La dignità del vivere e del morire: dove inizia e dove finisce

Il tema è già da sé particolarmente delicato, visto che sia la vita che la morte, hanno un’eccedenza indecifrabile, vanno ben oltre la dimensione organica. E  credo che non sia solo un caso che anche sui criteri biomedici, come del resto sul piano giuridico, non è scontato né immediato giungere a un accordo universalmente condiviso su cosa sia la morte ed anche la vita. Se collochiamo il nostro tema all’interno dell’evoluzione della medicina ci rendiamo conto che alcuni cambiamenti importanti si sono realizzati nel modo di far fronte al morire, come l’efficacia crescente che la medicina ha acquisito con lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica, e gli equilibri della relazione medico-paziente. In questa mia relazione vorrei offrire alcune riflessioni relative alla dimensione medica e a quella relazionale per cogliere il senso della dignità di ogni persona umana nel corso della sua intera esistenza.

Crescente potere scientifico-tecnologico della medicina

Parto da una prima considerazione che riguarda il progresso della medicina che dispone di strumenti così incisivi ed efficaci da poter sconfiggere molte malattie e migliorare significativamente lo stato di salute. Questo sviluppo ha reso la guarigione il suo scopo principale, se non esclusivo. Ed è facile in tal modo che si corra il rischio di affidare la vita e la morte alla “tecnica”, divenuta la nuova religione della salvezza. In realtà deve essere non solo conservata ma ancor più sottolineata quella che chiamiamo la cultura della “cura”, o meglio del “prendersi cura” del malato. E’ una scelta decisiva per una convivenza che sia davvero umana. E’ un’esigenza intrinseca alla nostra stessa umanità e perciò anche della medicina. Papa Francesco, in un suo messaggio alla Pontificia Accademia per la Vita, a proposito del nostro tema, ha scritto: “il compito (della medicina) è di curare sempre, anche se non sempre si può guarire. Certamente l’impresa medica si basa sull’impegno instancabile di acquisire nuove conoscenze e di sconfiggere un numero sempre maggiore di malattie. Ma le cure palliative introducono all’interno della pratica clinica la consapevolezza che il limite richiede non solo di essere combattuto e spostato, ma anche riconosciuto e accettato. E questo significa non abbandonare le persone malate, ma anzi stare loro vicino e accompagnarle nella difficile prova che si fa presente alla conclusione della vita. Quando tutte le risorse del “fare” sembrano esaurite, proprio allora emerge l’aspetto più importante nelle relazioni umane che è quello dell’“essere”: essere presenti, essere vicini, essere accoglienti. Questo comporta anche di condividere l’impotenza di chi giunge al punto estremo della vita. Diventando solidali nel momento in cui l’azione non riesce più a incidere nel corso degli eventi, il limite può cambiare di segno: non più luogo di separazione e di solitudine, ma occasione di incontro e di comunione”.

In molti paesi, l’eutanasia, purtroppo, viene presentata come una scelta di civiltà, perché risponderebbe alla domanda di una morte degna. In realtà, la logica degli apparati incoraggia un’insidiosa perversione dei significati. La richiesta di legittimazione dell’eutanasia, infatti, toglie giustificazione alla cura di un malato inguaribile, per aprire la strada alla liquidazione di una vita disprezzabile. In realtà, la consegna ad una morte tecnicamente agevolata appare come un atto di compassione che assolve le vittime dalla colpa di essere irrimediabilmente malati e disabili. L’accompagnamento di una vita umanamente difficile si profila come una colpa, che impone alla comunità i costi di affetti e legami scientificamente futili. La legalizzazione dell’eutanasia, che sta guadagnando sempre più terreno nell’opinione pubblica, è l’effetto di una soggezione tecnica ed economica all’idea della selezione eugenetica della vita degna di cura. La cura, insomma, deve essere in certo modo “meritata”, da condizioni biologiche efficienti e da stili di vita adeguati. Diversamente, la vita diventa “indegna” di essere vissuta: e quindi, la decisione politica di legittimare la sua consegna alla morte (perché si discute di “diritto”, appunto), appare giustificata. Ed esonerata da ogni responsabilità, morale e civile.

