Natale, omelia all’Istituto Giovanni Paolo II

Cari fratelli, care sorelle,

nell’avvicinarsi del Natale ci ritroviamo assieme attorno all’altare per scambiarci gli auguri. E’ una tradizione bella perché ci aiuta a comprendere ancor più la centralità di quel Bambino anche per questa nostra famiglia del Giovanni Paolo II. Quel Bambino ci unisce perché possiamo vivere sempre più intensamente la dimensione della fraternità anche nella nostra vita di professori e studenti delle questioni del matrimonio e della famiglia. E’ con questo bagaglio che anche noi, come quei pastori di allora, ci incamminiamo verso quel Bambino. Pellegrini davvero. E non semplici commemora tori di un evento lontano che non cambia nulla della vita personale e sociale. Il mistero del Natale del Signore deve trasformare la storia sia nostra che del mondo. Il mistero dell’incarnazione del Verbo riguarda personalmente ciascuno di noi e questo nostro mondo di oggi. Diceva Silesius, un mistico del Seicento: “nascesse Cristo mille volte a Betlemme, ma non nel tuo cuore, saresti perso in eterno”. E’ qui il perché ci ritroviamo, oggi.

Sì, il Natale che viene sarà Natale, solo se quel Bambino nasce nel nostro cuore. Ecco perché il Natale torna. In questi giorni ho meditato un bellissimo canto di Sant’Efrem, il poeta teologo della antica Chiesa Sira. Cantava, rivolgendosi a Gesù: “questo giorno è simile a Te; è amico degli uomini. Esso ritorna ogni anno; invecchia con i vecchi e si rinnova come il bambino che è nato. Ogni anno ci visita e passa, quindi ritorna pieno di attrattive. Sa che la natura umana non ne potrebbe fare a meno; come Te, esso viene in aiuto degli uomini in pericolo. Il mondo intero, o Signore, ha sete del giorno della Tua nascita … Sia dunque anche quest’anno simile a Te, e porti la pace tra cielo e terra”. Il Natale chiede a ciascuno di noi di rinascere, di fare spazio alla sua venuta, alla sua parola, alla sua forza di cambiame4nto. Non è scontato tutto ciò. Conosciamo le nostre resistenze, la forza delle nostra abitudini, delle nostre tradizioni, della nostra autoreferenzialità. Non possiamo correre il rischio che egli venga e ci trovi occupati e pieni di noi stessi come quegli abitanti di Betlemme. La nostra società ha reso il Natale un’abitudine. Diceva un vecchio cardinale italiano: Ormai si a Natale si fa festa senza il festeggiato. Abbiamo bisogno di prepararlo.

La Liturgia di oggi ci presenta Giovanni Battista come l’esempio del credente che attende il Natale. Gesù, nei versetti che precedono il brano che abbiamo ascoltato,  presenta il Battista come colui che sa attendere il Signore. Un esempio per i credenti. Il Battista prepara anzitutto se stesso all’incontro con Dio. Lascia la vita molle della città e di chi si rinchiude nei propri comodi o nel proprio egocentrismo, si ritira nel deserto e diviene un uomo spirituale, un credente che si lascia guidare dallo Spirito di Dio non da se stesso. E’ ciò che ogni credente deve vivere. Si tratta di una vera e propria lotta contro se stessi, una lotta fatta di disciplina, di impegno, di perseveranza nella preghiera, di distacco dalle ricchezze, di obbedienza al Signore, di legame del proprio cuore a Dio. E’ questa “violenza” contro se stessi – come ci ricorda il Vangelo – che edifica in noi l’uomo interiore. Uno spirituale com’era il patriarca Atenagora, diceva: “La guerra la faccio a me stesso, per disarmarmi, per vincere il male che è in me. Si tratta della guerra più aspra, quella contro se stessi. Bisogna riuscire a disarmarsi”.

E’ con uno spirito disarmato – questo è il senso del vestire austero – del battista. E così poteva aprire con la sua predicazione una via nel cuore degli uomini della sua generazione. E Gesù può dire di lui che è “il più grande tra i nati di donna”, ossia che è un fratello unico inviatoci perché prepariamo il nostro cuore ad accogliere Gesù come il Salvatore. Dicendo inoltre che il più piccolo nel regno è più grande di Giovanni, Gesù vuole esortare i discepoli – ciascuno di noi – a scoprire la grandezza della vocazione ricevuta dal Signore e che tante volte calpestiamo con la nostra pigrizia e la nostra grettezza, con le nostre abitudini e la nostra avarizia, anche del pensiero e della riflessione. Ma il Signore ha riposto nei suoi discepoli una fiducia straordinaria: “chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste” (Gv 14,12). Che ne facciamo di questa fiducia che il Signore ripone in ciascuno di noi per compiere opere persino più grandi di quelle che ha fatto il Signore? Il Natale non deve significare una rinascita sia personale che anche come Istituto?

Certo, dobbiamo ascoltare Isaia che ci ricorda che siamo vermi e larve. Avere consapevolezza di questo fa parte della lotta spirituale contro il proprio orgoglio, contro la presunzione che in ci fa ritenere migliori degli altri. Ma il Signore per bocca del profeta ci dice: “Non temere vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele; io vengo in tuo aiuto”. E’ questo il Natale, il Signore che viene in aiuto dei vermiciattoli e delle larve. “Non temere, io ti vengo in aiuto!”, dice il Signore. L’invito si ripete più volte in questa pagina del profeta come a voler vincere la nostra paura di uscire all’aperto e di restare chiusi nella sicurezza delle abitudini egocentriche. Il Signore insiste: “Tu sei il mio servo, ti ho scelto, non ti ho rigettato”. Dobbiamo confidare più in Gesù che in noi stessi e nelle nostre opere. Il Signore è il sostegno del suo popolo, il ristoro per i poveri, il liberatore dei prigionieri. E se è vero che “i miseri e i poveri cercano acqua ma non ce n’è e la loro lingua è riarsa per la sete”, è anche vero che il Signore viene presto in loro aiuto. Il profeta parla del nuovo esodo del popolo d’Israele dall’esilio babilonese: sarà una liberazione ancor più profonda della prima. Infatti, se durante il cammino nel deserto dopo la liberazione dall’Egitto il popolo d’Israele fu dissetato con acqua che scaturì da una roccia, ora il Signore trasformerà l’intero deserto in un “lago di acqua, e la terra arida in una fontana”. Quel bambino che nasce è la nostra forza. Se lo accogliamo diventiamo come quelle trebbie con lame acuminate che tritano monti e colline sino a ridurle in polvere. Quel Bambino ci rende non solo buoni ma anche forti, come diceva Bonoheffer.