Pasqua 2009 – Via Crucis

Pasqua 2009 - Via Crucis

Abbiamo celebrato nelle nostre chiese l’adorazione della croce, ma non vogliamo che questo giorno finisca senza aver ancora una volta rivolti i nostri occhi verso colui che è stato trafitto. Abbiamo davanti a noi le immagini della distesa di bare all’Aquila. Non vogliamo dimenticarle. E’ facile per noi volgere gli occhi da un’altra parte. E’ vero che c’è stata un’espressione di straordinaria solidarietà; anche alcuni di noi continueranno a recarsi tra i terremotati per portare un aiuto. La via crucis non è solo un rito, è lasciarsi coinvolgere da chi soffre, da chi ha bisogno di aiuto. Vogliamo seguire Gesù nella sua via crucis per apprendere da lui come amare, come stare accanto, come prendere anche noi sulle nostre spalle la croce di chi sta peggio di noi.


Gli evangelisti scrivono che dopo aver cenato con i discepoli Gesù uscì da Gerusalemme per recarsi nell’orto degli ulivi. E’ qui che inizia il suo cammino verso il calvario. Non era difficile cari amici restare dentro le nostre case e pensare ad altro, anche perché tutti siamo istintivamente concentrati su noi stessi o su ciò che riguarda da più vicino. E poi la mentalità di questo mondo, anche di questa nostra città di provincia, spinge tutti a separare il proprio modo di vivere da quello di Gesù, mite ed umile di cuore. Del resto Gesù non è stato condannato per aver violato la legge, ma perché sfidava una religiosità fatta solo di pratiche devozionali, perché si opponeva alla mentalità corrente che spingeva tutti a fare del denaro lo scopo della vita, a fare del possesso la ragione delle proprie giornate.


Noi, questa sera, abbiamo intuito che è bene seguire quest’uomo. Siamo usciti di casa per stargli vicino. Forse non sappiamo bene neppure cosa significhi davvero fare la via crucis. In tante parti è una sorta di pratica folkloristica, magari bella a vedersi e comunque va bene che si faccia. Noi vogliamo andare oltre le apparenze e cogliere il cuore della via crucis. Sarebbe amaro, ad esempio, fare la rappresentazione del terremoto. Eppure in alcuni casi si fa la rappresentazione della via crucis come se fosse uno spettacolo. Gesù è morto davvero. E la sua morte ci interroga per cambiare un poco il nostro cuore. Gli stiamo accanto in questa via crucis per cogliere almeno un poco i suoi sentimenti, la sua passione d’amore, una passione che lo ha portato all’assurdità di accettare la morte per noi.


Ieri sera, nella memoria del Giovedì Santo, abbiamo ascoltato dal Vangelo che Gesù amò i suoi e li amò sino alla fine. Noi, invece, amiamo gli altri sino a un certo punto e spesso è un punto molto vicino a noi stessi, talora l’amore coincide con l’amare solo se stessi e poco oltre. Questa sera vedremo cosa vuol dire amare sino alla fine. La via Crucis è la via dell’amore, di un amore che non conosce limiti. Le nostre riflessioni nasceranno dall’ascolto delle parole evangeliche. E’ da esse che ci lasceremo guidare. Ascolteremo i due capitoli della passione secondo Marco, brano dopo brano, fermandoci per sette stazioni. Non vogliamo perdere nessuna parola di queste pagine sante che parlano d’amore, di un amore “senza fine”.


 


Mc 14, 32-42. Gesù al Getsemani


 


 


Gesù si reca al Getsemani. Appena giunto in quel giardino, che lo vedeva ormai quasi ogni sera ritirarsi per la preghiera, si separa dai suoi. Vuole però che i tre più amici gli stiano accanto: Pietro, Giacomo e Giovanni. E, con l’angoscia nel cuore, confida loro: “L’anima mia è triste sino alla morte. Rimanete qui e vegliate”. Gesù ha bisogno di compagnia, lui che pur di stare accanto a noi ha lasciato il paradiso in quell’amicizia straordinaria con il Padre e lo Spirito Santo, ora ha bisogno di amicizia, di conforto. Ma i tre, pur vedendolo prostrato a terra per l’angoscia, non riescono a stare svegli e si addormentano.