Cito ancora Papa Francesco: “Cogliere nella propria esperienza come la vita umana sia ricevuta dagli altri che ci hanno messo al mondo e si sia sviluppata grazie alla loro cura, conduce a comprendere più profondamente il senso della dimensione passiva che la caratterizza. Appare allora ragionevole gettare un ponte tra quella cura che si è ricevuta fin dall’inizio della vita e che le ha consentito di dispiegarsi in tutto l’arco del suo svolgersi, e la cura da prestare responsabilmente agli altri, nel susseguirsi delle generazioni fino ad abbracciare l’intera famiglia umana. Per questa via può accendersi la scintilla che collega l’esperienza dell’amorevole condivisione della vita umana, fino al suo misterioso congedo, con l’annuncio evangelico che vede tutti come figli dello stesso Padre e riconosce in ciascuno la Sua immagine inviolabile. Il mistero santo di questo legame sta a presidio di una dignità che non cessa di vivere: neppure con la perdita della salute, del ruolo sociale e del controllo sul proprio corpo. Ecco allora che le cure palliative mostrano il loro valore non solo per la pratica medica – perché anche quando agisce con efficacia realizzando guarigioni talvolta spettacolari, non si dimentichi di questo atteggiamento di fondo che sta alla radice di ogni relazione di cura –, ma anche più in generale per l’intera convivenza umana”.

Crisi dell’umanesimo ed eutanasia

Lo scardinamento della cultura umanistica, che metteva al centro la relazionalità inseparabilmente biologica e affettiva dell’essere umano, ha indebolito i legami della generazione e l’alleanza delle generazioni. Questi legami rendono umana la storia, del singolo e della comunità, proprio perché rendono indissolubile l’amore e la cura della vita, dal concepimento di un nuovo figlio al congedo della persona cara, nella buona e nella cattiva sorte. L’onore della parola data e la dignità della vita umana ricevuta sono inviolabili: la promessa è che noi non faremo mai il lavoro sporco della morte. La sottrazione dell’individuo a questa custodia, con il pretesto di restituirlo alla sua libertà, mostra la forte tendenza a sciogliere la comunità – e alla fine anche i singoli – dalla promessa: la libertà di eutanasia diventa il cavallo di battaglia di un progresso dei “diritti” della libertà che dispone di sé, un atteggiamento politicamente corretto quasi “di moda”.

Come non vedere la contraddizione di una società che da una parte allunga tecnicamente la vita e dall’altra ne favorisce politicamente la soppressione? Non sarebbe più saggio ripensare seriamente il modo con cui sostenere l’accompagnamento delle persone nelle condizioni estreme e nel momento finale della vita? E’ singolare il silenzio assordante sul diritto ad essere curati e accompagnati. Nessuno reclama una legislazione in tal senso. Il timore – realistico, purtroppo – di essere abbandonati a noi stessi, come un peso insostenibile per la comunità, non prepara il terreno all’orribile senso di colpa che deve contagiare rapidamente tutti gli anziani, tutti i disabili, tutti i genitori di figli feriti? La propaganda per il diritto alla morte – un’espressione che in realtà occulta al dovere di morire – non prepara forse la strada all’assoluzione dell’atto di dare la morte ad una vita (ossia a una persona) giudicata indegna della vita che ha condiviso e condivide con noi?

