Le conseguenze di Francesco – Intervento al convegno di “Limes”

Francesco “attore geopolitico”: così lo definisce Lucio Caracciolo nell’editoriale di questo numero di Limes. Non è una definizione ovvia. Jorge Bergoglio ha una conoscenza diretta dell’America Latina, è stato più volte in Europa ma conosce poco gli altri continenti, in particolare l’ Africa e l’ Asia, non è mai stato negli Stati Uniti. Anche le sue conoscenza linguistiche sono limitate e la sua esperienza di vita è profondamente segnata dal contesto argentino in cui è vissuto.  Questo papa, inoltre, non ama lo spazio, che per lui è sinonimo di reti di controllo, forme anonime di dominio, occupazione del potere. “Il tempo è superiore allo spazio” ama ripetere, sottolineando che “dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici” (Evangelii Gaudium 223). A Francesco, insomma, non è certo possibile attribuire ambizioni “imperialistiche”. In che senso, dunque, si tratta di un attore geopolitico?

Caracciolo risponde che sono anzitutto la sua biografia e la sua spinta missionaria a farne un attore geopolitico. Tutti ricordiamo le sue prime parole su un papa “preso dalla fine del mondo”. Si tratta del primo papa non europeo da moltissimi secoli e la sua elezione riflette un dato di fatto che si è venuto affermando nel corso del Novecento e che si sta consolidando sempre di più: la maggioranza dei cattolici vive oggi fuori dall’Europa ed è in costante crescita, mentre in Europa il trend va in direzione opposta. L’elezione di un papa non europeo manifesta visibilmente la spinta inevitabile a “metabolizzare”, per così dire, questo dato numerico, ridefinendo il “baricentro” della Chiesa cattolica. L’orbis ha conquistato l’urbs, Lucio Caracciolo ricorda la bella frase di Congar ai tempi del Vaticano II. Non mi pare però che ciò significhi rimettere in discussione il ruolo del vescovo di Roma. Anzi, a suo modo, proprio l’elezione di un papa latino-americano non solo ha portato una nuova linfa al papato ma ha contribuito anche ad una sorta di più forte legittimazione di questa singolarissima istituzione. Non a caso ha voluto alla sera dell’elezione il Cardinale Vicario di Roma accanto a sé.

Ciò che cambia è piuttosto il rapporto tra Roma e il mondo cattolico nel suo complesso: all’interno di una Chiesa cattolica sempre meno europea, con papa Bergoglio anche la Roma che lo ospita si sta liberando dal condizionamento di un orizzonte troppo europeo (e troppo italiano). Nella recente intervista al Corriere della Sera, Francesco ha ricordato di non aver mai parlato – nel suo primo anno di pontificato –  dell’Europa: se pensiamo all’importanza del tema Europa nel magistero di Benedetto XVI la differenza è evidentissima. La scelta del nome, Benedetto, è in rapporto al monaco che aveva contribuito alla formazione della cultura europea. Mi pare interessante il saggio di Scaramuzzi e ben condivisibile il suo invito a non esagerare le differenze tra i due pontefici. E’ nota l’insistenza di papa Francesco perché Benedetto XVI non lesini gli incontri. E volentieri lo vede presente accanto a sé, come è evvanuto nel giorno della creazione dei nuovo cardinale. Ma tornado al tema europeo. Andrea Riccardi, nel suo saggio in questo numero di Limes, nota che le Chiese in Europa soffrono indirettamente della più generale decadenza europea, che spinge questo continente verso i margini delle dinamiche mondiali: hanno perso di visione universale, si sono provincializzate. E’ impressionante il clima antieuropeo che si respira proprio in questi giorni nell’Europa Occidentale.

Naturalmente, è troppo poco sottolineare  che si tratta di un papa non europeo. Ancora più importante è ricordare la sua provenienza dal contesto latinoamericano. Jorge Bergoglio esprime la vitalità della Chiesa latinoamericana – e in particolare di quella argentina – come mettono bene in evidenza Lucio Brunelli e Gianni Valente. Il loro è un saggio molto interessante, da cui emerge in modo concreto ciò che viene spesso indicato in modo generico – e anche con qualche sufficienza – come il primato della pastoralità in papa Francesco. Trovo decisamente felice l’ espressione “geopolitica della misericordia” usata da Brunelli e Valente per indicare come il “decentramento” di cui parla Francesco prima ancora che in chiave ecclesiastica – nel senso della valorizzazione delle Chiese locali e delle Conferenze episcopali nazionali – vada letto come “partecipazione della Chiesa alla storia e alla vita del mondo” (p. 42): il “punto di vista di Dio sul mondo” è anzitutto quello di un amore che spinge la Chiesa ad abbracciare – anche in senso geopolitico – il mondo intero.

