La Vocazione e la missione della Famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo
Relazione tenuta ai Corsi di aggiornamento del clero in Portogallo
Una Chiesa missionaria
Abbiamo appena terminato il Sinodo dei Vescovi e nel documento finale si offrono non poche indicazioni sul tema della Famiglia. Siamo in attesa dell’Esortazione Apostolica post-Sinodale per poter accogliere le prospettive che Papa Francesco ci offrirà. C’è già però l’orizzonte nel quale iscrivere le nostre riflessioni e la nostra azione pastorale: è il nuovo slancio missionario che Papa Francesco ha proposto a tutta la Chiesa particolarmente con l’Enciclica Evangelii Gaudium. Il Papa invita le Chiese – e tutti i credenti – ad una vera “conversione pastorale”, ossia a intraprendere con nuovo slancio e nuova passione la comunicazione del Vangelo della Famiglia e della Vita.
E’ necessario mettersi “in uscita” – scrive il Papa – per raggiungere coloro che sono nelle periferie urbane ed esistenziali e comunicare loro il Vangelo in maniera non solo comprensibile ma soprattutto attrattiva. E’ evidente perciò che non basta più continuare come sempre abbiamo fatto, non basta qualche semplice aggiornamento. Il Papa chiarisce: “La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del ‘si è sempre fatto così’. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità” (33). E’ necessario sintonizzarsi personalmente con questa passione missionaria che il Papa ci comunica e che sgorga da Gesù stesso, il quale, come scrive il Vangelo: “vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore” (Mt 9,36ss), chiese di pregare per i futuri operai della messe e inviò i discepoli in missione (Mt 10).
E’ necessario fare nostro lo stile stesso di Gesù così come appare nei Vangeli. Gesù è l’esempio da avere davanti ai nostri occhi. E dobbiamo seguirlo con gioia. Questo è il cuore del messaggio della Enciclica Evangelii Gaudium. Papa Francesco, dissociandosi da un modo difensivo e negativo di pensarsi nella società, scrive: “La Chiesa in uscita è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che fruttificano e festeggiano” (24). La sfida è profonda, come un cambiamento di ottica e di orientamento: “Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno stato permanente di missione” (25). E’ la “conversione missionaria”: “Ogni Chiesa particolare, porzione della Chiesa Cattolica sotto la guida del suo Vescovo, è anch’essa chiamata alla conversione missionaria. Essa è il soggetto dell’evangelizzazione…” (30).
Sono parole che impegnano e che chiedono un diverso paradigma nell’azione pastorale anche per quel che concerne la Famiglia. Dicevo che attendiamo l’Esortazione Apostolica del Papa sulla Famiglia. Ma ci sono già i testi del Sinodo dei Vescovi e le Catechesi di Papa Francesco sulla Famiglia. Per parte mia desidero offrire alcune riflessioni che tengono conto di questo ricco materiale che già abbiamo a disposizione. E vorrei partire dalla situazione nella quel si trovano le famiglie oggi soprattutto nel nostro mondo Occidentale. Del resto, come sapete, Papa Francesco non ha voluto impegnare la Chiesa in nuove definizioni. Lo scopo del Sinodo era quello di riscoprire la vocazione e la missione della Famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo, partendo dalla situazione concreta nella quale si trovano le famiglie oggi nelle diverse società.
Una situazione paradossale
Vorrei iniziare queste mie riflessioni partendo dalla situazione nella quale si trovano oggi le famiglie soprattutto nel contesto occidentale. E dire che si trovano in una situazione “paradossale”. Da un lato infatti si attribuisce un grande valore ai legami familiari, sino a farne la chiave della felicità. I dati statistici mostrano che la famiglia è sentita dalla maggioranza delle popolazioni di tutti i paesi come il luogo della sicurezza, del rifugio, del sostegno per la propria vita. La stabilità coniugale resta pertanto un valore importante e un’aspirazione profonda, anche se la convinzione di stare insieme “per sempre” ha sempre meno dignità culturale, anzi si ritiene sia impossibile.
Dall’altro lato la famiglia è divenuta il crocevia di numerose fragilità: i legami vanno a pezzi, le rotture coniugali sono sempre più frequenti e, con esse, l’assenza a casa di uno dei due genitori. Le famiglie si disperdono, si dividono, si ricompongono. E c’è chi sostiene che “la deflagrazione delle famiglie è il problema numero uno della società odierna”. Un fenomeno sempre più rilevante è la moltiplicazione delle forme di famiglia. E’ divenuto normale pensare che gli individui possano “fare famiglia” nelle maniere più diverse: qualsiasi forma di “vivere insieme” può essere detta famiglia, l’importante – si sottolinea – è che ci sia l’amore. In tale orizzonte, la famiglia non è negata, essa viene posta accanto a nuove forme di vita e di esperienza relazionale che sono apparentemente compatibili con essa, anche se in verità la scardinano. E i dati già dimostrano l’affermarsi di una sorta di circuito disincentivante verso il “fare famiglia”. In diverse aree del mondo cresce il numero delle persone che scelgono di stare da sole. La deriva verso cui ci si dirige è chiara: una società de-familiarizzata o, se si vuole, a basso tasso di familiarità.