Il mistero della morte

Fa pensare, inoltre, che la richiesta di eutanasia si affermi in una società che fa del tutto per esorcizzare la morte, per allontanarla dal proprio orizzonte. In effetti, la morte è la sconfitta più radicale e amara di quella “hybris” che spinge l’uomo ad una sorta di onnipotenza delirante sulla propria vita (e inevitabilmente, a partire di qui, su quella altrui). A partire dalla seconda metà del Novecento le società occidentali sono state travolte da una nevrosi di “rimozione” della morte dalla vita pubblica, consumando una delle principali fratture rispetto al passato: ossia la fine della morte a casa. Oggi, si muore negli ospedali o nelle cliniche. E si muore da soli: la rimozione della morte, in realtà, rimuove noi. E’ un bel paradosso: gli ospedali, invenzione umana della guarigione e della cura più efficace, sono divenuti anche i luoghi dove ormai si consuma tecnicamente la consegna anaffettiva alla soluzione terminale della vita. Quando essa arriva, l’apparato la sequestra: tutto, attorno al defunto, deve continuare come prima, i ritmi non si fermano. In questo orizzonte di disbrigo efficiente del congedo, si consuma per lo più un alleggerimento affettivo dell’abbandono. In questo fantasma avvolgente della vita affettivamente deprivata si colloca la domanda di una morte tecnicamente accelerata. Di qui, possiamo anche comprendere la fatica di una riconversione della mente e delle pratiche che ci restituisca alla sensibilità per l’amore della creatura mortale che noi tutti siamo. Didier Sicard, presidente del Comitato Nazionale di Etica della Francia, con saggezza affermava che “il progresso di una società di oggi, come ce lo ha insegnato il XX secolo, si misura dalla sua capacità di sviluppare la solidarietà, di proteggere e accompagnare i più deboli, e non di facilitarne la scomparsa”.

Il cristianesimo non predica l’amore della morte, né l’indifferenza al morire. Incoraggia però a circondarla da ogni lato con l’amore, per impedirle di trionfare sulla speranza della vita, per impedirle di nuocere. Il lato nichilistico della morte trionfa, invece, quando induce disperazione nei confronti dell’amore così da farlo apparire uno sforzo vano e senza senso. E trionfa altresì quando diventa l’estremo gesto della prevaricazione, che afferma se stesso a costo della vita dell’altro. In tal caso, la morte ci persuade a venderle persino l’anima. Invece di rifiutarle il potere di svuotare l’amore versato nella vita, le accordiamo il presunto potere di ridurre l’amore della vita a niente. E così il suo nichilismo vince la partita: soprattutto perché, da quel momento, incomincia a svuotare la vita della passione e della tenacia che gli umani sono in realtà disposti a concederle, anche in condizioni estreme, se soltanto la libertà della loro dedizione fosse onorata come virtù suprema e non come debolezza sentimentale.

La visione cristiana della morte, sfidando il paradosso, ci incoraggia a tenere insieme i due poli della tensione. Da un lato, la fede cristiana insegna che la morte è realmente un’esperienza ostile, che avvilisce la vita consegnata da Dio alla creatura umana. Dall’altro, però, invita a riconoscere la morte come il segno più evidente della vulnerabilità della vita che tuttavia chiede un compimento. Per questo non va rimossa – sarebbe comunque impossibile -, ma incontrata, sino a chiamarla “sorella”, come fece Francesco d’Assisi quando, poco prima di morire, era l’autunno del 1226, disse: “Sorella morte, sii benvenuta!”. Certo, una “sorella” strana, eppure sorella: la morte l’avvicinava a Cristo sulla croce e a tutte le creature, deboli, e proprio nella loro debolezza amate da Dio.

Nella sua tragicità, la morte aiuta l’uomo – lo costringe – a confrontarsi con la fragilità umana, una consapevolezza che possiamo rimandare, mai annullare. Alla luce della morte, le nostre arroganze – nei molteplici modi con cui le manifestiamo – appaiono del tutto ridicole. Ed è l’umiltà ad essere sollecitata dalla consapevolezza della debolezza umana. La morte tuttavia non è l’ultima parola, afferma la fede cristiana. Quella “polvere” (debolezza) che noi siamo, non è abbandonata. Al contrario, è amata da Dio. A tal punto amata da spingere Dio stesso a divenire anche lui “polvere” e condurci verso la pienezza della comunione con Lui. In tal senso ci libera dal cadere nel nulla. L’amore di Dio – Signore dei vivi e dei morti – è più forte della morte. E’ quell’“istinto del cuore” (così lo chiama il Catechismo cattolico) che spinge a ritenere il passaggio sulla terra non all’altezza della vita dello spirito che ci illumina: la morte rimane in attesa di riscatto e la vita di un compimento.

