“Le sentenze di morte sono una sconfitta Serviva un consulto”
Monsignor Vincenzo Paglia è presidente della Pontificia accademia per la vita, l’organo vaticano che si occupa dei temi della tutela della vita, della bioetica e del dialogo tra scienza e fede.
Oggi è una giornata dolorosa per la morte del piccolo Alfie. Quale è il suo commento?
«Il primo pensiero si unisce a quello del Papa di pregare il Signore che certamente è stato vicino al piccolo Alfie, lo ha accolto, lo ha accudito e non ha mai staccato nulla, tanto meno il suo abbraccio».
Questa vicenda ci mostra ancora una volta, ed è bene ribadirlo, che nessuna persona è inutile anche se è di pochi mesi e destinata a una conclusione tragica della sua malattia.
«Nulla è inutile, tutto va tentato. E Alfie, anche se in maniera drammatica, ci insegna che è terribile abbandonare o dare sentenze di morte, soprattutto verso i più deboli e indifesi».
Questa vicenda ha creato un forte dibattito su ciò che fosse giusto fare.
«Nessuna sentenza, di nessun tribunale, può decidere della morte o dell’abbandono delle cure. Ogni decisione deve coinvolgere in maniera radicale anche la volontà dei genitori».
Che insegnamento possiamo trarne?
«Questa vicenda mostra una sconfitta di tutti: di chi affida a una sentenza una decisione e di chi solo emotivamente afferma una sua idea. Quale è stato il vero nodo che purtroppo non è stato sciolto se non forse quando era troppo tardi? Quella che io chiamo una alleanza terapeutica, o alleanza d’amore, tra medici, infermieri, malato se può esprimersi, genitori e familiari che assieme decidano quale è il bene migliore del malato. Rinchiudersi nel percorso giuridico è a rischio di disumanità».
Anche lasciarlo morire di stenti è un accanimento terapeutico?
«Mi unisco a quanto detto qualche giorno fa da papà Thomas: aver ritrovato un colloquio, un dialogo, chiedendo la sospensione di comunicati. La delicatezza del rapporto dei genitori con un figlio e con chi lo sta curando deve essere tenuto fuori dalle battaglie procedurali. Questo rapporto, raggiunto l’ultimo giorno, doveva arrivare molto prima. E mi è parso particolarmente violento il fatto che non ci sia stata la possibilità, anche tra clinici e ospedali, di consultarsi in maniera umile e onesta. Nessuno ha la verità in tasca».
Non farlo venire in Italia è stata un’occasione persa?
«Questo non lo so, non sono un dottore. Dico però che andava tentato un consulto medico più ampio, perché il giudizio doveva nascere anche con più pareri medici».
Quale è l’impegno della Pontificia accademia per la vita?
«Convocheremo studiosi di diverse discipline – cliniche, psichiatriche, teologiche e giuridiche – per esaminare come comportarsi in questi casi, per evitare di trovarsi impreparati e reagendo sull’impeto dell’emergenza, che non è mai una buona consigliera.
Come commenta l’allontanamento di don Gabriele Brusco, il sacerdote italiano che era al capezzale di Alfie e che due giorni fa è stato “cacciato” dall’ospedale?
«Non conosco i dettagli, ma certamente impedire una consolazione anche spirituale è davvero da condannare con decisione. Il malato, in qualunque condizioni mediche si trovi, deve essere sempre curato in tutti i modi, comprese le carezze dei genitori, il conforto di un amico, la parola spirituale e religiosa. Mi auguro che Alfie possa insegni, forse a sua insaputa, quanto è urgente la nascita di una cultura dell’accompagnamento che non viene mai interrotta».