Avevano ascoltato le parole di Gesù, ma in fondo non gli hanno creduto e hanno lasciato prevalere la loro stanchezza. Quando non si ascolta davvero un fratello, quando non ci si lascia scuotere dalla Parola di Dio e non ci si lascia toccare neppure dal dolore e dal bisogno di chi ci sta accanto, emerge nella sua cattiveria l’insensibilità e la durezza che abbiamo dentro. Sì, l’indifferenza e la freddezza non sono innocue, sconfinano sempre in crudeltà. Per tre volte Gesù va da loro per cercare conforto, e per tre volte li trova addormentati. Quei tre amici mostrano che tanto amici non sono. Loro dormivano e Gesù era solo nell’agonia.


Mi vengono in mente i tanti anziani spesso lasciati soli. A Terni ci sono molti anziani. Ci sono quelli che stanno nelle case di riposo, ove talora neppure i familiari vanno a trovarli. E poi tanti anche nelle case, ma soli. E in Italia e nel mondo sono milioni e milioni. La loro vita si allunga – ed è un bene – ma rischiamo di allungare anche la loro agonia, mentre noi continuiamo a dormire, o meglio a far prevalere solo i nostri interessi, i nostri comodi, le nostre fissazioni.


L’unico che in quella notte drammatica ascolta Gesù è il Padre. Gesù lo sa, sa che il Padre non dorme e veglia su tutti i suoi figli. Per questo si rivolge al Padre con la confidenza del figlio. E’ una preghiera drammatica ma filiale, Gesù sa che può fidarsi ciecamente di Lui. Per questo, con fiducia profonda, dice: “Non ciò che io voglio, ma quello che tu vuoi”. Del resto era venuto per fare la volontà del Padre e non la sua.


 


Mc 14, 43-52. Gesù viene arrestato


 


Due mondi si confrontano in quella notte al Getsemani. Da una parte c’è Gesù che insegna la mitezza e l’amore per gli altri (ogni giorno stava in mezzo alla gente come un maestro buono), dall’altra un gruppo di uomini, diversi tra loro, tra essi c’è anche un apostolo, i quali però agiscono con spade e bastoni uniti solo dalla volontà di eliminare l’unico innocente. Cari amici, c’è un’alleanza per far crescere la violenza che è incredibilmente vasta. Ne fanno parte uomini e donne, che diciamo normali, ma che diventano una sorta di esercito terribile – a cui noi stessi talora partecipiamo, magari anche solo marginalmente – che avvelena la vita delle nostre società. Tutti ormai sappiamo, anche se non ce lo diciamo come dovremmo, che il primo luogo ove avvengono più violenze sono le nostre case. Non passa giorno che non ci giunge notizia di un crimine avvenuto in famiglia, non tra stranieri, ma tra familiari, tra parenti. E a subire la violenza sono soprattutto le donne e i bambini.


C’è bisogno di svuotare la violenza dalle nostre case, di svuotare le scuole dal bullismo, di svuotare il cuore dei ragazzi dalla violenza generata dalla droga e dall’alcool. E’ impressionante vedere che talora la violenza dei giovani sia un modo per sentirsi vivi. Un giovane francese diceva: “distruggo perché così sento che esisto!” Come non pensare anche alle cosiddette stragi del sabato sera? Dissociarci dalla violenza è un impegno primario da parte di tutti. Dobbiamo erigere una diga per impedire che la violenza invada ancor più la nostra società. L’unica diga possibile passa attraverso i cuori. Sì, non ci sono altri luoghi che i nostri cuori che possono impedire alla violenza di allargarsi. E purtroppo spesso siamo poco attenti a questo. Basta un nulla per farci andare su tutte le furie, basta davvero poco per farci uscire dalla ragionevolezza, per renderci, appunto, violenti, per rispondere male.


Gesù ci insegna la mitezza. Anche in una situazione terribile, resta saldo nel suo atteggiamento mite. Essere miti, è l’unico modo per svuotare il mondo dalla violenza sempre crescente. Del resto non disse Gesù: “I miti erediteranno la terra”? A Giuda che lo tradisce con un bacio, risponde chiamandolo amico, e si oppone al discepolo che usa la spada. I discepoli, tutti, si lasciano travolgere dalla paura e lo abbandonano. Solo un ragazzo resta a seguirlo: bisogna tornare bambini e accogliere con ingenuità la Parola del Signore; bisogna aiutare i ragazzi e i giovani a seguire Gesù e non i miti falsi di questo mondo, il successo, i soldi, la carriera….