Né si deve dimenticare l’influenza del contesto latino-americano nella recezione bergogliana del Concilio che emerge in particolare nel tema della collegialità. A differenza di altri continenti, infatti, l’America Latina presenta tratti culturali comuni, malgrado fortissime differenze. E non è casuale che proprio in America Latina gli organismi di raccordo tra i diversi episcopati nazionali siano stati caratterizzati da maggior vitalità ed efficacia rispetto ad altri continenti. La collegialità non costituisce per Bergoglio un principio astratto ma si inserisce in concreto, da un lato, nel rapporto tra la Curia romana – da lui descritta come una sorta di “intendenza” – e le diverse Chiese locali, e dall’altro in quello tra Chiese antiche e Chiese nuove, un problema cruciale per il cattolicesimo contemporaneo. Al primo problema ha fatto riferimento quando ha parlato degli aspetti cortigiani che ha definito “lebbra” della Chiesa e il secondo è stato da lui richiamato nell’intervista alla Civiltà Cattolica quando ha detto: «Le Chiese giovani sviluppano una sintesi di fede, cultura e vita in divenire, e dunque diversa da quella sviluppata dalle Chiese più antiche. Per me, il rapporto tra le Chiese di più antica istituzione e quelle più recenti è simile al rapporto tra giovani e anziani in una società: costruiscono il futuro, ma gli uni con la loro forza e gli altri con la loro saggezza. Si corrono sempre dei rischi, ovviamente; le Chiese più giovani rischiano di sentirsi autosufficienti, quelle più antiche rischiano di voler imporre alle più giovani i loro modelli culturali. Ma il futuro si costruisce insieme».

La radice biografica è chiave anche per capire l’approccio di papa Francesco ai principali problemi del mondo contemporaneo: gli fornisce una bussola per orientarsi con sicurezza in un mondo che ha avuto scarse occasioni di conoscere  direttamente. E’ il caso della globalizzazione, la grande questione sottesa a molte problematiche di geopolitica attuali. Dice Riccardi: “la globalizzazione, Francesco l’ha appresa nella sua Buenos Aires: una grande capitale globalizzata che racchiude in sé svariati microcosmi religiosi, sociali e culturali. La Shoah e l’ebraismo, l’ortodossia russa e l’Holomodor degli ucraini, il Metz Yergen degli armeni: tutte queste realtà Bergoglio le ha conosciute, frequentate e interiorizzate”(p.67). Questo papa ha capito bene il problema cruciale del mondo globalizzato e in particolare quello delle grandi città cosmopolite che ne sono espressione, da Tokyo a Shanghai, da Rio de Janeiro a Delhi: il problema della convivenza tra uomini e donne diversi per motivi etnici, culturali, religiosi. Il male della globalizzazione, come spiega bene nella Evangelii gaudium, non è solo economico – lo squilibrio crescente tra ricchi e poveri, tra chi è incluso e chi è considerato uno “scarto” – ma anche sociale e culturale, nel senso che disgrega e divide gli abitanti delle città contemporanee. E’ nel contesto delle megalopoli che si comprende l’insistenza di papa Francesco sull’attenzione da avere verso le periferie urbane ed esistenziali per toccare con mano e con sdegno gli inammissibili squilibri che separano i ricchi dai poveri.

