La “Casa comune” e la “Famiglia umana”

Intervento al convegno LECTURAS DE LA ENCÍCLICA “LAUDATO SI”

Barcelona, 16 de diciembre de 2015

Questo nostro incontro avviene immediatamente dopo la 21 Conferenza mondiale sul clima svoltasi a Parigi e dopo pochi mesi dalla Enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco sulla cura del creato. Ovviamente non si possono dimenticare i numerosi interventi dei resposabili delle nazioni e delle religioni che da alcuni decenni richiamano l’urgenza della salvaguardia del creato. Un filo rosso li riuniosce tutti, ossia la consapevolezza, sempre più chiara, che siamo in un crinale della storia nel quale per la prima volta gli uomini possono distruggere la vita su tutto il pianeta. Basti pensare alla minaccia nucleare e alla devastazione ambientalòe. Papa Francesco emana questa enciclica sulla cura della “casa comune” legandola alla enciclica di Giovanni XXIII sulla pace, la “Pacem in terris”. L’umanità intera in tutte le sue manifestazioni, dalla religione alla politica, dall’economia alla cultura, dalla scienza all’organizzazione della vita quotidiana delle società, è interpellata di fronte a questa sfida epocale. E’ perciò quanto mai opportuno anche questoi nostro incontro di riflessione su questi temi.

A me è stato chiesto una riflessione legata all’aspetto spirituale di questa enorme sfida. Com’è facile intuire, si tratta di un aspetto che traversa le pagiune dell’enciclica di Papa Francesco. Sarebbe riduttivo, ad esempio, pensarla come una enciclica “verde”. Il Papa, infatti, mentre auspica l’attuazione di proposte di politica economica e ambientale, sottolinea l’urgenza di un radicale cambiamento di vita da parte dei popoli della terra. Propone una “ecologia integrale” per la quale richiede una vera e propria conversione interiore degli animi che chiama: “conversione ecologica”. Solo nell’orizzonte ampio di una ecologia integrale è possibile trovare una risposta adeguata alla crisi sia dell’ambiente che della società umana.

Sono quanto mai attuali le parole di un teologo, Gunter Anders, il quale qualche tempo fa scriveva: “L’epoca in cui viviamo, anche se dovesse durare all’infinito, è in modo definitivo l’ultima epoca dell’umanità… Viviamo nel tempo della fine, vale a dire, in quell’epoca la cui fine può essere provocata da noi in ogni istante”. E auspica almeno il sorgere del “coraggio della paura”. Sembre dire: “siamo talmente addormentati e vigliacchi da non avere neppure il coraggio di aver paura! Attenzione: la “crisi ecologica” può provocare un “morte ecologica” del pianeta”. A queste osse4rvazioni aggiungerei che non basta solo la paura, che pure è oggi il primo passo. Ma si richiede una nuova visione del mondo che coinvolga i popoli della terra. Papa Francesco, rivolge la sua Enciclica  a tutti gli abitanti del pianeta, nella convinzione che che “l’umanità ha ancorta la capacità di collaborare (con Dio) per costruire la casa comune”(n.13).

I due relatori che mi precedono illustrano con abbondanza i limiti dello sviluppo umano come sino ad oggi è stato realizzato. In verità, già nel lontano 1972, il Club di Roma metteva in guardia dalla cieca fiducia nel progresso apportato dalla civiltà tecnico-scientifica. La sostanza di quell’avvertimento era chiara: lo sfruttamento della natura mediante la produzione tecnica non può essere portato avanti all’infinito. Sono ormai passati più di quaranta anni da allora e purtroppo quegli avvertimenti non sono stati presi sul serio. La 21 conferenza sul clima ci conferma che siamo al capolinea.

L’enciclica “Laudato sì”, pur essendo un documento religioso, si sofferma con attenzione sui problemi dell’ambiente (soprattutto nel capitolo primo), rilevando il pericolo di consumare letteralmente la terra, danneggiando le funzioni essenziali al mantenimento della vita come la stabilità del clima, la rigenerazione della fertilità dei terreni, la ricarica delle riserve di acqua dolce e pulita.

Sottolinea poi il gravissimo problema della povertà nel mondo con la crescente disparità tra paesi ricchi e paesi poveri. Contraddicendo il comandamento originario della terra come casa comune di tutti. Purtoppo, le crisi ecologiche innescano gravi crisi umane o aggravano quelle pre-esistenti, come carestie, fame, guerre per il possesso di risorse sempre più scarse, guerre perfino per l’acqua, diffusione di malattie, causando un gran numero di rifugiati per motivi ambientali. Il destino dei poveri e la sorte del pianeta siano strettamente collegati.

