La Vocazione e la missione della Famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo

Una Chiesa missionaria

Abbiamo appena terminato il Sinodo dei Vescovi e nel documento finale si offrono non poche indicazioni sul tema della Famiglia. Siamo in attesa dell’Esortazione Apostolica post-Sinodale per poter accogliere le prospettive che Papa Francesco ci offrirà. C’è già però l’orizzonte nel quale iscrivere le nostre riflessioni e la nostra azione pastorale: è il nuovo slancio missionario che Papa Francesco ha proposto a tutta la Chiesa particolarmente con l’Enciclica Evangelii Gaudium. Il Papa invita le Chiese – e tutti i credenti – ad una vera “conversione pastorale”, ossia a intraprendere con nuovo slancio e nuova passione la comunicazione del Vangelo della Famiglia e della Vita.

E’ necessario mettersi “in uscita” – scrive il Papa – per raggiungere coloro che sono nelle periferie urbane ed esistenziali e comunicare loro il Vangelo in maniera non solo comprensibile ma soprattutto attrattiva. E’ evidente perciò che non basta più continuare come sempre abbiamo fatto, non basta qualche semplice aggiornamento. Il Papa chiarisce: “La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del ‘si è sempre fatto così’. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità” (34). E’ necessario sintonizzarsi personalmente con questa passione missionaria che il Papa ci comunica e che sgorga da Gesù stesso, il quale, come scrive il Vangelo: “vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore” (Mt 9,36ss), chiese di pregare per i futuri operai della messe e inviò i discepoli in missione (Mt 10).

E’ necessario fare nostro lo stile stesso di Gesù così come appare nei Vangeli. Gesù è l’esempio da avere davanti ai nostri occhi. E dobbiamo seguirlo con gioia. Questo è il cuore del messaggio della Enciclica Evangelii Gaudium.  Papa Francesco, dissociandosi da un modo difensivo e negativo di pensarsi nella società, scrive: “La Chiesa in uscita è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che fruttificano e festeggiano” (24). La sfida è profonda, come un cambiamento di ottica e di orientamento: “Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno stato permanente di missione” (25). E’ la “conversione missionaria”: “Ogni Chiesa particolare, porzione della Chiesa Cattolica sotto la guida del suo Vescovo, è anch’essa chiamata alla conversione missionaria. Essa è il soggetto dell’evangelizzazione…” (30).

Sono parole che impegnano e che chiedono un diverso paradigma nell’azione pastorale anche per quel che concerne la Famiglia. Dicevo che attendiamo l’Esortazione Apostolica del Papa sulla Famiglia. Ma ci sono già i testi del Sinodo dei Vescovi e le Catechesi di Papa Francesco sulla Famiglia. Per parte mia presento alcune riflessioni che tengono conto di questo ricco materiale che già abbiamo a disposizione.

La Famiglia in una società globalizzata e individualizzata

Vorrei iniziare queste mie riflessioni partendo dalla situazione paradossale nella quale si trova oggi la famiglia soprattutto nel contesto occidentale. Da un lato infatti si attribuisce un grande valore ai legami familiari, sino a farne la chiave della felicità; dall’altro la famiglia è divenuta il crocevia di numerose fragilità: le rotture coniugali sono sempre più frequenti, è divenuto normale pensare che gli individui possano “fare famiglia” nelle maniere più diverse, e i figli si possono fare aldilà della famiglia. In un orizzonte come questo, la famiglia non è negata, come accadeva in passato, penso a Gide che diceva: “Famiglia, ti odio!”. Oggi la famiglia viene posta accanto a nuove forme di vita e di esperienza relazionale che sono apparentemente compatibili con essa, anche se in verità la indeboliscono sino a scardinarla.

Tale tendenza si iscrive all’interno del più largo processo di “individualizzazione” che caratterizza l’odierna società globalizzata. Negli ultimi secoli abbiamo visto l’affermarsi della soggettività, un passo decisamente positivo che ha permesso l’affermarsi della dignità delle singole persone. Ma oggi stiamo assistendo all’affermarsi di una nuova prospettiva culturale che il noto filosofo francese, Gilles Lipovetsky, definisce: “seconda rivoluzione individualista”. E’ a dire che l’individuo, sciolto da ogni vincolo, si erge a padrone assoluto nello scenario umano. L’io prevale ovunque sul noi e l’individuo sulla società, così pure i diritti dell’individuo avanzano su quelli della famiglia. Ogni desiderio dell’io diventa diritto. E il diritto è chiamato a tutelare l’individuo prima che ogni altra dimensione umana.