Il tempo in cui viviamo, il tempo della globalizzazione è segnato infatti da una fortissima spinta individualista che inibisce l’esigenza profonda presente in ogni uomo e in ogni donna: ossia vivere quegli stretti legami di solidarietà che formano l’unità di un popolo. Tale individualismo – il filosofo francese Gilles Lipovetsky parla di una “seconda rivoluzione individualista” – trova nella famiglia la prima resistenza in grado di contrastarlo. Per questo Francesco considera la famiglia una realtà importantissima che deve essere sostenuta e aiutata. E ha proposto come primo tema, per impegnare tutta la Chiesa in un grande sforzo collegiale, proprio la famiglia. Su questo tema ha voluto un concistoro, un sinodo straordinario e un sinodo ordinario. Chiede che si parli tanto della famiglia, che sui suoi problemi si sviluppi una discussione il più possibile ampia e aperta. Le divergenze di opinione non lo preoccupiamo, perché il papa guarda oltre: anche in questo caso, ciò gli interessa non è dare nuove definizioni o stabilire nuove regole, bensì avviare un grande processo storico per rinsaldare il rapporto tra la Chiesa e le famiglie e rivitalizzare la famiglia, oggi segnata da molteplici ferite. Anche il cosiddetto questionario inviato alle diocesi e di cui si è molto parlato ha questo scopo. Non si tratta infatti di un questionario in senso proprio altrimenti sarebbe stato fatto in modo diverso, più scientifico. Si tratta di uno strumento per “agitare le acque” per accendere una discussione e suscitare un interesse riguardo alla famiglia, insomma per mettere in modo nuove dinamiche. Nella sua prospettiva, infatti, più si parla della famiglia più si sviluppa attenzione verso di essa, più si rafforza questo nucleo fondamentale più si impedisce all’uomo di essere solo e in balia di forze cieche.

L’uomo delle periferie, come ama presentarsi papa Francesco, sa dunque andare in profondità nell’analisi dei fenomeni di globalizzazione e nelle loro conseguenze. Ma sa anche andare lontano? Geopolitica vuol dire entrare in situazioni diverse e complicate, capire realtà e problemi ben oltre l’orizzonte argentino. Proprio questo numero di Limes ci fa vedere come Francesco abbia già mostrato la capacità di muoversi incisivamente su scenari diversi e complicati, come quello della Siria, si cui parla qui Marco Ansaldo, riscuotendo attenzione da parte di tutto il mondo islamico. Io stesso ho avuto modo di apprezzare l’intensità della sua volontà di dialogo con le altre religioni e il grande entusiasmo da lui suscitato in molti leader religiosi, quando li ricevette in occasione dell’incontro internazione Uomini e Religioni, lo scorso ottobre. E poi parlano le sue nomine, a cominciare da quella di Parolin. Francesco ha ricordato più volte in modo positivo l’esperienza diplomatica del card. Casaroli ed è interessante che abbia ripreso ad incontrare i nunzi, una prassi accantonata dal suo predecessore.

Francesco è già entrato – altro risultato inatteso – in uno dei grandi nodi della geopolitica mondiale: è entrato in un rapporto diretto con il ruolo degli Stati uniti nel mondo. Prima che egli si occupasse dell’America, come sottolineano Massimo Faggiolo e Diego Fabbri è stata l’America ad occuparsi di lui, mediaticamente, proclamandolo uomo dell’anno, tra i più popolari del pianeta mentre Obama scivolava oltre la cinquantesima posizione secondo “Fortune”. L’America è andata da papa Francesco prima che Francesco andasse all’America in modo ancora più evidente con la visita di Obama a Roma, intensamente voluta dal presidente americano che ne ha riportato una forte impressione, come ha voluto lui stesso sottolineare. E’ stato un riconoscimento esplicito – un anno fa del tutto imprevedibile – della statura internazionale ormai riconosciuta al papa da tutti i principali leader mondiali: Putin, Merkel, Hollande, la regina Elisabetta…

Qualcosa di simile è accaduto anche per quanto riguarda la grande potenza emergente del mondo di oggi: la Cina. Ne parla in questo numero Giorgio Cuscito, sottolineando l’inusuale interesse manifestato dai media cinesi per l’attuale capo della Chiesa cattolica, a differenza del trattamento riservato ai suoi predecessori. In questo caso, Francesco ha agito subito, evitando di farsi invischiare nel tradizionale immobilismo che blocca i rapporti sino-vaticani da oltre trent’anni, e ha inviato un messaggio di auguri al presidente Xi Jinping eletto pochi giorni dopo la sua elezione. Lo ha rivelato lui stesso nell’intervista a De Bortoli, aggiungendo che il presidente cinese ha risposto ai suoi auguri. Non è una notizia da poco: altri papi hanno scritto a presidenti cinesi, ma questi non hanno mai risposto. Anche su questo terreno, dunque, Francesco ha già colto un  successo sorprendente. Limes non ha potuto registrare questa notizia per motivi di tempo, ma lo scambio tra Francesco e Xi Jinping conferma l’intuizione di fondo di questo numero: ci troviamo di fronte ad “attore geopolitico” di grande rilievo che ci stupirà ancora.