La ricognizione del dolore

di FERRUCCIO DE BORTOLI

 

Il dialogo fra un «piccolo credente» – come si autodefinisce schermendosi l’arcivescovo Vincenzo Paglia – e un «pococredente», da scrivere tutto attaccato, raccomanda il sociologo Luigi Manconi, ha un grande pregio: il meraviglioso dono del dubbio. Il lettore che si accostasse a questo testo nella speranza di ricevere solo risposte certe sui temi, assai delicati, che ruotano intorno all’impegnativo titolo del libro ( Il senso della vita , Einaudi Stile libero), forse ne rimarrebbe deluso. Ma se invece volesse approfondire alcune questioni fondamentali del nostro essere cittadini contemporanei – libertà, uguaglianza, giustizia, fraternità – in uno scambio di opinioni franco e senza troppe reciproche cortesie, ne resterebbe affascinato. Perché nel tentare di comprendere le ragioni dell’altro – cosa non sempre possibile né agevole – c’è il forte impegno a costruire qualcosa insieme, una nuova alleanza fra laici e cattolici, un diverso senso di comunità.

Nella valorizzazione e nel rispetto delle differenze, però. Non nello slancio indistinto delle sole buone intenzioni. Una questione, oseremmo dire, di vita civile.
Irrinunciabile. Specialmente dopo l’aprirsi nella società di una colossale ferita, la pandemia, che non sarà rimarginata a breve e già muta la condizione personale di ogni individuo.
«Siamo due mendicanti sulla soglia del mistero – scrive il presidente della Pontificia Accademia per la vita – sulla via per cercare di cogliere il senso dell’esistenza. Non l’abbiamo in tasca, la vita. Essa ci supera ed è per questo che ne cerchiamo il senso».
Lo studioso dei fenomeni politici, ex parlamentare e oggi editorialista di «Repubblica » e «Stampa» , richiama il principio di speranza di Ernst Bloch, evoca la formazione di una «coscienza anticipante», promuove un pessimismo della ragione che ci consenta di «incedere eretti», di difendere meglio libertà personali e diritti. Paglia contesta la deriva individualistica di una società prigioniera dei desideri e, riprendendo il pensiero di don Lorenzo Milani, afferma che «la vita di ciascuno di noi dipende anche da quella degli altri». A maggior ragione nel mezzo di una pandemia e nel pieno di una campagna vaccinale.

Il duetto si trasforma presto in un duello. Manconi contesta che la vita sia un dono di cui non possiamo disporre e, citando il cattolico filosofo del diritto Vittorio Possenti, nota la singolarità di un dono che resta di proprietà del donatore. Paglia controbatte: «La vita l’abbiamo ricevuta in dono ma non per farne ciò che vogliamo». È anche un compito, una missione, un servizio per gli altri.
E qui arriviamo ai temi del fine vita, dell’accompagnamento alla morte, della terapia del dolore sui quali i contrasti sono netti, ma la reciproca comprensione dei dilemmi etici e religiosi ancora più elevata. «Io non nego il diritto all’autodeterminazione – sostiene don Paglia – ma la libertà della decisione la metterei dentro la cornice di un amore reciproco che deve presiedere l’incontro». «La mia disponibilità a considerare l’eutanasia – scrive Manconi – viene dopo, solo dopo che tutta la pratica dell’accompagnamento, come assistenza materiale e conforto spirituale, si è esaurita». Manconi non parla di diritto all’eutanasia quanto di libertà negativa, cioè di sottrarsi a un «dolore non lenibile». E non nega che il principio dell’autodeterminazione «possa tradursi in una sorta di nichilismo egotico».

L’arcivescovo – che avrebbe celebrato i funerali di Piergiorgio Welby, proibiti dalla gerarchia cattolica – vede nella propaganda per il diritto alla morte la «strada dell’assoluzione dell’atto di dare la morte a una vita, ossia una persona giudicata indegna della vita». E quale sarebbe il discrimine tra una vita degna e indegna di essere vissuta? Paglia nega che il dolore nella dottrina cristiana sia di per sé un valore. E cita Paul Claudel: «Dio non è venuto a spiegare la sofferenza; è venuto a riempirla della sua presenza». Aggiunge: «Anestetizzare la vita di ogni dolore non solo è vano ma è anche pericoloso». E richiama la decisa presa di posizione di papa Francesco contro l’accanimento terapeutico. Carlo Maria Martini comprese la sofferenza di Welby che morì nel 2006 e non per eutanasia. Il cardinale, alla soglia della propria vita, non volle su di sé alcun accanimento nelle cure.
La legge sul biotestamento, ovvero sulle Disposizioni di trattamento anticipato (Dat), è il frutto di un confronto aperto, senza preclusioni ideologiche. Peccato sia poco conosciuta. E scarsamente valorizzata nel dibattito pubblico come le cure palliative.

Manconi ricorda che la sospensione di nutrizione e idratazione artificiali avviene «perché ritenute, come vuole la gran parte della letteratura scientifica, atti terapeutici». Paglia è preoccupato per la «crescita di una sensibilità che legittima il suicidio». Riprende le parole di Luciana Castellina che non riuscì a perdonare l’atto di un suo amico (riteniamo Lucio Magri) che si diede la morte: «Un gesto autoreferenziale – scriveva Castellina – vuol dire che i legami di amicizia non servono a fermarti. E che il tuo dolore conta più del dolore che procuri». Parole piene di umanità, secondo Paglia, che sottolinea come il tema della dignità «va considerato con cura, altrimenti diventa una trappola crudele». Claudio Magris scrisse che «l’eutanasia può divenire facilmente un’obbrobriosa, anche se inconscia, igiene sociale». «E se tu Luigi mi chiedessi – si rivolge così a un certo punto Paglia a Manconi – di aiutarti per toglierti la vita, non so se ti obbedirei. È una questione d’amore. Mi piazzerò lì al tuo capezzale e non ti darò tregua, parlandoti e ascoltandoti, ventiquattr’ ore su ventiquattro». «Sarebbe un incubo – gli risponde Manconi – come le prefiche dei riti meridionali, i monatti manzoniani e i monaci medievali che gridano: pentiti!». Nel parlare del senso della vita e anche del fine della vita, un sorriso non è mai superfluo. Anzi, rilancia il desiderio di amore e di tanti contatti, abbracci, di cui siamo privi ormai da troppo tempo.

CORRIERE DELLA SERA