In una tale cultura individualista è normale che si preferisca la coabitazione al matrimonio, l’indipendenza individuale alla dipendenza reciproca. E la famiglia, con un capovolgimento totale, più che “cellula base della società” viene concepita come “cellula base per l’individuo”.  Ognuno dei due coniugi pensa l’altro in funzione di se stesso. L’io, nuovo padrone della realtà, diviene padrone assoluto anche nel matrimonio e nella famiglia. Il sociologo italiano, Giuseppe De Rita, parla di “egolatria”, di un vero e proprio culto dell’io.

Le conseguenze di tale atteggiamento si riflettono sulla stessa società che diviene sempre più, se così posso dire, de-familiarizzata, o comunque “a basso tasso di famiglia”, una società fatta di persone sole che se si uniscono lo fanno senza alcun impegno duraturo, ove ciascuno pensa soprattutto a se stesso. L’esaltazione dell’individuo, sciolto da qualsiasi vincolo, porta allo sgretolamento di quei legami che siano un minimo saldi e duraturi. Scrive il filosofo marxista Giuseppe Vacca: “Il riconoscimento per legge del desiderio individuale quale fonte della libertà e del diritto, crea inevitabilmente frammentazione e atomizzazione in ogni campo. Non a caso nascono molte nuove e spesso effimere formazioni politiche sorte dall’impulso a scindersi, alla prima divergenza, da una precedente aggregazione con la cui linea prevalente non si concorda”. Insomma il “per sempre” non gode più di cittadinanza culturale.

Fa pensare, per portare un solo esempio, il fatto che cresca il numero delle famiglie “unipersonali”. La diminuzione dei matrimoni religiosi e civili non si sta traducendo nella formazione di altre forme di convivenza, come ad esempio le coppie di fatto o quelle omosessuali, bensì nella crescita numerica di persone che scelgono di vivere da sole. Qualsiasi legame impegnativo è sentito come insopportabile: è meglio restare soli con se stessi. Quando Zigmund Baumann parla di “società liquida”, fotografa una società strutturalmente incerta nei legami: non ci si può fidare più di nessuno. I rapporti stabili, ritenuti impossibili, non sono neppure da cercare. Anche l’amore è “liquido”. E il desiderio di stabilità affettiva che pure è iscritto nel cuore degli uomini, viene falciato non appena esce allo scoperto. La globalizzazione trasferisce l’individualismo a livello planetario e lo lega inscindibilmente al mercato. E’ il trionfo del consumo.

Il bisogno di “Famiglia” radicato nel profondo dell’essere umano

I legami affettivi duraturi, tuttavia, continuano ad essere un’aspirazione. Le ricerche lo rilevano. In effetti, quando la cultura contemporanea prospetta l’obiettivo dell’autonomia assoluta dei singoli, in realtà inganna perché propone un falso obiettivo. Il bisogno di “familiarità”, che definisce in radice la persona umana, seppure affossato, non è distrutto. L’umanità e i singoli sono fatti per la comunione, non per la solitudine. Ce lo dice il racconto biblico della creazione dell’uomo e della donna. Dio – si scrive nel capitolo secondo della Genesi (2, 18) -, dopo aver creato l’uomo, si rese conto che mancava qualcosa a quel suo capolavoro: “Non è bene che l’uomo sia solo”. E subito creò la donna, una compagnia “che gli fosse simile”. Il senso del racconto è evidente: la vocazione dell’uomo non è la solitudine, ma la comunione nella diversità. Ciascun uomo ha bisogno dell’altro, anzi di un altro diverso che lo completi. Da solo non può esistere. Nel primo capitolo della Genesi (1, 27) si sottolinea questa dimensione comunionale: “Dio creò l’uomo a sua immagine: a immagine di Dio lo creò; maschi e femmina li creò”. La persona umana, fin  dalle origini, non è un singolo, ma un “noi”: l’io e l’altro sono l’uno complementare dell’altro. L’io senza l’altro non è un’immagine piena di Dio, che è invece il “noi”, l’unione complementare tra l’uomo e la donna. Nella creazione stessa, pertanto, è negata l’autosufficienza e iscritto invece il bisogno del “noi”, della comunione, di cui la famiglia è l’archetipo.