 


Mc 14, 53-65. Gesù condotto davanti al sinedrio


 


La violenza si scatena contro Gesù, l’unico giusto; e tutti ne sono complici. L’amore di Gesù per gli uomini, la sua misericordia, il suo impegno per aiutare i deboli, sono umiliati e calpestati. Emergono la falsità, le menzogne, le invidie, usate per eliminare quest’uomo che pure “aveva fatto bene ogni cosa”. Ma Gesù, di fronte a questa ingiustificata ondata di violenza che si abbatte su di lui, resta in silenzio, non ribatte; prende su di sé tutte quelle menzogne. Il sommo sacerdote riprende ancora la parola, ma questa volta con una domanda decisiva. E’ analoga a quella a cui Pietro invece rispose affermativamente per trarsi fuori dal pericolo. Gli chiede il sommo sacerdote: “Sei tu il Cristo?” Se Gesù non avesse risposto molto probabilmente si sarebbe salvato. Ma non poteva tacere il suo Vangelo: “Sì, sono io!” Del resto era venuto proprio per questo, per essere il Salvatore. Non poteva tacere. Alle parole di Gesù che proclama il vangelo, la buona notizia di Dio che era venuto tra gli uomini, il sommo sacerdote si straccia le vesti e condanna a morte Gesù.


Di fronte al coraggio di Gesù ci vengono in mente i tanti martiri per il Vangelo. Nel secolo scorso si calcola che 3 milioni di cristiani hanno testimoniato con il sangue la loro fede in Gesù. Dal 1990 ad oggi sono stati uccisi quasi mille, di cui vari vescovi, più di quattrocento sacerdoti e gli altri religiose e laici. Tutti costoro ci richiamano ad una maggiore prontezza nel seguire il Vangelo. Il martirio è parte essenziale della vita dei discepolo. Mons. Romero, al funerale di un prete ucciso, spiegava così il martirio: “Non tutti avranno l’onore di dare il loro sangue fisico, di essere uccisi per la fede, però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui lo spirito del martirio, cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore… Perché dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Come la dà la madre,che senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio. E’ dare la vita …”.


Mc 14, 66-72. Il rinnegamento di Pietro


 


Pietro è solo. Non è stato capace di difendere Gesù, anzi è fuggito come tutti. Stretto tra l’orgoglio e il dispiacere, torna indietro sui suoi passi e cerca di seguire di nuovo Gesù, anche se da lontano. Sì, potremmo dire che anche in questo Pietro è il primo, il primo di tanti di noi che, appunto, seguiamo Gesù, ma da lontano. Ascoltiamo il Vangelo, ma fino a un certo punto; ci decidiamo a seguirlo, ma non proprio fino in fondo. Ed ecco che anche il primo degli apostoli viene travolto dall’onda della violenza, anche se ha il volto solo di una servetta. Tutto quello che Pietro aveva detto a Gesù poche ore prima – pensiamo anche ai nostri propositi, quanti ne facciamo! – sembra sciogliersi in un batter d’occhio. La paura lo prende allo stato puro. E Pietro cerca di dissociarsi da Gesù, lasciando così che la violenza faccia il suo corso più facilmente. Gesù è ancor più solo dentro quel palazzo ostile: è sbattuto da una parte all’altra, senza che ci sia nessuno a difenderlo. Pietro, solo dopo il tradimento, ricorda le parole di Gesù. C’è stato bisogno del canto del gallo: c’è bisogno del Vangelo per comprendere la nostra debolezza e l’infinito amore che Gesù ha per noi, c’è bisogno di ascoltarlo e riascoltarlo, non basta una volta, ma tre volte, ossia ogni giorno. E’ questo il senso del libro dei Vangeli di ogni giorno che ho voluto consegnarvi. E’ un po’ come quel gallo che ricorda a ciascuno di noi le parole di Gesù. Dopo che il gallo ha cantato per tre volte, finalmente Pietro comprende la sua debolezza e si mette a piangere. Solo la Parola di Gesù ricordata ci fa ritrovare noi stessi e il Signore.