Globalizzazione e “individualizzazione” della società
Tale tendenza si iscrive all’interno di quel processo di “individualizzazione” che caratterizza la società contemporanea. Nel corso degli ultimi secoli abbiamo visto l’affermarsi della soggettività, un passo positivo perché ha permesso l’affermarsi della dignità delle singole persone. Ma l’esasperazione di questo processo sta portando la società verso una deriva patologica. Il noto filosofo francese, Gilles Lipovetsky, parla di una “seconda rivoluzione individualista”, con l’affermarsi di un “individuo ipermoderno”, sottolinea il sociologo francese, Nicole Aubert. Massimo Recalcati, uno psichiatra italiano, rileva una “esasperazione interna” della modernità, passata dalla centralità teologica di Dio a quella morale e psicologica dell’io.
In effetti, l’io sembra prevalere ovunque sul noi e l’individuo sulla società, così pure i diritti dell’individuo avanzare su quelli della famiglia. Diviene normale, anzi logico, che in una cultura individualista si preferisca la coabitazione al matrimonio, l’indipendenza individuale alla dipendenza reciproca. La famiglia, con un capovolgimento totale, più che “cellula base della società” viene concepita come “cellula base per l’individuo”. Ognuno dei due coniugi pensa l’altro in funzione di se stesso. Nel matrimonio ciascuno cerca la propria singolare individualizzazione più che la creazione di un “soggetto plurale” che trascende le individualità per creare un “noi” che affronta la costruzione di un futuro comune. L’io, nuovo padrone della realtà, diviene padrone assoluto anche nel matrimonio e nella famiglia. La cultura esaspera a tal punto la nozione di individualità da provocare una vera e propria idolatria dell’io. Il sociologo italiano, Giuseppe De Rita, parla di “egolatria”, di un vero e proprio culto dell’io.
E’ ovvio che in tale contesto la famiglia non trovi più un orizzonte nel quale iscriversi e ancor meno considerata nella sua effettiva forza e dignità. Purtroppo, però, con l’indebolimento della cultura della famiglia, si incrina anche quella della stessa società. In effetti, non è più lo “stare insieme” ma lo “stare separati” a diventare la principale strategia per sopravvivere nelle megalopoli contemporanee. C’è ovunque una crisi della socialità e delle numerose forme comunitarie conosciute siano ad oggi, dagli storici partiti di massa alla comunità cittadina, dalla crisi della società delle nazioni alla stessa famiglia intesa come dimensione associata di esistenza. Alain Touraine, un sociologo francese, parla chiaramente di La fin des sociétés, con tutte le conseguenze di riorientamento che questo comporta.
A conferma di questa tendenza è piuttosto preoccupante rilevare, in Europa, la crescita di famiglie “unipersonali”. Se per un verso assistiamo al crollo delle famiglie tradizionali (padre-madre-figli), per l’altro verso vediamo crescere le famiglie formate da una sola persona. Questo vuol dire che la diminuzione dei matrimoni religiosi e di quelli civili non si è trasferita nella formazione di altre forme di convivenza, come ad esempio le cosiddette coppie di fatto o quelle omosessuali, ma nella crescita di persone che scelgono di vivere da sole.
Qual è la ragione di fondo? La scelta di stare da soli significa che qualsiasi legame impegnativo viene sentito come insopportabile. La conseguenza che ne deriva è che andiamo verso una società de-familiarizzata, fatta cioè di persone sole che se si uniscono lo fanno senza alcun impegno duraturo. L’esaltazione assoluta dell’individuo porta allo sgretolamento di quei legami che siano un minimo saldi e duraturi. Insomma, il “per sempre” non gode più di cittadinanza culturale. Una tale cultura individualista comporta l’indebolimento di ogni legame e rende incerto il presente e il futuro sia dei singoli che delle società. Quando Zigmund Baumann parla di “società liquida”, fotografa una società strutturalmente incerta nei legami: insomma, non ci si può fidare di nessuno. I rapporti stabili, ritenuti impossibili, non sono neppure da cercare. Anche l’amore è “liquido”. E se nel profondo dell’animo umano c’è un forte desiderio di stabilità, questo viene falciato non appena esce allo scoperto. La globalizzazione contemporanea trasferisce tale tendenza a livello planetario. Quel che si globalizza è pertanto il mercato e l’individualismo, due dimensioni che si legano perfettamente l’un l’altro.