Se vogliamo dare solidità alla società è necessario coinvolgere la famiglia. E’ in essa, infatti, che si inizia a costruire, difendere e promuovere il “noi” dell’umanità. Diceva saggiamente Cicerone: “familia est principium urbis, et quasi seminarium reipubblicae”. E’ una dimensione ancor più urgente in un contesto di globalizzazione. La dimensione “famigliare” contiene le diverse forme di società, sino a quella della “famiglia dei popoli”. Potremmo dire che i tratti della “famigliarità” sono una grande sfida di fronte all’anonimato e all’individualismo delle società contemporanee e delle grandi aree metropolitane. Si potrebbe dire che ci troviamo in un crinale storico che, in maniera sintetica, potremmo così semplificare: da una parte, vi è l’affermazione biblica che dice: “non è bene che l’uomo sia solo” (da cui è originata la famiglia e l’attitudine “famigliare” dell’uomo); dall’altra, l’esatto opposto della cultura contemporanea, ossia: “è bene che l’individuo sia solo” (da cui deriva l’individualismo sociale ed economico). L’io, l’individuo, sciolto da qualsiasi vincolo, viene contrapposto al noi, alla famiglia e alla società.

La vocazione e la missione della famiglia

Di qui l’urgenza di ridare dignità culturale e centralità sociale alla famiglia. Essa va riportata nel cuore del dibattito, nel centro della visione della politica e della stessa economia, come pure della vita delle comunità cristiane. Il Sinodo si è posto su questa linea: sul bisogno di “più famiglia”: sia la Chiesa che la società debbono acquistare i tratti della “famigliarità”. E, a sua volta, la famiglia deve acquisire una dimensione più larga, sia ecclesiale che sociale.

Papa Francesco – e il Sinodo – chiedono di tornare a riflettere sul “mistero dell’inizio”. Gesù stesso rinviò a quel che era nel principio, quando gli posero la domanda sulla legittimità del ripudio: “all’inizio non fu così”(Mt 19,8). Già nelle prime pagine della Bibbia viene tracciata la vocazione e la missione della famiglia. Non posso approfondire ora il testo biblico e mi fermo solo a rilevare che all’inizio della storia umana Dio affida ad Adamo ed Eva (in questa prima comunità sono presenti sia la “famiglia umana” che le singole famiglie) il compito di 1) custodire il creato e 2) la responsabilità della generazione: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela”(Gn 1, 28). E’ la sintesi della vocazione e della missione che Dio affida alla famiglia umana, di ieri e di oggi. La famiglia non è stata creata per rinchiudersi in se stessa, ma per generare i popoli e rendere abitabile per tutti la “casa comune”.

E’ questa prospettiva che Papa Francesco propone ai giovani nella via del matrimonio: si tratta di sognare in grande, di pensare la famiglia come il luogo per rendere il mondo più giusto e più bello. Siamo ben lontani dal sogno romantico di “due cuori e una capanna”. La famiglia deve riscoprire la vocazione di “umanizzare” coloro che nascono alla vita. La famiglia – potremmo dire anche grazie ai suoi difetti e limiti – rimane il luogo della vita, il luogo del mistero dell’essere, il luogo della prova e della storia, il luogo per evitare le derive disumane di una società ipertecnica e iperindividualista.

Dio affida il miracolo della vita all’amore fecondo tra l’uomo e la donna: il matrimonio è una chiamata (una vocazione) alla generatività. E’ sulla differenza sessuale che si costruisce la “potenza” generativa. L’unione tra due uguali non sa generare (al massimo soddisfa un bisogno), mentre solo unendo la radicale differenza è possibile all’essere umano adempiere al proprio mandato (alla propria vocazione) di generare e di accogliere la vita. Per questo è nella famiglia che viene scritta la prima pagina della sacralità della vita che nasce, è dall’amore tra l’uomo e la donna che nasce l’accoglienza e la cura delle nuove generazioni, che si genera il dono responsabile della vita. La natura generativa dell’amore di coppia la rende poi capace di accoglienza di ogni vita, capace di accogliere anche chi viene rifiutato. Così l’adozione, l’affido, la cura delle persone fragili in famiglia sono frutto e compito dell’amore tra l’uomo e la donna.