Si deve aggiungere il flagello delle guerre che provocano disastri anche sul piano della salvaguardia del creato. Nonostante che accordi internazionali proibiscano la guerra chimica, batteriologica e biologica, sta di fatto che nei laboratori si continua la ricerca per lo sviluppo di nuove armi offensive, capaci di alterare gli equilibri naturali. Ma oggi qualsiasi forma di guerra causa incalcolabili danni ecologici. Le guerre locali o regionali, per limitate che siano, non solo distruggono le vite umane e le strutture della società; danneggiano la terra, rovinano raccolti e vegetazione, avvelenano terreni e acque. E i sopravvissuti si trovano nella necessità di iniziare una nuova vita in condizioni difficilissime che creano a loro volta situazioni di grave disagio sociale, con conseguenze negative anche di ordine ambientale. Non mi dilungo su questi aspetti, per fermarmi a considerare l’obbligo morale di porre fine a tale drammatica situazione. Del resto, se è vero che siamo al capolinea, comunque non abbiamo un pianeta B su cui salire.

 

Indispensabile un sussulto morale

 

Che fare, dunque? Senza alcun dubbio è urgente individuare strade innovative e coraggiose stabilendo i criteri di un nuovo rapporto con la “natura” e mettendo al centro lo sviluppo ogni persona e l’intera famiglia umana. Tali strade vanno certamente ricercate sul piano tecnico e politico, ed è il compito precipuo delle classi dirigenti delle società del pianeta. Ma tale impresa è difficile che avvenga senza un più generale sussulto morale che porti a individuare e ad accogliere un comune orizzonte per l’intera famiglia umana. E’ questop il senso della “conversione ecologica” che Papa Francesco auspica nella parte conclusiva dell’Enciclica. Credo che questo sia cruciale. Oggi è possibile salvare il pianeta dal disastro unicamente con una nuova visione dcel mondo e una profonda trasformazione dei cuori.

Mi piace riportare quanto scriveva negli anni Settanta del secolo scorso il filosofo ebreo tedesco, Hans Jonas, che è stato tra i primi a porre sul tavolo la gravità della questione ecologica. Egli chiama in causa la responsabilità delle persone di fronte alla crisi ecologica, ritenendola l’unica via per intaccare in radice l’edonismo della moderna cultura del godimento e dell’uomo tecnologico come “macchina desiderante”. Jonas rileva che il martellante carpe diem che ripropone il benessere individuale come legge suprema dei comportamenti, rende sempre più discutibile il primato del benessere individuale o di gruppo. La ricerca del proprio benessere a qualsiasi costo si scontra con il benessere collettivo e mette a rischio la continuità stessa della vita del pianeta. A suo parere il problema è di tali proporzioni da chiamare in causa non solo una nuova etica ma anche una nuova ascesi che coinvolga le diverse culture e le stesse grandi religioni del mondo. E fa riferimento a ciò che significò il cristianesimo per la società romana dell’epoca. Scrive Jonas: “All’inizio del Cristianesimo vi furono uomini che sotto l’influsso di una potente religione ultraterrena fecero di tutto per l’ascesi. Per amore della vita terrena ciò non è mai stato fatto. C’è solo in particolari momenti, quando un popolo è in pericolo e i giovani fremono per difendere la patria. Non so se è possibile ottenere senza religione trascendente un’ascesi nella massa, laddove il pericolo non è così chiaro come su una nave che affonda, ma si estende per decenni e attraverso i continenti”.

Si tratta di riflessioni che puntano in alto, tese a coiunvolgere non solo i credenti, ma tutti gli uomini di buona volontà: l’autore auspica passioni forti e scelte audaci da parte di tutti, una vera rivoluzione delle coscienze. Non bastano perciò scelte politiche e tecniche per quanto lungimiranti. Esse – che sono indispensabili – sarnno tuttavia possibili solo in presenza di un generale sussulto delle coscienze, sia dei responsabili che della gente. Tanto è negativo il rapporto tra abbassamento della tensione morale e dissesto ecologico, diviene ovviamente positivo quello di una risurrezione morale con la cura della casa comune. Negli anni Novanta, Giovanni Paolo II, in uno strardinario messaggio (1 gennaio 1990), affermava: “La società odierna non troverà soluzione al problema ecologico, se non rivedrà seriamente il suo stile di vita. In molte parti del mondo essa è incline all’edonismo e al consumismo e resta indifferente ai danni che ne derivano”.

