Le parole della cura dalla nascita al morire contro la cultura dello scarto

Desidero anzitutto ringraziare sua eccellenza l’ambasciatore Pietro Sebastiani sia per l’invito sia per il tema che ci ha proposto. La questione della cura è infatti un tema di particolare importanza e interesse, ma per nulla popolare ai nostri giorni. Essa dice un atteggiamento del tutto contrario a quello che sembra oggi più di moda, che mette al centro il privilegio del proprio interesse a scapito degli altri, che vengono ignorati ed esclusi. La cura riguarda non solo tutto l’arco dell’esistenza, che si estende dalla nascita al passaggio della morte, ma anche va oltre la dimensione della salute o il comparto della sanità: essa dice qualcosa di decisivo nella nostra comprensione delle relazioni umane nel loro complesso. Riguarda infatti sia il livello delle relazioni interpersonali, sia quello del loro strutturarsi sul piano sociale.

Etimologia del termine “cura”

Come suggerisce il titolo, possiamo prendere l’avvio della nostra riflessione proprio dalla provenienza della parola stessa (“cura”). Essa infatti è molto suggestiva ed evoca diverse dimensioni che toccano radicalmente l’esistenza. Anzitutto nella radice del termine troviamo il rinvio a “cor” cioè al cuore, che alcuni studiosi di etimologia collegano all’espressione “quia cor urat”, perché scalda il cuore, ossia lo sollecita e lo coinvolge. La pratica della cura rinvia quindi alla reciprocità di una relazione che implica l’accorgersi, l’accordarsi e il ricordarsi. Ed è significativo che il luogo principale in cui si svolge la cura sia l’ospedale, cioè uno spazio definito dalla pratica dell’ospitalità. E già questa suggestione dell’etimo ci sollecita a considerare quale contraddizione si apra in uno spazio dedicato alle pratiche umane della cura, quando esso si risolve nella mera funzionalità dei dispositivi.

Potremmo anche accennare al fatto che la parola “curato” contiene la stessa radice: si tratta di un sacerdote a cui è affidata la cura spirituale di una popolazione. E d’altra parte da cura non viene curia, che deriva piuttosto da kurios – signore. Meglio quindi essere “curato” che “curiale” (nel senso di frequentare le “curie”) … Del resto nel vocabolo in esame troviamo anche una risonanza che evoca l’essere accorti, cioè il procedere in modo avvertito, assennato e competente, così da infondere sicurezza. Dunque, nella cura, non si tratta soltanto di assistenza e di efficienza. La cura chiama in causa intelligenza e sapienza, competenza e sensibilità, esperienza morale e qualità spirituale.

La deriva tecnologica e i suoi paradossi

La cura trova la sua forma più esplicita nelle situazioni in cui la persona si confronta con la malattia, il dolore e la sofferenza. Per far fronte a queste esperienze, la medicina ha progressivamente sviluppato – a partire dalla “nascita della clinica”[1] moderna, con il suo sguardo medico e la sua profonda riorganizzazione del sapere – una separazione tra corpo e persona. Il corpo (umano) veniva così relegato in un campo di conoscenza empirica, divenendo sempre più tecnologicamente (e politicamente) controllabile. Le scienze, secondo il loro metodo, utilizzano categorie che inquadrano gli organismi viventi in una logica oggettivante che, di fatto, è portata a mettere tra parentesi l’esperienza vissuta propria della corporeità umana. Mettere però tra parentesi – anche solo per motivi metodologici – tali dimensioni significa considerarle di fatto irrilevanti, sino a farle scomparire dall’orizzonte della conoscenza e delle pratiche della cura. La conseguenza è che l’essere vivente viene studiato e trattato al di sotto del suo vissuto reale. E ancora di più, a distanza dal profilo complessivo del suo essere personale e relazionale, il cui senso è irriducibile alla funzionalità dei suoi organi e all’efficienza delle sue prestazioni.