La famiglia e la sequela di Gesù

Non è questa la sede per affrontare il tema del rapporto tra il sacramento del matrimonio e la famiglia che ne è il frutto. E vorrei spendere anche solo una parola sul tema della sequela di Gesù. Come diviene discepola di Gesù? Come segue il Vangelo? Come comunica la fede sia dentro che fuori casa? Sono solo alcuni interrogativi che dobbiamo porci con maggiore attenzione. Non è la famiglia come tale che salva. Gesù conosce bene i pericoli che si annidano nella famiglia se ci si lascia guidare solo dall’amore per se stessi. Se così accade, la famiglia facilmente diventa una gabbia da cui fuggire oppure un luogo di violenze a volte terribili. La Bibbia ci ammaestra su questo punto sin dalla prima pagina. Certamente ci dice che non è bene che l’uomo sia solo. Ma se in famiglia crescono sentimenti egocentrici accade l’irreparabile. Pensiamo al litigio tra Adamo ed Eva, dopo la disobbedienza a Dio; al primo fratricidio di Caino che uccide Abele. Tale consapevolezza fa dire a Gesù quelle parole che a prima vista sembrerebbero contrapporre i legami famigliari con l’invito a seguirlo: “Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me, chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me” (Mt10, 37-38)?

Gesù non vuole affatto cancellare il quarto comandamento. “onora il padre e la madre”! Nella Bibbia vi è una grande chiarezza su questo comandamento, anche se noi lo abbiamo spesso banalizzato riducendolo ai bambini che debbono obbedire ai genitori. In realtà, quelle parole bibliche sono rivolte ai figli adulti perché non abbandonino i loro genitori anziani, anche quando “perdono il senno”. Gesù non vuole abolire tale comandamento, ma affermare che il legame con lui vale più di ogni altro legame. Sì, la sequela del Vangelo è il primo legame su cui fondare tutti gli altri. La stessa famiglia cristiana si edifica su questa roccia che è la fede in Gesù. Questo significa “sposarsi nel Signore”. Vale anche qui la parola evangelica: “Dove sono riuniti due persone nel mio nome io sono in mezzo a loro”.

La prima opera della famiglia come soggetto evangelizzatore, pertanto, è seguire il Vangelo. La sequela di Gesù non solo non cancella il quarto comandamento e i legami famigliari, ma li trasforma profondamente rendendoli più creativi, più robusti e capaci di superare i confini della stessa famiglia. I legami famigliari, irrorati dal Vangelo, spingono ad uscire di casa per creare una paternità e una maternità più ampie, per accogliere come fratelli e sorelle anche coloro che sono soli o emarginati dalla società. Ricordiamo cosa rispose Gesù a chi gli disse che fuori della casa c’erano la madre e i fratelli che lo aspettavano: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3, 35).

I legami famigliari irrorati dal Vangelo svincolano dall’egoismo, dal familismo, dalla chiusura e rendono responsabili di tutti gli altri legami che si stabiliscono. La famiglia diviene un motore di legami da instaurare e da difendere. E riguardano tutte le età della vita: pensiamo ai bambini, agli anziani, ai deboli, ai malati non solo quelli legati dai vincoli di sangue ma a tutti. Le famiglie cristiane sono guidate dall’amore stesso di Dio, un amore che per sua natura va sempre oltre se stessi e si dirige verso tutti soprattutto verso chi è debole.

Le famiglie che vivono nella sequela di Gesù, che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica, che sanno allargare le porte di casa per accogliere chi ha bisogno, che sanno uscire per aiutare i poveri e i deboli, che conoscono la strada degli ospedali e delle carceri, che sanno vedere nelle pieghe nascoste del quartiere e delle città le persone sole bisognose di una visita (pensiamo agli anziani soli), che sanno scorgere altre famiglie più deboli che fanno fatica e magari sono sull’orlo della crisi, che sanno accorrere là dove c’è un grido che nessuno ascolta perché tutti sono assordati dai propri rumori, e così oltre, queste famiglie stanno compiendo miracoli. Sono come quei servi a Cana che sanno offrire un vino buono a chi ha la festa della vita ormai rovinata. Ed è così – attraverso queste famiglie – che il Vangelo arriva nei nostri quartieri, nelle nostre città.