Per questo non bastano più semplici esortazioni morali. Sono velleitarie. C’è bisogno di un’autentica conversione nel modo di pensare e di comportarsi. Si debbono alzare gli occhi da se stessi e sentire la responsabilità per la vita degli altri, non solo quella dei vicini e del tempo presente, ma quella delle future generazioni nel vasto mondo. Lo stile di vita più austero, l’autodisciplina nei comportamenti, la temperanza nei desideri e lo spirito di sacrificio per offrire agli altri il proprio aiuto devono informare la vita quotidiana della maggioranza della gente per non essere costretti a subire tutti le conseguenze negative della noncuranza dei pochi. Deve, insomma, affermarsi un nuovo senso della vita, dello sviluppo e della felicità nell’orizzointe di una nuova visione del mondo e del suo destino. Ma è proprio qui il problema. Purtroppo, siamo entrati nel nuovo secolo scarichi di visioni e di passioni. Viviamo tutti, singoli e collettività, un pò a testa bassa, ripiegati su noi stessi. Impauriti di fronte ad un futuro incerto, preferiamo rinchiuderci a difenderci come in un fortino assediato. In questo contesto mioppe e triste si staglia la profezia dell’enciclica “Laudato sì”: ritrovare il gusto per il sogno di Dio sul mondo, ossia il sogno di una casa comune per l’unica famiglia umana, quella di oggi e quella delle generazioni future.

 

L’uomo, amministratore, non padrone, del creato

 

Era il sogno dell’inizio. Non dobbiamo dimeticare che la crisi ecologica non arriva per caso e tanto meno è senza cause. “Alla radice della distruzione dell’ambiente naturale c’è un errore antropologico” scriveva Giovanni Paolo II nella Centesimus annus (n.37). L’errore è la pretesa dell’uomo di essere padrone assoluto della terra, ab-solutus, sciolto da ogni vincolo, e quindi di disporne arbitrariamente, come se la terra non avesse una sua propria forma e una destinazione anteriore a ciascun individuo o gruppo.

La tradizione ebraico-cristiana (che in parte anche l’Islam accetta) è chiara su questo. L’uomo riceve da Dio la responsabilità di custodire, assieme a Lui, la creazione. Dio lo ha creato a sua mmagine e somiglianza(Gen 1,26) perché lo rappresentasse. La creazione, di cui l’uomo è il culmine, gli è affidata perché “egli domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”(Gen 1,26). Anche la benedizione data da Dio ridice questa responsabilità: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra” (Gen 1,28).

L’uomo deve essere fecondo, ossia vivere e affermare la qualità della vita lottando contro la morte: non deve sparire né ritrarsi, ma moltiplicarsi abitando l’estensione della terra. Riempirla non significa calpestarla, né moltiplicarsi senza misura, ma abitarla rendendola una dimora buona per tutti. Il verbo “soggiogare” (kavash), può significare “camminare su, dominare sessualmente”, ma come tra uomo e donna ci può essere un rapporto che non sia di soggiogamento, così deve essere tra l’uomo e la terra. E il verbo radah, ossia “dominare”, va inteso come l’azione di chi deve guidare il popolo verso una vita piena e nella pace. I due verbi citati non significano l’esercizio di un potere oppressivo, arbitrario e violento; anzi, escludono totalmente lo sfruttamento e la distruzione della terra.

E’ questo il senso del “giubileo”, ossia di un tempo di riposo e di ri-inizio, sia per gli uomini che per la terra. L’uomo è signore della creazione (Sal 8) in quanto mandatario di Dio. C’è perciò convergenza tra questo comando e quanto è scritto nel più antico racconto della creazione, là dove si dice: “Il Signore Dio pose l’uomo in un giardino perché lo coltivasse (‘avad) e lo custodisse (shamal)” (Gen 2,15). La terra non è sua, continua ad appartenere a Dio. Tra l’altro, va notato che il comando a soggiogare la terra e a dominare sugli animali è dato a un uomo che non è carnivoro, semmai vegetariano, visto che Dio gli dà come cibo “ogni erba, ogni seme e frutto che cresce dalla terra” (Gen 1,29). Gli esseri che hanno “nefesh”, ossia vita animale, non possono servire da cibo agli uomini secondo la volontà creazionale di Dio, sicché il cosmo è chiamato a vivere un rapporto che è di grande e totale rispetto per la vita.

Il potere dato da Dio all’uomo ha un limite. L’autore sacro lo descrive con la proibizione di mangiare il frutto dell’albero della vita. Quando il tentatore si avvicina ad Eva per convincerla a mangiarne e lei avanza l’obiezione della morte, le dice: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui ne mamgiaste si aprirebbero I vostri occi e sareste come Dio”(Gen 3, 4). E’ la tentazione prometeica che ricorre continuamente nella storia sia personale che collettiva: l’uomo non si sente solo faber ma creator, non più limitato ma onnipotente. E’ qui la radice profonda del sovvertimento dell’ordine della natura. E si deve ricordare che questa tentazione è come il peccato:  “accovacciato alla tua porta”(Gen 4,7). Lo scatto etico – ed anche religioso – significa pertanto ricacciare indietro il peccato di onnipotenza che forzando la porta è entrato nel cuore dell’uomo. E’ urgente che l’uomo riprenda il suo essere dominus non creator stabilendo un rapporto dialettico con la creazione per trasformarla senza tradirla, per servirsene come casa senza distruggerla.