L’uomo vive una tensione interiore profonda: da una parte sente la sua caducità e dall’altra una incoercibile esigenza di durata. L’uomo è incompiuto. E muore incompiuto. Il nostro passaggio nel mondo ha tutto l’aspetto di una iniziazione: al termine dei nostri giorni, il meglio di ciò che è venuto alla luce è ancora tutto da vivere, ci fa dire la fede. Potremmo dire: il bello deve ancora venire! Certo, il disorientamento di fronte alla morte ci accomuna tutti e profondamente. Se tutti, credenti e laici, potessimo concentrarci seriamente sul legame che ci accomuna nella sfida del senso della vita e del contro-senso della morte, l’intera nostra civiltà sarebbe diversa. La nostre angosce profonde e le semplificazioni con le quali cerchiamo di risolverle, creerebbero fra di noi ben altre complicità.

Dal diritto di morire al dovere di morire

Purtroppo, in una società dove l’autosufficienza è un imperativo indiscusso, è facile per chi resta dipendente sentirsi depresso e persino non all’altezza di vivere. Tale condizione spinge ad interiorizzare l’esclusione sino a giustificarla. In questo orizzonte, il passaggio dal “diritto” di morire al “dovere” di morire diviene più breve di quel che talora si crede. Hans Jonas, stupito, afferma: “è singolare che oggi si debba parlare di un diritto di morire, quando da sempre ogni discorso sui diritti si è riferito a quello che è il più fondamentale di tutti: il diritto di vivere”, che nella dichiarazione d’indipendenza americana è considerato tra i “diritti inalienabili”. Purtroppo, l’ingresso della tecnica nella gestione della morte pone nuovi e seri interrogativi, anche se si fa largo sempre più nella sensibilità generale la legittimazione del suicidio, rivendicato come diritto-dovere a togliersi la vita, ritenendolo una conquista.

Il numero crescente dei suicidi e di coloro che chiedono il suicidio assistito e l’eutanasia non provoca angoscia alcuna. Ma ogni volta che qualcuno si toglie la vita, è un dramma per lui e un’amara sconfitta per tutti. Sfuggire alla domanda drammatica che sale dal gesto disperato di chi preferisce lasciare la vita piuttosto che restare con noi, è segno di una colpevole rassegnazione e di una crudele superficialità. Ci sono persone (familiari, amici, conoscenti…) che sono segnate da abissi di dolore e di disperazione. E, poiché non si sentono né capite, né aiutate, né accompagnate, preferiscono darsi la morte che per loro è più leggera della sofferenza. Ovviamente quando un amico, un familiare si toglie la vita, c’è un immenso dolore. E per chi resta, soprattutto se familiare, si apre un faticoso viaggio interiore ove non è facile trovare risposte e consolazioni. Fanno pensare queste parole di Luciana Castellina che, seppure favorevole ad una legge sulla eutanasia, non riesce a perdonare il gesto del suo compagno che si è dato la morte: “Io ancora non riesco a perdonarlo. Provo una grandissima rabbia. Questo non significa che non gli riconosca il diritto di decidere della sua vita, per questo mi batto per la legge. Ma mi sento offesa. Il suo è stato un gesto autoreferenziale. Vuol dire che i legami di amicizia non servono a fermarti. E che il tuo dolore conta più del dolore che procuri”. Sono parole piene di umanità. E, a mio avviso, un punto di partenza per quell’umanesimo che auspichiamo. Il suicidio è sempre un’amara sconfitta per tutti. Non lo chiamerei un esercizio di libertà. E’ anzitutto un dramma. O meglio, una drammatica richiesta di amore rimasta inevasa. Scegliere di togliersi la vita, è l’opposto della libertà: si soccombe al peso di un’angoscia insopportabile.

Morire con dignità, non anticipare la morte

Certo, si deve affermare il diritto a “morire con dignità”, come anche quello di “vivere con dignità”. Il diritto ad una morte dignitosa non può designare il diritto ad avere somministrata l’eutanasia da altri: una cosa è aiutare un paziente a morire (facendogli compagnia nella sua angoscia, dando sollievo al suo dolore, portandogli conforto), altra cosa è farlo morire. Ovviamente, la questione sorge sul senso che si dà alla parola “dignità”. Mi permetto di riportare un’affermazione di un filosofo laico francese, Luc Ferry: “l’idea stessa che un essere umano possa ‘perdere la sua dignità’ perché è divenuto debole, malato, vecchio e per questo in una situazione di dipendenza è un’idea intollerabile sul piano etico, e si pone accanto alle funeste teorie degli anni Trenta”.

