Lettera a don Ausilio Zanzotti per i suoi 100 anni

Con gioia mi unisco alla comunità parrocchiale di San Lorenzo e all’intera chiesa diocesana di Terni Narni Amelia per festeggiare don Zanzotti che compie cento anni. Tutti noi negli anni passati gli abbiamo augurato di raggiungere questa età.

Ed eccoci ora giunti a questo singolarissimo traguardo. Gli diciamo il nostro affetto e la nostra riconoscenza per il lungo lavoro pastorale che non ha ai cessato si svolgere, E a tutti: vicini o lontani, anche quelli – davvero tanti! – che lui ha accompagnato nel cielo, siamo uniti con “un cuore solo è un’anima sola” per ringraziare il Signore per questo suo servo buono e fedele!”.

Cari parrocchiani, siete davvero fortunati a poter gustare ancora la presenza di don Zanzotti; fategli sentire la forza del vostro grazie e il calore della vostra amicizia. E’ quel che rende felice il cuore di un sacerdote. Voi sapete, infatti, che quel cuore, per tanti lunghi decenni, ha battuto per voi, per i vostri nonni, anzi per i vostri trisnonni e bisnonni – per voi, per i vostri figli, per coloro che si sono avvicendati nella vostra parrocchia, per tutti. E’ una vera e bella corona di gloria per lui. Caro don Zanzotti, grazie.


Grazie anche da parte mia. Tu sai bene che la vera ricompensa per un pastore è l’amore del Signore, della tua Chiesa e dei tuoi fedeli. Oggi vogliamo mostrartelo tutti assieme. E il Signore ti accompagni ancora e ti benedica

+ Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, arcivescovo emerito di Terni Narni Amelia

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INTERVISTA A DON AUSILIO ZANZOTTI (di Arnaldo Casali)

Nato a Vacone in Sabina, il 25 giugno 1916, è stato ordinato sacerdote il 28 giugno del 1942, in piena guerra. Dopo essere stato rettore del seminario vescovile si è trasferito a Terni dove è diventato segretario del vescovo, parroco del Duomo e infine, parroco di San Cristoforo, incarico in cui è coadiuvato oggi da don Franco Semenza.

Come prete lei è “nipote d’arte”.

«Mio zio, don Leandro Gelasi, è stato parroco di Collescipoli ed economo della diocesi. Un uomo molto attivo ed efficace nel suo campo: ha messo a posto l’economia di molte parrocchie, che allora avevano stabili e benefici terrieri».

E lei, come ha deciso di diventare prete?

«A Vacone non c’era la quinta elementare ma io ero uno studente modello. Mio padre rimase colpito perché una volta, a Poggio Mirteto, sentì l’ispettore scolastico parlare di me, tanto i miei risultati erano brillanti. Il mio parroco disse al vicario generale della diocesi – monsignor Galeazzi – che bisognava farmi studiare perché ero molto portato».

Quindi voleva studiare.

«Quando mio padre mi chiese se ero contento di entrare in seminario io dissi: di studiare sì, ma farmi prete no. La vocazione è arrivata solo quando avevo 21 anni».

Come era la Chiesa in quel periodo?

«Era reduce dai Patti Lateranensi. Sono stati firmati nel 1929 e io sono entrato in seminario nel 1930»

È stato ordinato prete in piena guerra.

«Era il 1942 ed era proibito anche fare pranzi per festeggiare. Ma mio fratello era riuscito non si sa come a procurarsi dei confetti. Ricordo una volta sentendo il rombo dei bombardieri americani salii sul campanile di Narni e vidi quasi una foresta alzarsi da Terni: erano le colonne di fumo. Presi l’abitudine di andare a Terni a dare una mano negli ospedali: vedo ancora davanti a me il sangue che scorreva sotto i letti».

Quindi veniva a Terni dopo ogni bombardamento?

«Sì, anche se per un periodo mi fermai per aiutare il vescovo nell’opera di assistenza. Mi diede l’incarico di trovare gli indirizzi dei feriti, che poi affiggevamo sulla porta del Duomo perché per i parenti fosse facile trovare il luogo di ricovero».

Come si spostava da Narni a Terni?

«In bicicletta, e andavo veloce. Dopo la guerra comprai anche una motocicletta, che mi ha lasciato una cicatrice in faccia»

Cosa è successo?

«La moto era un residuato di guerra. Ho investito un carretto che camminava senza luce posteriore e mi sono sfasciato la faccia. In ospedale il dottore cuciva la ferita con l’arte di un ciabattino mentre chiacchierava con un amico e si complimentava perché non strillavo. Ma io non strillavo per tigna, non perché non mi facesse male!».

Il primo vescovo che ricorda?

«Cesare Boccoleri, secondo vescovo ad aver avuto sia la diocesi di Terni che quella di Narni. Grande oratore. Per me è stato un padre. Fu trasferito a Modena nel 1940».