Questa deriva funzionalistica della cura, che lo sviluppo tecnico induce a sottovalutare, è poi rinforzata da un secondo elemento di natura (almeno inizialmente) pratica. E’ ovvio che non si debbono affatto sottovalutare i risultati positivi che la tecnica ha portato all’umanità potenziando l’agire dell’uomo, riducendo la sua fatica e migliorando il trattamento delle malattie e più in generale il suo benessere. Ma la ragione strumentale e calcolante che sta alla base della tecnica – proprio a motivo dei successi ottenuti e dell’alleanza stabilitasi con i poteri economici -, si sta imponendo come paradigma tendenzialmente esclusivo, a scapito di altre dimensioni o forme della ragione in cui l’umano si conosce e si riconosce, si pensa e si cerca. Insomma, rischia di imporsi una sorta di dittatura della tecnica strumentale, che vive la sensibilità umana come un ingombro. La Tecnica assume così una vera e propria funzione di indirizzo e di selezione delle pratiche della cura, di condizionamento delle scelte e dei fini umani che orientano la prassi e plasmano la mente. Diviene una potenza assoluta: fino a coltivare la malcelata ambizione di far divenire l’essere umano il prodotto totale dei dispositivi tecnologici. L’umano, reso totalmente disponibile a essere un prodotto dell’uomo, viene determinato dalla volontà tecnica: ossia supporto organico per prestazioni calcolabili. Corpo e vita umana rischiano di essere sottomessi e inghiottiti dalla logica dei dispositivi e del mercato: la vita, la sua lunghezza, la sua qualità tendono a trasformarsi in merce, all’interno di una forma di scambio economico. Le qualità dell’umano che non sono funzionali a questa trasformazione verranno scartate e – infine – soppresse.

Il percorso seguito dalla medicina odierna conduce così a degli  autentici paradossi, che evidenziano una eterogenesi dei fini dei quali si onora fin dalla sua nascita. La capacità della biomedicina di trattare le malattie acute comporta spesso la produzione di situazioni patologiche croniche. Alcune sono decisamente sconcertanti. Per es. quelle che vengono definiti “stati vegetativi” (che in realtà non sono né “stati”, perché sono molto dinamici e oscillanti, né “vegetativi”, perché gli umani non sono mai equiparabili alla condizione vegetale). Ci sono per altro situazioni patologiche che presentano evidenze meno clamorose e al limite, le quali non sono meno pervasive per il modo in cui incidono pervasivamente sulla qualità della vita e sulla esperienza del senso. Si pensi all’AIDS, che negli anni ’80 lasciava pochi anni di vita a chi ne era colpito, mentre oggi l’infezione può controllarsi fino a giungere a morire per altre cause. Sempre più quindi ci troveremo in condizioni di co-morbilità, avvalendoci di protesi e di materiali bionici che suppliscono a funzioni biologiche che i nostri organi non sono più in grado di svolgere. Allungare la vita significa allungare il tempo di convivenza con le malattie.  E pertanto, rendere più seria e importante la ricerca dei presidi che devono integrare l’esperienza esistenziale e sociale di pratiche della cura all’altezza della dignità e degli affetti della persona umana.

Un secondo paradosso lo possiamo riconoscere nell’occultamento della domanda di senso che la sofferenza, la malattia e la morte incessantemente pongono. Gli interrogativi che esse sollevano vengono spostati dal terreno dei significati e dei valori a quello delle soluzioni tecniche, riducendoli a problemi di funzionalità psichica e di efficienza organica. L’essere umano rischia di diventare egli stesso ostaggio della tecnica che, con lo scopo di superare i limiti di autonomia e di aumentare le abilità di prestazione, prende il sopravvento sulla capacità di sostenere l’interiorità e di arricchire le relazioni. Ossia, i luoghi in cui propriamente sono custoditi la dignità e il senso del proprio essere soggetti di un mondo accogliente e di affetti riconoscibili. Da questo riduzionismo scaturisce un incomprimibile disagio spirituale, che non trova soddisfazione in risposte surrogate. Come diceva già Pascal: “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci” (Pensieri, 168,B). Ma ignorare gli interrogativi che la strutturale fragilità umana solleva non equivale a eliminarla. Essi risorgono appena si incontrano persone in situazione di grave sofferenza o si è direttamente colpiti dalla malattia e dall’angoscia che essa provoca.

Riconoscendo questi paradossi ci si può legittimamente domandare se essi non siano effetto dell’incuria e della trascuratezza, cioè di un atteggiamento che ha progressivamente dimenticato ed occultato dimensioni determinanti della cura.