Come si può intuire da questi pochi cenni, una famiglia che vive la sequela di Gesù non è affatto isolata e chiusa in se stessa. E non solo perché vive comunque “in uscita”, ossia con gli occhi e il cuore aperti, con le braccia allargate e i piedi in movimento, ma anche perché l’energia dell’amore la riceve dall’altare e dalla comunione con la comunità cristiana con la quale ascolta le Scritture e celebra la comunione con l’unico pane e l’unico calice. Purtroppo, tale rapporto oggi è opaco e talora così debole da inficiare la sua stessa forza. C’è bisogno di una più chiara alleanza tra la famiglia e la parrocchia.

La parrocchia: dal funzionalismo alla familiarità

Se è vero che la famiglia non può vivere per se stessa, anche la parrocchia, la comunità cristiana non può vivere per se stessa. La parrocchia è la famiglia di coloro che seguono Gesù. Quando la parrocchia, la comunità cristiana, si rinchiude in se stessa ecco che appare quella malattia che chiamerei il parrocchialismo, una malattia che rende la parrocchia più una organizzazione che una fraternità, più un corpo funzionale che una famiglia, più un luogo ove si offrono servizi che una casa ospitale.

Prendiamo esempio da Gesù. L’assemblea-tipo di Gesù – e quindi anche la sua famiglia, sia quella naturale che quella più ampia – non ha la forma di una organizzazione chiara ed efficiente, non ha i tratti di una setta esclusiva, o quelli di un club compatto e interessato solo al suo sviluppo, ha invece i tratti di una famiglia ospitale e quasi senza confini: ci troviamo Pietro e Giovanni, ma anche l’affamato e l’assetato, lo straniero e il perseguitato, la peccatrice e il pubblicano, il fariseo e le folle che si accalcano. E Gesù non cessa di accogliere e di parlare con tutti, anche con chi non si aspetta più di incontrare Dio nella sua vita.

Ecco, questa è la lezione da apprendere ancora oggi. Quanto è bella la scena descritta da Marco della città raccolta davanti alla porta della casa dove stava Gesù! Sono così le porte delle nostre parrocchie? Gesù sceglie i discepoli per pendersi cura di questa assemblea, di questa famiglia. I membri che ne fanno parte non siamo noi a deciderli, sono invece gli invitati da Dio, sono i suoi ospiti, di cui noi dobbiamo essere servitori. Non riconosciamo in questa immagine lo stile evangelico che papa Francesco vorrebbe fosse di tutte le nostre parrocchie?

Cari amici, per ricomporre questa immagine nei nostri giorni è indispensabile una nuova alleanza tra la famiglia cristiana che si sforza di seguire Gesù e la comunità cristiana che si sforza di essere essa stessa “famiglia di Dio”. Insomma, famiglia e parrocchia sono i due luoghi “privilegiati” dove dobbiamo realizzare quella comunione d’amore che trova la sua fonte ultima in Dio stesso. Una Chiesa davvero evangelica non può che avere la forma di una casa accogliente, ospitale, larga, senza confini. E questo avverrà se non ci sarà solo il parroco e qualcuno di buona volontà, ma se ci saranno famiglie che si offrono lietamente, esse stesse, perché si realizzi la “forma domestica” della Chiesa.

Le famiglie “in uscita” invadono le parrocchie e le comunità parrocchiali assumono i tratti della famiglia di Dio. In tale orizzonte si comprendono anche le varie modalità di costituire gruppi famigliari per un mutuo aiuto ed anche per una presenza più efficace nella società civile. In certo modo, la parrocchia e le famiglie debbono costituire assieme una presenza che evidenzia la bellezza di un nuovo modo di vivere, non chiuso in se stesso ma aperto a tutti e particolarmente ai poveri. In un tale orizzonte vanno accolti con generosità coloro che non hanno famiglia, ossia le persone sole e deboli perché facciano parte della più larga famiglia di Dio. Ed è in questo orizzonte che si pone il tema dei divorziati risposati o di quelle famiglie imperfette e in fieri. Verso costoro deve affrettarsi il nostro passo, irrobustirsi il nostro ascolto, intensificarsi la nostra compagnia.