“Morire con dignità” non vuol dire “anticipare la morte”, magari per non “vedere la degradazione del proprio corpo”. Il tema della dignità della persona umana si iscrive in tutto l’arco della sua esistenza, dall’inizio alla fine e in tutte le condizioni nelle quali la persona si trova a vivere. Un linguaggio equivoco diviene una trappola drammatica. Claudio Magris,  noto intellettuale italiano, avverte: “Proposta in nome della pietà e della dignità umana, l’eutanasia può divenire facilmente un’obbrobriosa anche se inconscia igiene sociale; l’arbitrio di chi, in nome della qualità della vita, afferma che al di sotto di una certa qualità la vita non è degna di essere vissuta e si conferisce il diritto di stabilire quale sia il livello che autorizza a eliminare chi non lo possiede. Indubbiamente, per molti dei milioni di bambini spaventosamente denutriti che ci sono al mondo – e spesso lesi, nella loro scandalosa condizione, pure nel pensiero e nell’affettività – la morte sarebbe una sventura minore della vita infame che li attende, ma è dubbio che ciò autorizzi la loro eliminazione”.

Non si deve inoltre dimenticare che la domanda di eutanasia o suicidio assistito è nella quasi totalità dei casi figlia dell’abbandono terapeutico (e sociale) del malato. Una volta che si sia messa in atto una valida presa in carico multidisciplinare del paziente e coinvolta positivamente la famiglia nel processo di cura è rarissimo trovarsi di fronte ad una richiesta di morte. Un noto neurochirurgo italiano, Giulio Maira, che per tanti anni ha lavorato in questo ospedale, alla mia domanda se avesse avuto pazienti che gli hanno chiesto l’eutanasia, mi ha risposto: “I pazienti, mai. I famigliari varie volte”. E’ un’affermazione che fa riflettere. Come deve far riflettere l’inclinazione di tanti per una legge che ammetta l’eutanasia. Purtroppo, prevale spesso la polarizzazione ideologica che incatena il tema in una prospettiva legalistica, come se la vita e il suo mistero possano essere racchiusi in norme giuridiche. Forse una legge è necessaria, ma non sulla eutanasia. Come non vedere l’azzardo di affidare ad una norma giuridica la soluzione delle grandi domande sulla vita e sulla morte? E comunque non sarà certo una disposizione legislativa che chiarisce o determina il senso del passaggio finale dell’esistenza umana. Solo una riflessione ampia, profonda – anche accesa – può avviare una responsabile ricerca che comprenda anche il piano legislativo. Certo si può legiferare sulle questioni relative al fine vita, ma per favorire quella alleanza terapeutica che vede il malato, il medico e i famigliari riuniti per giungere ad una decisone condivisa.

Affidare ad una norma legislativa generale la decisone su situazioni diversissime le une dalla altre appare una chiara fuga dalla responsabilità della società di aiutare e salvare i suoi figli. La norma rende ancor più semplice il “lavarsi le mani” di fronte alla responsabilità sorgiva della cura della persona, della cura particolare e unica che ogni persona richiede. Se si attenua la responsabilità è più facile seguire l’antica via di Ponzio Pilato, appunto, “lavarsene le mani”. E’ un modo di abbandonare nell’indifferenza e nella crudeltà chi ha bisogno di sostegno e di aiuto. L’imbarbarimento della società a cui porta una legislazione eutanasica è sottile ma inevitabile. L’uomo malato che sta morendo ha bisogno della vicinanza dell’uomo in salute per sentirsi che è parte dei viventi. Chi è solo, soprattutto nel momento drammatico del dolore, facilmente chiede di essere affrancato in fretta dalla vita da cui si sente, appunto, già escluso. Bernanos avverte: “Non sottraete un infelice al suicidio dandogli dimostrazione che il suicidio è un atto antisociale, perché il poveretto sta proprio pensando di disertare con la morte una società che lo disgusta”. Non è doveroso far ritrovare a chi sta morendo la sua posizione di onore nel seno della famiglia e della società? Mi hanno fatto riflettere queste parole di una signora novantenne che spiegava cosa fosse per lei morire dignitosamente: “Vorrei una morte tranquilla, nel mio letto, non all’ospedale. Vorrei che ci sia qualcuno attorno a me e che mi dica parola d’amore, che mi dia la forza di morire, che mi carezzi con gesti dolci e leggeri, che mi lasci scivolare nella morte senza forzarmi a mangiare, se non ne ho più voglia. Voglio sentire la vita attorno a me, i bambini che corrono, la gente che parla, e se io soffro, che qualcuno mi dia ciò che mi aiuti a non soffrire. Questo è per me morire con dignità”.