Il bisogno di “Famiglia”
Si badi bene, comunque, che i legami affettivi duraturi e capaci di aiutare nelle vicende difficili della vita, continuano ad essere un’aspirazione generale, come prima ho già accennato. Tutte le ricerche lo rilevano. Questo significa che quando la cultura contemporanea prospetta l’obiettivo dell’autonomia assoluta dei singoli, in realtà inganna perché propone un obiettivo del tutto irreale e, cosa ancor più grave, non prepara ad affrontare le fatiche e i sacrifici che ogni rapporto duraturo e vero richiede. Tale inganno è il risultato di facili ideologie delle quali l’ultima, quella propagandata dalla rivoluzione sessuale, resta tra le più perniciose. Gli effetti sono davvero problematici: quanti abissi di dolore e di solitudini ci sono nelle nostre città contemporanee! Si afferma sempre più una subdola dittatura dell’individualismo, un potere invisibile che scardina affetti, legami e responsabilità. E ovviamente non fa bene a nessuno. Anzi, scava abissi di dolore soprattutto in coloro che si separano, si allontanano, si combattono. Gli effetti negativi appaiono devastanti sui più deboli. Quel desiderio di stabilità, scritto nelle radici dell’animo umano, viene falciato non appena esce allo scoperto. La cultura dominante non lo sostiene, anzi lo contrasta, lo ricaccia indietro.
Resta saldo tuttavia un bisogno di “familiarità”. Esso definisce in radice la persona umana: siamo fatti per la comunione, non per la solitudine. Appare evidente nei racconti biblici della creazione dell’uomo e della donna. Dio – si scrive nel racconto del capitolo secondo (Gn 2, 18) -, dopo aver creato l’uomo, si rese conto che mancava qualcosa a quel suo capolavoro. E disse immediatamente: “Non è bene che l’uomo sia solo”. E creò la donna, una compagnia “che gli fosse simile”. Il cuore di tale racconto è evidente: la vocazione dell’uomo non è la solitudine, ma la comunione. Ciascun uomo ha bisogno dell’altro, anzi di un altro che lo completi. Da solo non può esistere. Nel racconto del capitolo primo (Gn 1, 27) l’autore sacro sottolinea questa dimensione comunionale quando scrive: “Dio creò l’uomo a sua immagine: a immagine di Dio lo creò; maschi e femmina li creò”. La persona umana, fin dalle origini, non è un singolo, ma un “noi”: l’io e l’altro sono l’uno complementare dell’altro. L’io senza l’altro non è un’immagine piena di Dio, che è invece il “noi”, l’unione complementare tra l’uomo e la donna. Nella creazione stessa, pertanto, è negata l’autosufficienza e iscritto invece il bisogno del “noi”, della comunione, di cui la famiglia è l’archetipo. Credo sia importante affermare che, nonostante le difficili prove a cui la famiglia è sottoposta, essa resta il genoma della società umana.
Se vogliamo dare solidità alla società è necessario ridarla a partire dalla famiglia. E’ in essa, infatti, che si inizia a costruire, difendere e promuovere il “noi” dell’umanità. Tale prospettiva è ancor più urgente in un contesto di globalizzazione come quello della società contemporanea. La dimensione “familiare”, che si apprende in famiglia, si allarga alle diverse forme di società fino alla famiglia dei popoli. C’è come un filo rosso che lega la famiglia sino alla famiglia dei popoli e delle nazioni. I tratti della “familiarità” sono una grande sfida di fronte all’anonimato e all’individualismo delle società contemporanee e delle grandi aree metropolitane. Le comunità cristiane sono chiamate ad un alto compito: avendo in se stesse i tratti della famiglia debbono divenire fermento di fraternità per i popoli. Depotenziare la famiglia significa essere in balia dei sentimenti e della loro instabilità e incertezza. E’ significativa la riflessione di Benedetto XVI che legava l’eclissi della famiglia nella società contemporanea all’eclissi stessa di Dio. Senza un riferimento all’Oltre (con la lettera maiuscola) difficile che si comprenda l’oltre se stessi, anche quello vicino.
La società globalizzata potrà trovare un futuro saldo di civiltà se e nella misura in cui sarà capace di promuovere una nuova cultura della famiglia, che resta la risorsa più importante delle società. Nessun’altra forma di vita, infatti, può realizzare quei beni relazionali che la famiglia crea. La famiglia è unica nella sua capacità generatrice di relazioni. In essa si apprende il noi dell’oggi e si pongono le basi per il futuro attraverso la generazione dei figli. Papa Francesco ribadisce che la famiglia “è il luogo dove si impara ad amare, il centro naturale della vita umana. Essa è fatta di volti, di persone che amano, dialogano, si sacrificano per gli altri e difendono la vita, soprattutto quella più fragile, più debole. Si potrebbe dire, senza esagerare, che la famiglia è il motore del mondo e della storia”.
