Ma perché essere vecchi è diventata una colpa?

La vecchiaia fa paura, porta con sé le ansie legate alla salute, alla solitudine, all’inoperosità. La scienza allunga questa età della vita ma chi si occupa della “qualità” della vita degli anziani? “L’età da inventare”, il libro di mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontifi cia Accademia per la Vita, si occupa e si preoccupa di rispondere a queste domande.
E delinea – anche in base al suo incarico di Presidente della Commissione per la riforma della assistenza sanitaria e sociosanitaria per la popolazione anziana – un nuovo approccio a questa fase della vita. Di seguito un estratto dal testo, che anticipiamo per gentile concessione dell’editore Piemme e dell’autore.
Si potrebbe dire che la patologia principale della vecchiaia è l’idea che oggi ancora ne abbiamo: i vecchi sono diventati “decrepiti” nella nostra mente prima del loro decadimento fisico.
Non sapendo che cosa essi possono fare li condanniamo a essere “inutili”, sino a spingerli a sentirsi inutili, anzi in colpa per essere diventati vecchi e perciò di peso. Eppure già da ora possiamo comprendere quanto un anziano con la sua sola presenza – magari per il suo carattere e, come vedremo, per ciò che rappresenta con la sua stessa debolezza – può essere di grande utilità alla società intera. Ma c’è di più, molto di più. Non c’è dubbio, infatti, della necessità di una nuova coscienza generazionale.
Una coscienza che può e deve sorgere, svilupparsi e diffondersi anzitutto tra gli stessi anziani. La vecchiaia non è più un periodo residuale della vita, una lenta e mesta cerimonia di congedo, una categoria omogenea dai bisogni omogenei, ma un grande e variegato continente dell’umanità con orizzonti insperati e insospettabili: ci sono coloro che continuano a lavorare, che viaggiano, che si contendono con i giovani spazi di intervento e coloro che sono invece emarginati, malati, soli e non auto-sufficienti.
La poetessa novantenne Edith Bruck non cessa di esortare la società a lasciar parlare gli anziani, ad ascoltare le loro voci, i loro racconti. Lei stessa continua a scrivere romanzi e poesie.
Un’indagine della Università Cattolica di Milano rileva che il 7% degli uomini e l’83% delle donne tra i sessantacinque e i settantacinque anni si sentono “poco” o “per nulla” anziani. Insomma la condizione anziana è molto fluida e plurale, senza un riconoscimento sociale defi nito e univoco. Peter Laslett, uno dei padri della demografia storica, nel suo volume “Una nuova mappa della vita” suggerisce una visione positiva del nuovo mondo degli anziani. E sottolinea che non siamo di fronte a un problema – come molti pensano – bensì a un’opportunità unica per il progresso della società contemporanea, sebbene lui si riferisca soprattutto alla “terza età” come la parte ancora attiva della popolazione anziana, ritenendo invece la successiva molto problematica, con i disagi di un invecchiamento che porta alla dipendenza. Ma si deve fare attenzione – ne parleremo – a non vedere la vecchiaia buona solo se è giovanile…
In ogni caso, l’allungamento degli anni di vita apre notevoli prospettive per l’edificazione di una società più umana, con gli stessi anziani che devono partecipare a tale edifi cazione. Molte sono le teorie sul “perché” invecchiamo, quel che a me pare importante sottolineare è il “come” invecchiamo; ossia come affrontare i trent’ anni in più di esistenza che abbiamo guadagnato. Già da ora gli studiosi iniziano a dividere in tre la “terza età”: “giovane vecchiaia” (dai 65 ai 75 anni), “media vecchiaia” (dai 75 agli 85) e “vecchia vecchiaia” (dagli 85 in avanti).
Insomma, abbiamo moltiplicato anche la vecchiaia.
Una cosa è certa: per la prima volta nella storia umana sta sorgendo un popolo di centenari. E non abbiamo riferimenti o modelli a cui guardare. (…
) La generazione dei figli del baby boom, che per prima si confronta con la propria vecchiaia prolungata di decenni, non è preparata: non sa come affrontare i lunghi anni che ha davanti a sé prima della morte. Non è più il vecchio di un tempo a invecchiare, ma un giovane cresciuto nella convinzione che la morte non lo riguarda.
Insomma, si è sempre troppo giovani per morire. E così la prospettiva di poter prolungare indefinitamente la vita attraverso le tecnoscienze porta alcuni a non concepire più la morte come una realtà ineluttabile. Siamo la prima generazione nella storia che, alla promessa delle immortalità dell’anima di cui in molti ormai dubitano, sostituisce progressivamente quella di una relativa a-mortalità del corpo. Insomma, ci troviamo di fronte una nuova grande sfi da.
(…) In effetti va facendosi sempre più strada la scelta di programmare una “morte volontaria”. È l’illusione di sbarazzarsi della prova della morte – sfuggendo così all’angoscia del trapasso – anticipandone la scadenza con una propria decisione. È la logica del consumo che ha inghiottito tutto, anche la vita, la nascita e la morte. Tutto è divenuto bene di consumo: si fabbricano, si usano e si gettano via, messi a disposizione dell'”Io” divenuto il “padrone assoluto”: tutto è mercifi cato.
(…) Certo, la vecchiaia, per sua natura, sfocia nella morte. Ma – e qui si leva la voce del credo cristiano come di tanti altri credo – la morte non è la negazione assoluta, ossia la defi nitiva scomparsa dalla scena della vita.
L’uomo che invecchia non si avvicina alla “fine”, quanto piuttosto all’eterno. La morte è il valico di questo passaggio. Non azzera la vita, la conduce verso la sua destinazione. Purtroppo la nostra epoca sembra volerlo dimenticare. Per questo azzera sia la morte… sia l’oltre.