Come erano i rapporti della Chiesa con il regime fascista?

«A Narni occuparono una parte del seminario e catturarono un sacerdote molto impegnato e fragile di salute. Io andai dal capo dei fascisti a protestare, perché l’avevano messo in prigione senza dirlo al vescovo. Peraltro anche se simpatizzava per gli alleati non era un partigiano. Siamo riusciti a farlo rilasciare».

A ordinarla prete fu il vescovo Felice Bonomini.

«Una figura meravigliosa. Austero, rigido, ma davvero un santo. Non mi permise di continuare gli studi a Roma dicendomi: non ho bisogno di sacerdoti laureati, ma di sacerdoti santi. Io, per tutta risposta, non sono diventato né laureato né santo!».

Bonomini fu l’unica autorità a restare a Terni sotto le bombe.

«Quando vennero gli alleati rifiutò di suonare le campane a festa dicendo che non voleva festeggiare chi aveva ucciso tanti suoi fedeli»

Terni fu rasa al suolo.

«Più di 70 bombardamenti».

E ogni volta che c’era un bombardamento lei scendeva da Narni?

«Una volta raccolsi per strada delle schegge di una bomba ancora arroventate. Forse ero incosciente, ma non ho mai avuto paura e non sono mai entrato in un rifugio».Ma lei, durante la guerra, da che parte stava?«Una volta sulla strada tra Narni scalo e il seminario incrociai un gruppo di tedeschi ubriachi. Uno mi venne incontro e mi domandò con cipiglio: Duce o Badoglio? Io alzai le mani dicendo: Cristo!».

Ma ce l’aveva più con Mussolini o con gli americani?

«Non puoi parteggiare per chi ti sta bombardando, ma sapevamo che la guerra era sbagliata. Come tutte le guerre».

Bonomini era molto amato e gli diedero anche la cittadinanza onoraria, eppure dopo il trasferimento a Como è stato completamente dimenticato.

«È facile dimenticare, specialmente quando cambia il clima politico. E di certo i politici ternani non erano molto portati a ricordare e lodare i preti».

La Chiesa collaborava con i partigiani?

«Il vescovo ospitò in Duomo il Comitato di Liberazione».

In settant’anni di sacerdozio lei ha visto tanti preti lasciare l’abito.

«Putroppo è una cosa che è sempre accaduta, allora come oggi»E lei, mai una crisi?«Le crisi ci sono sempre: si hanno, ma vanno vissute con capacità e forza. Io grazie a Dio ho sempre avuto la possibilità di non cedere»

Trasferito a Terni, ha lasciato il Duomo per andare a San Cristoforo.

«Allora la parrocchia era per antica tradizione sotto il patronato di tre laici, tra cui un duca. Loro volevano dare la parrocchia a un altro prete – che peraltro era più bravo a cacciare fagiani che anime – e fecero persino una sottoscrizione contro di me. Ma io vinsi il concorso».

Il concorso?

«Sì, a quei tempi si diventava parroci per concorso. Appena divenuto parroco ho venduto i beni della parrocchia per costruire una nuova chiesa».

In duomo le è succeduto don Carlo Romani, che è tutt’ora il parroco.

«È stato prima il mio viceparroco, poi ha vinto anche lui il concorso per il Duomo».

Quando ha fatto la nuova Chiesa?

«È stata inaugurata nel 1968, una delle prime chiese sorte dopo il Concilio, e io ho applicato molte regole nuove, come l’altare girato verso il popolo, le confessioni faccia a faccia, il fonte battesimale vicino all’altare».

Come ha vissuto il Concilio?

«Ero felice perché andava incontro a novità, e io sono sempre stato bramoso novità».

Un prete di avanguardia, che ha dato spazio ai laici e alle donne.

«Ho anche fondato una radio parrocchiale, le cui frequenze ho poi regalato a Radio TNA, che ho anche ospitato nei locali della parrocchia. E con il consiglio pastorale abbiamo fondato un giornalino parrocchiale».

Ha realizzato anche la statua che ricorda la visita di San Francesco.

«Secondo la tradizione si fermò a parlare su un pietrone di fronte alla chiesa. Ho fatto collocare la statua proprio su quella pietra e ho scolpito personalmente la lapide che ricorda l’episodio, perché il marmista quel giorno aveva da fare».

Di che cosa va più orgoglioso?

«Della Fondazione San Cristoforo, con cui ho acquistato e restaurato il Pago di Vacone. Un’antica struttura immersa nel bosco dove andavo da bambino e che aveva vissuto un forte degrado. Ora è a disposizione degli scout e di chiunque voglia utilizzarla per campi estivi in montagna. Penso che sarà una delle poche cose che lascerò in eredità quando arriverà il momento della mia partenza da questo mondo, che ritengo ormai non lontana».