Volendo riprendere l’immagine biblica che ho appena evocato, si potrebbe dire che oggi ci troviamo in un delicatissimo crinale storico che, in maniera sintetica, possiamo così semplificare: da una parte, vi è l’affermazione biblica che dice: “non è bene che l’uomo sia solo” (da cui è originata la famiglia e la stessa società); dall’altra, l’esatto opposto della cultura contemporanea, ossia: “è bene che l’individuo sia solo” (da cui deriva l’individualismo sociale ed economico). L’io, l’individuo, sciolto da qualsiasi vincolo, viene contrapposto al noi, alla famiglia e alla società. Di conseguenza, la famiglia, pur essendo il fondamento del disegno di Dio sull’umanità, diviene l’ostacolo più forte per frenare un individualismo senza freno.
La famiglia di nuovo al centro
Di qui l’urgenza di ridare dignità culturale e centralità sociale alla famiglia. Essa va riportata nel cuore del dibattito, nel centro della visione della politica e della stessa economia, come pure della vita delle comunità cristiane. La società globalizzata potrà trovare un futuro di civiltà se e nella misura in cui sarà capace di promuovere una cultura della famiglia che la ripensi come nesso vitale tra la felicità privata e la felicità pubblica. La famiglia non è morta. Al contrario, nonostante il difficilissimo momento che sta traversando, resta nei fatti la risorsa più importante delle società contemporanee. Essa è risorsa per la società perché crea dei beni relazionali che nessun’altra forma di vita può creare. E’ unica nella sua forza generatrice di relazioni. Il suo genoma non cessa di esistere perché rappresenta quanto di più umanizzante vi è nella società.
La famiglia resta la risorsa più preziosa della società, il luogo ove si apprende la decisività del noi per l’edificazione e il sostegno di una società più giusta e più solidale. E’ nella famiglia che la società trova il suo proseguimento attraverso la nascita dei figli, e quindi l’intreccio generazionale. In tal senso è poco lungimirante la tendenza ad avere un solo figlio. Se questo fenomeno crescerà, cosa ne sarà tra qualche anno del termine “fratello”, “sorella”? Purtroppo appaiono pubblicazioni che esaltano tale prospettiva come positiva (One and Only) o anche la decisione di non averne nessuno (E.Rosci, La maternità può attendere. Perché si può essere donna senza essere madre, Milano 2013). Pretendere che sia possibile il matrimonio tra chiunque perché c’è l’amore, significa non comprendere la forte differenza che c’è tra l’amore coniugale, che per sua natura richiede anche la generazione, e le altre molteplici forme di amore. E non si può esaltare quella uguaglianza che richiede l’abolizione della diversità. L’uguaglianza nella dignità è decisiva, come decisiva è anche la permanenza delle diversità.
Oggi, ci troviamo ad un delicatissimo crinale storico, ad una sorta di spartiacque antropologico. Semplificando si potrebbe dire che da una parte vi è l’affermazione biblica “Non è bene che l’uomo sia solo” – da cui è originata la famiglia – e dall’altra il suo esatto opposto, ossia “è bene che l’individuo sia solo”. L’io, l’individuo assoluto, sciolto da qualsiasi vincolo, viene contrapposto al noi. E la a famiglia, fondamento del disegno di Dio sull’umanità, è divenuta la pietra d’inciampo dell’individualismo, che deve essere quindi quanto meno scansata, se non distrutta. La famiglia, però, nonostante tutti gli attacchi, resta salda, per sua forza interna, visto che è radicata nel profondo della creazione. Non esistono sostituti o equivalenti funzionalità della famiglia. Per questo è un ideale alto che vuole stabilità. Va pertanto riproposto e perseguito. E’ uno dei cardini di quel nuovo umanesimo che siamo chiamati a immaginare e costruire all’inizio di questo nuovo millennio.
La vocazione e la missione della famiglia
Il Sinodo si è posto su questa linea, ossia sul bisogno di “più famiglia” sia nella Chiesa che nella società. Papa Francesco – e il Sinodo – chiedono di tornare a riflettere sul “mistero dell’inizio”. Gesù stesso rinviò a quel che era nel principio, quando gli posero la domanda sulla legittimità del ripudio: “all’inizio non fu così”(Mt 19,8). Già nelle prime pagine della Bibbia infatti viene tracciata la vocazione e la missione della famiglia. Non posso approfondire ora il testo biblico e mi fermo solo a rilevare che all’inizio della storia umana Dio affida ad Adamo ed Eva (in questa prima comunità sono presenti sia la “famiglia umana” che le singole famiglie) il compito di custodire il creato e la responsabilità della generazione: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela”(Gn 1, 28). E’ la sintesi della vocazione e della missione che Dio affida alla famiglia umana, di ieri e di oggi. Non siamo stati creati per rinchiuderci in se stessa, ma per rendere abitabile da tutti quella “casa comune” che Dio ha donato.