Oggi, purtroppo, dobbiamo constatare un profondo divario tra la famiglia e la parrocchia: le famiglie sono troppo poco ecclesiali (facilmente si rinchiudono in se stesse), e le parrocchie sono poco famigliari (facilmente appesantite dalla burocratizzazione, dal funzionalismo). Emblematico in tale senso è la povertà della preparazione dei giovani al matrimonio: si tratta di pochi momenti quasi come quei corsi di inglese di sopravvivenza. E quanto è grande l’abbandono dei giovani sposi da parte della comunità parrocchiale! Queste giovani famiglie si trovano ad essere sole proprio mentre appaiono i problemi.  E che dire della comunicazione della fede ai figli? C’è da ripensare interamente l’iniziazione cristiana! Si tratta di due campi che richiedono con urgenza una riflessione più ampia e soprattutto una creatività.

In ogni caso è urgente sconfiggere sia il familismo che parrocchialismo per ritrovare una nuova alleanza tra la famiglia e la parrocchia. Una breve riflessione ci fa capire dov’è la radice di queste due malattie. La radice è l’individualismo che ha invaso anche il campo della fede. Insomma, si crede da soli, si pensa di salvarsi da soli. Benedetto XVI, nell’enciclica Spe Salvi, si chiedeva: “com’è potuto accadere che nel cristianesimo moderno si sia affermata la concezione della salvezza come un affare individuale, per cui ciascuno crede che deve impegnarsi per salvare la propria anima, mentre l’intera tradizione biblica e cristiana che ci salviamo in un popolo?” Il Concilio Vaticano II lo afferma con grande chiarezza: “Dio avrebbe potuto salvare gli uomini in maniera individuale, ma ha scelto di salvarli radunandoli in un popolo”. Tale individualismo religioso è divenuto complice di quell’individualismo della cultura contemporanea che sta avvelenando l’intera umanità.

La famiglia, profezia di comunione in un mondo di soli

Famiglia e comunità cristiana debbono trovare la loro alleanza non per rinchiudersi nel loro circolo ma per fermentare in maniera “famigliare” l’intera società. Le famiglie e le parrocchie debbono riscoprire il sogno stesso di Dio sul mondo: non debbono vivere per se stesse, neppure per la Chiesa deve vivere per se stessa, siamo chiamati, anche come famiglie e comunità cristiane a vivere per realizzare il disegno di Dio sul mondo, ossia fare dei della terra popoli un’unica grane e variegata famiglia.

Nello scenario di un mondo segnato dalla tecnocrazia economica e dalla subordinazione dell’etica alla logica del profitto, è strategico pertanto riproporre il Vangelo della famiglia come forza di umanesimo. La famiglia deve tornare a occupare il centro della politica, dell’economia e della convivenza civile: la famiglia infatti decide dell’abitabilità della terra, della trasmissione della vita, dei legami nella società. La famiglia cristiana è una profezia di amore in un mondo di soli. E’ questo che noi dobbiamo riscoprire e vivere con l’entusiasmo di chi riceve un grande compito da Dio per la storia umana. Non ci si sposa per se stessi e neppure si va in chiesa per se stessi, ma per essere di aiuto a Dio nel suo disegno di salvezza per il mondo. Il Concilio vaticano II afferma con chiarezza la vocazione della Chiesa, delle comunità cristiane, delle famiglie: essere segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano. E’ questo l’amore di cui si tratta quando si parla della famiglia e della Chiesa. Siamo lontani mille miglia da quel romanticismo sentimentale che è in balia di ogni vento egocentrico.

La sapienza cristiana sulla famiglia è un tesoro preziosissimo da esplorare e offre un contributo a mio avviso indispensabile per l’affermarsi di un nuovo umanesimo. IN tale prospettiva la famiglia è una benedizione insostituibile per la terra, nostra casa comune, casa di tutti i popoli di ieri, di oggi e di domani. La promessa che Dio fa all’uomo e alla donna, all’origine dell’umanità, include tutti gli esseri umani, sino alla fine della storia. Se abbiamo fede – anche poca ne basta -, le famiglie dei popoli della terra guarderanno le famiglie cristiane e le comunità cristiane che già vivono questa solidarietà ampia e si riconosceranno in questa benedizione. E’ il grande sogno di Dio sul mondo: riunire tutti nell’unica famiglia umana. Chiunque si lascia commuovere da questa visione, a qualunque popolo, nazione, religione appartenga, si mette in cammino con noi. Sarà nostro fratello, sorella e madre.