La fede combatte l’alleanza tra dolore e disperazione che il farmaco convenzionale non arriva a sconfiggere

“Gesù non cerca la sofferenza; la accetta per se stesso, la contrasta con le guarigioni e la vicinanza agli altri. A noi tocca non cadere nel ‘dolorismo’ dell’esaltazione del soffrire. E oggi occorre contrastare un ‘narcisismo’ che ‘rende ciechi’ di fronte alla malattia e al dolore degli altri; nella nostra società ipertecnologica cresce la domanda di guarigione. E la Chiesa ha qualcosa da dire perché la malattia non è un fatto solo biologico: è la metafora della vita, manifesta la fragilità degli esseri umani, il loro/nostro bisogno di protezione e vicinanza”. Lo ha affermato mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, intervenendo oggi pomeriggio al convegno per l’inaugurazione del trentesimo anno accademico del Camillianum, l’Istituto internazionale di Teologia pastorale sanitaria, a Roma.

Affrontando il tema “La dignità nel soffrire”, mons. Paglia ha sottolineato tre aspetti: i Vangeli dicono che Gesù vive con dignità la sua sofferenza; è accanto ai sofferenti al punto che su 53 miracoli riportati 30 riguardano guarigioni; allo stesso tempo “Gesù non si è mai rassegnato di fronte alla sofferenza degli uomini”. “Gesù è teso a dare la salute piena, la salvezza da ogni infermità, la liberazione da ogni schiavitù”. Per il presidente della Pontificia Accademia per la vita, la comunità cristiana deve riscoprire queste pagine dei Vangeli: “Forse un cristianesimo troppo razionalistico ha spinto a ignorarle. È raro sentir parlare di guarigione dei malati. Eppure, la domanda di guarigione continua a crescere, inimmaginabile in una società disincantata e dominata dalla tecnica. Quanti – nella nostra società ipertecnologizzata – ricorrono a pratiche magiche, occulte, esoteriche, per guarire da malattie fisiche e psichiche! Dovremmo rifletterci con maggiore attenzione”.

Per una società più umana “è decisivo scoprire che la fragilità è una delle strutture portanti della vita: ci aiuta a considerare il valore della gentilezza e della mitezza, dell’ascolto e dell’attenzione agli altri, ma anche il valore dell’essere in comunione con le sofferenze, con le attese e le speranze degli altri. Si crea una comunione straordinaria tra chi cura e chi è curato, tra chi assiste e chi è assistito”. In una società dove dominano narcisismo, benessere, disinteresse e paura verso la sofferenza degli altri, “soffrire per il male, angosciarsi per le ingiustizie è un patrimonio non solo da custodire, semmai è da accrescere”. Allora la fede “è un presidio terapeutico per l’interezza della persona. La fede combatte l’alleanza tra dolore e disperazione che il farmaco convenzionale non arriva a sconfiggere, attraverso un amore che non si lascia intimidire dalla sofferenza”.