E’ in questa prospettiva che si comprende l’esortazione di Papa Francesco ai giovani che si avviano al matrimonio a sognare in grande, a pensare la famiglia come il luogo per rendere il mondo più giusto e più bello. Siamo ben lontani da quel sogno romantico di “due cuori e una capanna”. In effetti, la famiglia resta la via privilegiata per la piena umanizzazione di coloro che nascono alla vita, la via che può evitare le derive disumane di una società ipertecnica e iperindividualista. La famiglia – potremmo dire anche grazie ai suoi difetti e limiti – rimane il luogo della vita, il luogo del mistero dell’essere, il luogo della prova e della storia. La sua unicità rende la famiglia un insostituibile «patrimonio dell’umanità».
E il miracolo della vita Dio lo affida all’amore fecondo tra l’uomo e la donna: il matrimonio è una chiamata (una vocazione) alla generatività. E’ sulla differenza sessuale che si costruisce la “potenza” generativa. L’unione tra due uguali non sa generare (al massimo soddisfa un bisogno), mentre solo unendo la radicale differenza è possibile all’essere umano adempiere al proprio mandato (alla propria vocazione) di generare e di accogliere la vita. Per questo è nella famiglia che viene scritta la prima pagina della sacralità della vita che nasce, è dall’amore tra l’uomo e la donna che nasce l’accoglienza e la cura delle nuove generazioni, che si genera il dono responsabile della vita. La natura generativa dell’amore di coppia la rende poi capace di accoglienza di ogni vita, capace di accogliere anche chi viene rifiutato. Così l’adozione, l’affido, la cura delle persone fragili in famiglia sono frutto e compito dell’amore tra l’uomo e la donna. Andrebbe maggiormente tematizzato il tema relativo alla dimensione della paternità e maternità responsabile, come lo stesso testo sinodale sottolinea richiamando i testi del magistero. So che in questi giorni continuerete a riflettere con attenzione su questo tema.
La famiglia e la sequela di Gesù
Dicevamo all’inizio che non basta ripetere le formule e tanto meno continuare ad accusare chi la pensa diversamente. Dobbiamo piuttosto lasciarci ferire dall’impoverimento di una società che sta smarrendo la bellezza e la forza del matrimonio e della famiglia. E’ urgente recuperare la profezia del Vangelo della famiglia sia nel viverlo che nel testimoniarlo. Non dobbiamo dimenticare quel che diceva Sant’Ignazio di Antiochia mentre veniva portato a Roma per subire il martirio: “Nei momenti difficili il cristianesimo non si trasmette per via di convincimento, ma per via di grandezza”.
E’ urgente passare dal familismo, ossia dalla chiusura delle famiglie in se stesse, alla sequela di Gesù. Partiamo da un interrogativo di fondo che pone al centro non la famiglia ma Gesù: come la famiglia comunica la fede sia dentro che fuori casa? Oppure, ed è la stessa cosa: come la famiglia segue Gesù? Come la famiglia diventa discepola di Gesù? Tali interrogativi vanno compresi bene, proprio perché non è la famiglia come tale che salva. Gesù conosce bene i pericoli che si annidano nella famiglia se le persone che la compongono si lascano guidare solo dall’amore per loro stessi. Quando è così, la famiglia rischia facilmente di diventare una gabbia da cui fuggire e spesso anche un luogo ove accadono violenza a volte terribili. La Bibbia ci ammaestra su questo punto sin dalla prima pagina. Certamente ci dice che non è bene che l’uomo sia solo. Quindi la solitudine è sempre causa di infelicità e di conflitto. Ma se una anche in famiglia si lascia trasportare da sentimenti egocentrici e di orgoglio, accade l’irreparabile. Pensiamo a quel che accadde alla prima famiglia: il litigio tra Adamo ed Eva e poi al primo fratricidio di Caino che uccide Abele. Tale consapevolezza fa dire a Gesù quelle parole che a prima vista sembrerebbero contrapporre i legami famigliari con l’invito a seguirlo: “Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me, chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me” (Mt10, 37-38)?
Gesù non vuole affatto cancellare il quarto comandamento. “onora il padre e la madre”! Nella Bibbia vi è una grande chiarezza su questo comandamento, anche se noi lo abbiamo spesso banalizzato riducendolo ai bambini che debbono obbedire ai genitori. In realtà, quelle parole bibliche sono rivolte ai figli adulti perché non abbandonino i loro genitori anziani, anche quando “perdono il senno”. Gesù non vuole abolire tale comandamento, ma affermare che il legame con lui vale più di ogni altro legame. Sì, la sequela del Vangelo è il primo legame su cui fondare tutti gli altri. La stessa famiglia cristiana si edifica su questa roccia che è la fede in Gesù. Questo significa “sposarsi nel Signore” e creare una famiglia nel Signore. Vale anche qui la parola evangelica: “Dove sono riuniti due persone nel mio nome io sono in mezzo a loro”.