Prendersi cura, non essere complici della morte

Il lavoro della cura è il nostro impegno a rendere umana questa accettazione, impedendole di diventare complicità. L’atto della cura accetterà – e aiuterà ad accettare – il proprio limite invalicabile: con tutta la delicatezza dell’amore, con tutto il rispetto per la persona, con tutta la forza della dedizione, di cui saremo capaci. Nessun atto di cura, però, vorrà portare il segno di quella complicità con la morte: nemmeno nell’apparenza. Questa mi sembra la sfida – difficilissima e umanissima – che abbiamo davanti e che credo dobbiamo affrontare insieme. L’accompagnamento ad accogliere la necessità di vivere umanamente anche la morte, senza perdere l’amore che lotta contro il suo avvilimento, è l’obiettivo della “prossimità responsabile” alla quale tutti, come essere umani, siamo chiamati. L’intera comunità deve esserne coinvolta. Non staremo a guardare la morte che fa il suo lavoro, senza fare nulla. Mai faremo il lavoro della morte – che certo può (apparentemente) liberarci dal disagio – come fosse un atto d’amore. L’amore per la vita, nella quale abbiamo amato e ci siamo amati, non è più solo nostro: è di tutti coloro con i quali è stato condiviso. E così deve essere, sino alla fine. Nessuno deve sentirsi colpevole del peso che la sua condizione mortale impone alla comunità dei suoi simili. Siamo umani.

Stringere la mano di chi sta morendo è tra le più urgenti e profonde pratiche umane da riprendere. In genere, di fronte alla morte si fugge, c’è una sorta di fuga generale, “ciascuno-per-sé”, per non sentire e soprattutto per non vivere nell’imbarazzo. Si preferisce la concentrazione su di sé alla vicinanza a chi ha bisogno. Ma non ne guadagniamo in libertà; al contrario, ci impoveriamo ancor più. Nessuno vorrebbe morire da solo. Tutti desideriamo di essere accompagnati nei momenti difficili, soprattutto in quello della morte. Olivier Clement, con grande sapienza religiosa ed umana, diceva: “Lo sappiamo bene, quando un nostro caro è prossimo alla morte, ogni parola, ogni gesto potrebbe essere l’ultimo. Il più piccolo segno di attenzione si carica allora di tutto il peso della comunione umana, quella comunione di cui abbiamo nostalgia ma che quasi quotidianamente evitiamo”.

Chi si avvicina alla morte sente venir meno non solo la vita ma anche la presenza degli altri. Gli stessi medici e gli infermieri debbono essere educati all’ascolto e alla relazione con chi sta per morire. Certo, è alta la responsabilità dei parenti e degli amici di stare vicino a chi muore, a partire dalla più semplice delle relazioni, come appunto tenere strette le mani dell’altro. Dinanzi alla vertigine della morte, quelle mani strette hanno un valore inimmaginabile: significano legame, amore, sicurezza. L’amore che trasmettono quelle mani strette sino alla fine, o quelle mani che carezzano, che detergono, che aiutano, che lottano anch’esse contro il dolore e l’agonia, quelle mani stanno sconfiggendo la morte. La morte, in effetti, può mettere fine alla vita, non alla relazione. L’amore è sempre più forte della morte. Questa è la dignità, del vivere, come anche del morire. L’amore toglie alla morte il suo pungiglione e gli apre la porta alla pienezza della vita.

Lectio tenuta questo presso la Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli il 20 novembre 2018