Dall’incuria alla cura: assumere responsabilmente la vulnerabilità

Diventa quindi possibile chiarire che la guarigione, si può sempre sperare, ma non può essere sempre garantita. Quel che si deve assicurare è l’impegno ad accompagnare in modo fedele e attento senza mai abbandonare nessuno all’esperienza di uno svuotamento che è costretto a viversi come un non essere-più-niente. È quanto gli antichi esprimevano con l’adagio: medicus curat, natura sanat, (Deus salvat). Il successo della guarigione non è nella disponibilità dell’onnipotenza del medico. La prossimità della cura è sempre una disponibilità dell’umano. L’impegno di chi si rende disponibile a rispondere alla domanda di salute che la persona malata gli rivolge compone il duplice movimento dei suoi sforzi: è proprio in esso che rimaniamo umani e facciamo rimanere umani. La malattia è un male (fisicum), certo: e come tale va riconosciuto e combattuto. Ma la vulnerabilità della nostra condizione mortale costitutiva dell’essere umano. Noi rimaniamo vulnerabili anche in questa epoca in cui la tecnologia e la medicina hanno fatto enormi passi avanti. È una prospettiva su cui anche chi si dedica alle professioni di cura va sensibilizzato: è un importante compito formativo, a cui gli infermieri sono spesso più preparati dei medici. Il diffondersi delle medical humanities nelle facoltà di medicina è da salutarsi con favore da questo punto di vista: riflettere sulle diverse dimensioni e sui diversi modelli che interpretano la malattia, riconoscere le proprie reazioni interiori davanti a persone che soffrono, aiuta a non spaventarsi e a non fuggire, ma a ospitare lo smarrimento dell’altro e il suo perché.

Occorre quindi valorizzare stili di vita e di relazione che non fuggono dalla fragilità, ma assumono l’evidenza del progressivo declino cui siamo sottoposti e che, come abbiamo detto sopra, la medicina contemporanea paradossalmente enfatizza, aumentando il tempo di convivenza con la malattia debilitante. L’elaborazione dei modi umani della nostra prossimità responsabile – inclusiva di tutti i presidi terapeutici a disposizione – non può essere frutto di un impegno individuale, ma è un cammino condiviso: chiede una cultura di armonizzazione del profilo scientifico e umanistico della cura di alto profilo etico e di solida cooperazione della stessa società. Tutto ciò comporta la necessità apprendere in modo nuovo anche la dimensione passiva dell’esistenza, che implica l’affidamento a mani d’altri, nella speranza di trovare mani affidabili e grandezza d’animo, che ci sottraggano all’esperienza dell’abbandono totale. Del resto la passività che ci introduce alla dignità dell’amore dato e ricevuto, mostra la sua essenza umanizzante proprio con l’inizio della vita, nella relazione tra madre e figlio. Fin dall’epoca della gravidanza, la madre fa esperienza nel proprio corpo di un altro da sé che cresce e si espande, con una sua dinamica non disponibile, che marca progressivamente la sua differenza proprio attraverso la dedizione che la fa crescere, quando ancora non ha forze per affermare la propria autonomia e imporre il proprio riconoscimento. È la forma più immediata della cura nei confronti di un ospite che è intimamente familiare e al tempo stesso irrimediabilmente altro. La madre è sollecitata ad articolare la propria identità con l’irruzione di una alterità inedita: che il suo stesso organismo impara a riconoscere, non come un intruso da combattere, ma come altro da accogliere. Una dinamica che coinvolge anche le più fini regolazioni biochimiche, a partire dal sistema immunitario dove risiede l’identificazione biologica dell’organismo, che viene parzialmente disattivato per consentire la crescita del feto.

Il legame iniziale della madre e del figlio ha – nella dimensione biologia come in quella spirituale, indisgiungibilmente – una potenza simbolica radicalmente illuminante a riguardo della cura che fa essere l’umano e lo custodisce come umano. Tutti lo riconoscono. Il limite, qui, è luogo di reciproco riconoscimento e affidamento, che esalta la dignità e la bellezza della cura fin dalla soglia del nostro essere al mondo. E promette che sarà così fino alla soglia del nostro congedo, per quanto esso ci renda, di nuovo, vulnerabili e affidati gli uni agli altri. Nell’ accoglienza della fragilità, anche estrema, evocata dall’atto originario della cura, si costruisce il legame fondamentale che accomuna gli esseri umani: la nostra origine e la nostra destinazione sono sempre affidate alla cura della vita. E dunque, a un atto d’amore che resiste alla fragilità della nostra condizione mortale: senza abbandonarci ad essa. L’umano condiviso, nella radicSeminario di studio «Le parole della cura», sede dell’Ambasciata italiana presso la Santa Sede, 18 giugno 2019.e che ci rende fratelli e sorelle in virtù della cura che ci custodisce dall’inizio alla fine, è proprio questo. Per meno, ogni pretesa e ogni promessa di rimanere umani, è violata irrimediabilmente.

[1] Foucault M., La naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, Paris 1963.