La prima opera della famiglia come soggetto evangelizzatore, pertanto, è seguire il Vangelo. La sequela di Gesù non solo non cancella il quarto comandamento e i legami famigliari – basti pensare alla tenerezza delle nozze di Cana, alla guarigione dei figli chiesta da tanti padri e mamme nel Vangelo – ma li trasforma profondamente rendendoli più creativi, più robusti e capaci di superare i confini di se stessi e anche quelli della propria famiglia. I legami famigliari, irrorati dal Vangelo, spingono ad uscire di casa per creare una paternità e una maternità più ampie, per accogliere come fratelli e sorelle anche coloro che sono soli o emarginati dalla società. Ricordiamo cosa rispose Gesù a chi gli disse che fuori della casa c’erano la madre e i fratelli che lo aspettavano: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3, 35).
I legami famigliari irrorati dal Vangelo svincolano dall’egoismo, dal familismo, dalla chiusura e rendono responsabili di tutti gli altri legami che si stabiliscono. La famiglia diviene un motore di legami da instaurare e da difendere. E riguardano tutte le età della vita: pensiamo ai bambini, agli anziani, ai deboli, ai malati non solo quelli legati dai vincoli di sangue ma a tutti. Le famiglie cristiane sono guidate dall’amore stesso di Dio, dall’amore di Dio Padre-Figlio-Spirito, che è un amore che per sua natura va sempre oltre se stessi e si dirige verso tutti soprattutto verso chi è debole. Tale amore è una forza così forte da essere capace di cose impensabili, di operare veri e propri miracoli.
Le famiglie che vivono nella sequela di Gesù, che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica, che sanno allargare le porte di casa per accogliere chi ha bisogno, che sanno uscire per aiutare i poveri e i deboli, che conoscono la strada degli ospedali e delle carceri, che sanno vedere nelle pieghe nascoste del quartiere e delle città le persone sole bisognose di una visita (pensiamo agli anziani soli), che sanno scorgere altre famiglie più deboli che fanno fatica e magari sono sull’orlo della crisi, che sanno accorrere là dove c’è un grido che nessuno ascolta perché tutti sono assordati dai propri rumori, e così oltre, queste famiglie stanno compiendo miracoli. Sì, sono come quei servi a Cana che sanno offrire un vino buono a chi ha la festa della vita ormai rovinata. Ed è così – attraverso queste famiglie – che il vangelo arriva nei nostri quartieri, nelle nostre città.
Come si può intuire da questi pochi cenni, una famiglia che vive la sequela di Gesù non è affatto isolata e chiusa in se stessa. E non solo perché vive comunque “in uscita”, ossia con gli occhi e il cuore aperti, con le braccia allargate e i piedi in movimento, ma anche perché l’energia dell’amore la riceve dall’altare e dalla comunione con la comunità cristiana con la quale ascolta le Scritture e celebra la comunione con l’unico pane e l’unico calice. Purtroppo, tale rapporto oggi è opaco e talora così debole da inficiare la sua stessa forza. C’è bisogno di una più chiara alleanza tra la famiglia e la parrocchia.
La parrocchia: dal funzionalismo alla familiarità
Se è vero che la famiglia non può vivere per se stessa, anche la parrocchia, la comunità cristiana non può vivere per se stessa. La parrocchia è la famiglia di coloro che seguono Gesù. Quando la parrocchia, la comunità cristiana, si rinchiude in se stessa ecco che appare quella malattia che chiamerei il parrocchialismo. Tale malattia spinge la parrocchia a diventare più una organizzazione che una fraternità, più un corpo funzionale che una famiglia, più un luogo ove si offrono servizi più che una casa ospitale.
Torniamo un momento ai vangeli. E prendiamo esempio da Gesù. L’assemblea-tipo di Gesù non ha la forma di una organizzazione chiara ed efficiente, non ha i tratti di una setta esclusiva, o quelli di un club compatto e interessato solo al suo sviluppo, ha invece i tratti di una famiglia ospitale e quasi senza confini: ci troviamo Pietro e Giovanni, ma anche l’affamato e l’assetato, lo straniero e il perseguitato, la peccatrice e il pubblicano, il fariseo e le folle che si accalcano. E Gesù non cessa di accogliere e di parlare con tutti, anche con chi non si aspetta più di incontrare Dio nella sua vita.
Ecco, questa è la lezione da apprendere ancora oggi. Quanto è bella scena descritta da Marco quando parla di tutta la città raccolta davanti alla porta della casa dove stava Gesù. Sono così le porte delle nostre parrocchie? E Gesù sceglie i discepoli per pendersi cura di questa assemblea, di questa famiglia. E i membri che ne fanno parte non siamo noi a deciderli, sono invece gli invitati da Dio, sono i suoi ospiti, di cui noi dobbiamo essere servitori. Non riconosciamo in questa immagine lo stile evangelico che papa Francesco vorrebbe fosse di tutte le nostre parrocchie?