E pensare che la gran parte di coloro che vengono a Messa la domenica ascolta il Vangelo solo in quel momento. E c’è da vedere se ascolta tutte e tre le letture. Capita spesso che appena usciti di chiesa non ricordiamo neppure il Vangelo ascoltato quel giorno. La pratica quotidiana della lettura del Vangelo ci fa stare accanto a Gesù, svuota il cuore della violenza e lo riempie di amore. Abbiamo bisogno, come Pietro, almeno qualche volta di piangere per amore, per aver tradito Gesù.


 


Mc 15, 1-20. Gesù davanti a Pilato


 


 


E’ l’ultimo giorno di vita di Gesù. “La notte in cui fu tradito” è terminata, e “al mattino i capi dei sacerdoti con gli anziani…lo condussero e consegnarono a Pilato”.  Il governatore comprende subito che glielo stanno consegnando per invidia. E tuttavia neppure la giustizia romana resiste alla congiura dei violenti che vogliono eliminare l’unico giusto dalla faccia della terra. L’onda violenta del male sembra inarrestabile; è talmente forte che travolge tutti. Nessuno riesce a resistervi, né i sacerdoti, né la giustizia romana e neppure la folla. Anche se solo pochi giorni prima molti avevano gridato: “Osanna”, ora tutti urlano unanimi: “Sia crocifisso!” Al giusto, all’uomo buono e compassionevole, si preferisce il violento Barabba.


Pilato, che assiste impotente al crescere della violenza, se ne lava le mani divenendone in questo modo complice. Fa quindi flagellare Gesù, ingiustamente, e poi ancor più ingiustamente lo consegna loro perché sia crocifisso. Quanto dolore per Gesù! Un panno di porpora, una canna e una corona di spine. Ecco il re! Ma è re come un agnello mansueto che si lascia torturare e uccidere da coloro che ama senza limiti. Per tutti costoro, e per noi, Gesù “non ha considerato un tesoro geloso l’essere uguale a Dio, ma ha spogliato se stesso assumendo la condizione di schiavo” (Fil 2, 6-7), come dice Paolo. In lui possiamo vedere tutti i condannati a morte e tutti i torturati di questo mondo. E’ l’umanità profanata. L’odio acceca, esalta, e fa trovare anche la crudeltà nel vincere e nel piegare gli altri. Un uomo, una donna, un gruppo, una etnia, un popolo, diventano l’obiettivo contro cui scatenare l’odio di tanti. Più deboli sono i nemici e più ci si sente forti. La mansuetudine di Gesù in mezzo a tanta crudeltà è l’unica fiammella di luce che permette di sperare in un mondo nuovo, non violento.


E’ possibile cambiare il mondo, renderlo più giusto e meno violento. Non rassegniamoci alla cultura maggioritaria della violenza. Lo scorso anno fu approvata alle Nazioni Unite la moratoria per la pena di morte; sembrava impossibile, eppure è avvenuto. Certo resta anche la grande battaglia per l’abolizione. Ci sono circa 15.000 condannati che attendono l’esecuzione. Gesù è morto anche perché nessuno di loro sia ucciso. E assieme a loro ci sono tanti condannati alla morte dall’indifferenza degli uomini. In troppi ci laviamo le mani come Pilato di fronte a uomini e donne colpiti ingiustamente e costretti ad una vita dura.


 


Mc 15, 21-41. Al Calvario


 


Gesù è “consegnato nelle mani degli uomini”. Ma non sono mani che lo aiutano; lo hanno ridicolizzato e offeso. Fra poco lo crocifiggeranno. “Un passante che tornava dai campi” è chiamato ad aiutare Gesù; viene da Cirene, è un africano. Il Cireneo aiuta Gesù a portare la croce sino al Golgota. Quanti stranieri sono venuti e ci aiutano! Eppure spesso li guardiamo con disprezzo e fastidio. In verità, abbiamo bisogno gli uni degli altri. E lui ha aiutato Gesù a portare la croce sino al calvario. Qui, Gesù viene inchiodato sulla croce. Nessuna pietà per lui; solo sofferenza. Il motivo della condanna è scritto sulla tavoletta posta sopra la croce: “Il re dei Giudei”. Per Pilato è un’ironia, per i sacerdoti una bestemmia, per Gesù è il suo Vangelo. Lui è il buon pastore che dà la vita per le sue pecore, Lui è il salvatore che ama fino alla fine quel popolo che pure lo crocifigge. Noi invece mettiamo tanti limiti all’amore, sino a restringerlo solo a noi stessi. E’ facile amare se stessi, e difficile amare gli altri. Sotto la croce rimproverano Gesù perché “non salva se stesso”. Ma come poteva salvare se stesso uno che era vissuto unicamente per salvare gli altri? Quale amore! Sì, ci hai amati sino alla fine, sino alla morte.