Cari amici, per ricomporre questa immagine nei nostri giorni è indispensabile una nuova alleanza tra la famiglia cristiana che si sforza di seguire Gesù e la comunità cristiana che si sforza di essere essa stessa “famiglia di Dio”. Insomma, famiglia e parrocchia sono i due luoghi “privilegiati” dove dobbiamo realizzare quella comunione d’amore che trova la sua fonte ultima in Dio stesso. Una Chiesa davvero evangelica non può che avere la forma di una casa accogliente, ospitale, larga, senza confini. E questo avverrà se non ci sarà solo il parroco e qualcuno di buona volontà, ma se ci saranno famiglie che si offrono lietamente, esse stesse, perché si realizza la “forma domestica” della Chiesa. Le famiglie “in uscita” invadono le parrocchie e le comunità parrocchiali assumono i tratti della famiglia di Dio che è davvero come un’arca di Noè sommersa dalle acque dell’individualismo e dei conflitti. In tale orizzonte si comprendono anche le varie modalità di costituire gruppi famigliari per un mutuo aiuto ed anche per una presenza più efficace nella società civile. In certo modo, la parrocchia con le famiglie debbono costituire una presenza che evidenzia la bellezza di un nuovo modo di vivere, non chiuso in se stesso ma aperto a tutti e particolarmente ai poveri. In un tale orizzonte vanno accolti con generosità coloro che non hanno famiglia, ossia le persone sole e deboli perché facciano parte della più larga famiglia di Dio. Ed è in questo orizzonte che si pone il tema dei divorziati risposati o di quelle famiglie imperfette e in fieri. Verso costoro deve affrettarsi il nostro passo, irrobustirsi il nostro ascolto, intensificarsi la nostra compagnia.
Oggi, purtroppo, dobbiamo constatare un profondo divario tra la famiglia e la parrocchia: le famiglie sono troppo poco ecclesiali perché facilmente si rinchiudono in se stesse, e le parrocchie sono poco famigliari perché appesantite dalla burocratizzazione, o ingrigite dal funzionalismo, c’è poco calore, poca accoglienza, poco accompagnamento. Emblematico in tale senso è la povertà della preparazione dei giovani al matrimonio: sono pochi momenti quasi come quei corsi di inglese per sopravvivere. E quanto grande è l’abbandono dei giovani sposi da parte della comunità parrocchiale: queste giovani famiglie si trovano ad essere sole proprio mentre appaiono i problemi! E che dire inoltre della comunicazione della fede ai figli? C’è da ripensare interamente l’iniziazione cristiana! Questi ultimi due campi sono solo due esempi di una riflessione più ampia da intraprendere.
In ogni caso è urgente sconfiggere sia il familismo che parrocchialismo e ritrovare una nuova alleanza tra la famiglia e la parrocchia. Una breve riflessione ci fa capire dov’è la radice di queste due malattie. La radice è l’individualismo che ha invaso anche il campo della fede. Insomma, si crede da soli, si pensa di salvarsi da soli. Benedetto XVI, nell’enciclica Spe Salvi, si chiedeva: “com’è potuto accadere che nel cristianesimo moderno si sia affermata la concezione della salvezza come un affare individuale, per cui ciascuno crede che deve impegnarsi per salvare la propria anima, mentre l’intera tradizione biblica e cristiana che ci salviamo in un popolo?” Il Concilio Vaticano II lo afferma con grande chiarezza: “Dio avrebbe potuto salvare gli uomini in maniera individuale, ma ha scelto di salvarli radunandoli in un popolo”. Tale individualismo religioso è divenuto complice di quell’individualismo della cultura contemporanea che sta avvelenando l’intera umanità.
Il cristianesimo è per sua natura comunitario, quindi sempre “in uscita” da se stesso. In tal senso familismo e parrocchialismo impoveriscono il Vangelo della sua forza di cambiamento. Il cardinale Bergoglio – con uno sguardo critico sulla situazione sociale contemporanea – esortava a ritrovare questo rapporto tra la famiglia e la parrocchia: “Contro i ‘centri di potere’ ideologici, finanziari e politici, riponiamo le nostre speranze in questi centri dell’amore, evangelizzatori, ricchi di calore umano, basati sulla solidarietà e la partecipazione”. In effetti, una società di individui autoreferenziali, isolati gli uni dagli altri, è destinata alla sterilità e al conflitto. Ma anche una Chiesa fatta di funzionari del sacro e di fruitori passivi dei sacramenti, perde il suo contatto con la società umana.
Legare assieme famiglia e comunità è urgente. Molte famiglie talora si tirano indietro, proclamando di non essere all’altezza: “Padre, siamo una povera famiglia e anche un po’ sgangherata”, “Non ne siamo capaci”, “Abbiamo già tanti problemi in casa”, “Non abbiamo le forze”. E’ vero! Ma nessuno è degno, nessuno è all’altezza, nessuno ha le forze! Senza la grazia di Dio, non potremmo fare nulla. Ricordiamoci però che il Signore con quei cinque pani e solo due pesci sfamò cinquemila uomini. Se mettiamo nelle mani del Signore il poco che abbiamo, egli compie miracoli.
La comunità cristiana deve fare la sua parte, ossia uscire da un atteggiamento troppo direttivo e funzionale. Le famiglie debbono prendere l’iniziativa e sentire la responsabilità di portare i loro doni preziosi per la comunità. La fede si gioca sul campo aperto della vita condivisa con tutti, la famiglia e la parrocchia debbono compiere il miracolo di una vita più famigliare sia per gustare l’amore evangelico sia per servire l’intera società.
La famiglia, profezia di comunione in un mondo di soli
Famiglia e comunità cristiana debbono trovare la loro alleanza non per rinchiudersi nel loro circolo ma per fermentare in maniera “famigliare” l’intera società. Le famiglie e le parrocchie debbono riscoprire il sogno stesso di Dio sul mondo. Sì, le famiglie e le parrocchie non debbono vivere per se stesse, neppure per la Chiesa deve vivere per se stessa, siamo chiamati, anche come famiglie e comunità cristiane a vivere per realizzare il disegno di Dio sul mondo, ossia fare dei della terra popoli un’unica grane e variegata famiglia.
Nello scenario di un mondo segnato dalla tecnocrazia economica e dalla subordinazione dell’etica alla logica del profitto, è strategico pertanto riproporre il Vangelo della famiglia come forza di umanesimo. La famiglia deve tornare a occupare il centro della politica, dell’economia e della convivenza civile: la famiglia infatti decide dell’abitabilità della terra, della trasmissione della vita, dei legami nella società. La famiglia cristiana è una profezia di amore in un mondo di soli. E’ questo che noi dobbiamo riscoprire e vivere con l’entusiasmo di chi riceve un grande compito da Dio per la storia umana. Non ci si sposa per se stessi e neppure si va in chiesa per se stessi, ma per essere di aiuto a Dio nel suo disegno di salvezza per il mondo. Il Concilio vaticano II afferma con chiarezza la vocazione della Chiesa, delle comunità cristiane, delle famiglie: essere segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano. E’ questo l’amore di cui si tratta quando si parla della famiglia e della Chiesa. Siamo lontani mille miglia da quel romanticismo sentimentale che è in balia di ogni vento egocentrico.
La sapienza cristiana sulla famiglia è un tesoro preziosissimo da esplorare e offre un contributo a mio avviso indispensabile per un nuovo umanesimo. Pensiamo al libro della Genesi. Purtroppo la parola della creazione – ricchissima di tesori – è trascurata e dimenticata, eppure offre ampiezze e profondità nuove. E’ un grande lavoro che ci aspetta. Ma entusiasmante. Dio affida il mondo creato e le generazioni all’uomo e alla donna congiuntamente: quello che accade tra loro decide tutto. Quando i due progenitori si lasciarono prendere dal delirio di onnipotenza e quindi di fare a meno di Dio rovinarono tutto. Il racconto del primo peccato mostra le tragedie che conseguono nel rifiutare la benedizione di Dio sul legame generativo tra l’uomo e la donna. E’ una lezione da approfondire oggi e da non dimenticare.
Ma, nonostante ciò, non siamo maledetti, né abbandonati a noi stessi. Seguendo l’antico racconto, Dio non abbandona l’uomo e la donna al loro destino e ribadisce la forza di quel legame generativo dell’inizio. Dio dice al serpente ingannatore: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe” (Gn 3, 15a). Con queste parole, Dio segna la donna con una barriera protettiva, di inimicizia verso male: è una benedizione a cui essa può ricorrere – se vuole – in ogni generazione. Vuol dire che la Donna porta una segreta e speciale benedizione, per la difesa della sua creatura dal Maligno! Come la Donna dell’Apocalisse, che corre a nasconderlo dal Drago. E Dio la protegge (cfr. Ap 12, 6). E la protezione di Dio, nei confronti dell’uomo e della donna, non viene comunque mai meno per entrambi. Prima di far uscire i peccatori dal mondo-giardino, Dio “fece all’uomo e alla donna tuniche di pelle e li vestì” (cfr. Gn 3, 21). Anche nelle dolorose conseguenze del nostro peccato, Dio fa attenzione che non rimaniamo nudi e abbandonati al nostro destino!
La famiglia è una benedizione insostituibile per la terra, che è la nostra casa comune, la casa di tutti i popoli di ieri, di oggi e di domani. La promessa che Dio fa all’uomo e alla donna, all’origine dell’umanità, include tutti gli esseri umani, sino alla fine della storia. Se abbiamo fede – anche poca ne basta -, le famiglie dei popoli della terra guarderanno le famiglie cristiane e le comunità parrocchiali che già vivono questa solidarietà ampia e si riconosceranno in questa benedizione. E’ il grande sogno di Dio sul mondo: riunire tutti nell’unica famiglia umana. Chiunque si lascia commuovere da questa visione, a qualunque popolo, nazione, religione appartenga, si metta in cammino con noi. Sarà nostro fratello, sorella e madre.