 Essa giunge alle tre, ma già da mezzogiorno il buio era calato sulla terra. In verità quella morte era l’unica luce: su quella croce, infatti, moriva per sempre l’amore per se stessi e trionfava l’amore senza fine per gli uomini. Vedendolo morire in questo modo, il centurione esclama: “Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio!”. L’amore ha vinto le tenebre e una luce si è accesa nel cuore di quel centurione pagano. Gesù non è solo, sta tra due condannati a morte. Sì, ancora oggi, nessun crocifisso è mai solo, accanto a lui, accanto ai tanti crocifissi di questo mondo, c’è sempre Gesù che condivide in tutto il loro dolore. Non solo si è fatto simile agli uomini, ma simile ai crocifissi. E questo per quell’amore che non conosce limiti.


Tanti, troppi ancora sono crocifissi, come le vittime delle 25 guerre in corso: i due milioni di bambini morti nei conflitti negli ultimi 10 anni, i 20 milioni di profughi fuggiti dalla violenza, gli otto milioni di bambini che muoiono per fame ogni anno. Con loro Gesù è crocifisso e a loro Gesù dice: “Oggi sarai con me in paradiso”. A noi è chiesto di non voltare la faccia, ma almeno di stare accanto se non sotto la croce, le tante croci del mondo.


 


Mc 15, 42-47. La sepoltura


 


Anche Giuseppe d’Arimatea spinto dall’amore per Gesù non rinuncia a fare qualcosa per lui. Chi vuol bene a quel profeta disarmato ha un’energia nuova nel cuore e con coraggio va incontro ai poveri, ai deboli, ai malati per aiutarli. Quando Gesù era bambino ci fu Giuseppe, uomo giusto e timorato di Dio, che lo protesse dalla furia omicida d Erode. Scrive il Vangelo che “prese con sé il bambino e sua madre” e salvò ambedue. Ora c’è un altro Giuseppe, membro autorevole del Sinedrio, il quale ancora una volta prende con sé non più il bambino, ma Gesù adulto, lo cala dalla croce, lo adagia sul lenzuolo e lo depone nel grembo della roccia. In verità, andando nel sepolcro Gesù scende nelle profondità della storia umana. Gesù disse una volta di sé che non aveva neppure una pietra dove posare il capo. Ebbene neanche al sepolcro ha posato il capo sulla pietra. La Chiesa infatti ricorda la “discesa agli inferi”. Gesù in questo sabato santo non resta nella tomba ma scende nei luoghi più profondi e drammatici della storia degli uomini per raccogliere tutti e portarli con sé alla salvezza del nuovo regno. E’ sceso nell’inferno del terremoto dell’Abruzzo, è sceso in quell’inferno che sta diventando il Mediterraneo che si riempie sempre più dei corpi morti degli immigrati che non riescono a raggiungere la costa, scende nei campi profughi del Kivu che raccolgono migliaia e migliaia di donne di uomini che non hanno più né terra né casa, scende ovunque c’è dolore e angoscia di morte. Vuole raccoglierli tutti, perché nessuno vada perduto. E’ morto per questo. E ha sconfitto la morte perché ormai tutti costoro sino nelle sue mani e li porta nel cielo.


Care sorelle e cari fratelli, siamo con Maria di Magdala e l’altra Maria davanti al sepolcro, ai tanti sepolcri, alle tante croci di questo mondo. Siamo pensosi davanti alla grande pietra che schiaccia la vita di tanti. Tu o Signore vi sei riposto perché la nostra vita porti frutti di amore e di pace. Ti preghiamo: la ferocia che ti ha ucciso, trovi in me, in noi, un amico tuo, un amico di Dio, che da oggi in avanti è più forte nell’amore, e più resistente al Male. Aiutaci, perdonati dal tuo sangue, a vivere come te, a essere figli di Dio, a essere fratelli tra noi, a superare gli abissi dell’odio e dell’indifferenza e a diffondere nel mondo mitezza e pace, serenità e speranza. Amen.