La crisi ecologica sta interrogando anche la riflessione teologica cristiana. Si stanno moltiplicando gli studi sulla creazione. La “conversione ecologica” specifica che la signoria dell’uomo sul creato è il “riflesso reale dell’unica e infinita signoria di Dio”. Moltman, noto teologo protestante, invita a ripensare un’antropologia cristiana in maniera più integrata all’intera creazione. E, dopo aver accennato ai rischi di una certa teologia che può anche aver avallato il dispotismo dell’uomo sulla natura, si spinge ad esortare ad una sorta di “spiritualità cosmica”, che peraltro non è assente nella tradizione della Chiesa. Per non citare solo San Francesco, riporto quanto un antico monaco, Zosimo, diceva ai suoi discepoli: “Miei fratelli, non temete il peccato, amate l’uomo anche nel peccato, c’è in lui l’immagine dell’amore divino. Amate tutta la creazione insieme e in tutti i suoi elementi, ogni foglia, ogni solco, gli animali e le piante. Amando ogni cosa, voi comprenderete il mistero di Dio nelle cose. E avendolo compreso ne trarrete vantaggio ogni giorno. E finirete per amare il mondo intero di un amore universale”.

E’ una visione pienamente in linea con la visione biblica della creazione che Papa Franccesco ha ripreso e consacrata con l’enciclica “Laudato sì”. Nella Bibbia, il cielo, la terra e tutte le creature non sono entità estraneee tra loro, immobili e fisse, fanno invece parte di uno scenario che abita il tempo e lo spazio. La creazione dà inizio al tempo e termina con il settimo giorno, durante il quale tutto l’universo si riposa, sicché tutte le creature sono nel tempo, nella storia: non fanno parte di uno scenario a se stante e staccato dall’uomo che dall’esterno vi è collocato. No, l’uomo, che la Scrittura pone all’apice della creazione, viene dalla terra. Dio ha plasmato l’adam, l’uomo, a partire dall’adamà, ossia dalla terra (cfr. Gen 2,7). L’uomo è il terrestre perché tratto dalla terra! Si potrebbe dire che la terra è in qualche modo, se non madre, almeno matrice dell’uomo. L’uomo non potrà mai dimenticare questa origine, anche perché alla terra tornerà (cfr. Gen 3,19). La terra è creatura di Dio e l’uomo è creatura tratta dalla terra, co-creatura con la terra. Alcuni esegeti traducono: “Dio plasmò l’uomo, che è polvere del suolo”(Gen 2,7), e non “Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo”. Dio ha creato liberamente l’uomo, senza il consenso della terra, tuttavia la terra è matrice dell’uomo. Ma, si badi bene, anche gli animali sono plasmati dal suolo, dall’adamà, come l’uomo (cfr. Gen 2,19). Essi sono subito portati davanti all’uomo perché dia loro un nome, come segno di superirità.

Gli animali non sono in grado di costituire un faccia a faccia per l’umano, e tuttavia sono destinatari di una relazione con l’uomo che li abilita a ricevere un nome, cioè ad essere soggetti, compagni, ausiliari per l’uomo. Ma la co-­creaturalità come comunione è completa solo con la creazione della dualità, dell’alterità: così è creata la donna, che la Scrittura dice tratta dall’uomo per affermare l’uguaglianza con lui; ma la donna è anche diversa o, meglio, “altra” da lui, in modo che sia possibile il faccia a faccia, la relazione, la comunione. L’uomo e la donna sono co-creature per volere di Dio, chiamate a diventare una sola carne (cfr. Gen 2,24), e questa relazione tra maschio e femmina dovrà prevalere sulla stessa relazione familiare… Insomma, la creazione, secondo il racconto biblico (Gen. 2), è una comunità di co-creature, perché l’uomo è in stretta relazione con la terra, le piante, gli animali ed è relazione in se stesso: maschio e femmina!

Ci sono altre indicazioni che rivelano la creazione come comunione di co-creature. Nel racconto della creazione Dio dà una benedizione agli animali del cielo e a quelli delle acque, dicendo: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari, e gli uccelli si moltiplichino sulla terra!”(Gen 1,22). E’ la stessa benedizione che dà anche agli uomini (cfr. Gen 1,28), mettendo così in evidenza come ci sia una solidarietà nel crescere e nell’abitare l’universo da parte di uomini e di animali: Dio ha dato a entrambi l’universo come il luogo da abitare, e il rapporto tra uomo e animale è innanzitutto di somiglianza, di solidarietà, di condivisione dello spazio vitale. Proprio per questo la creazione delle piante e degli animali è cosa “buona” e quella dell’uomo “molto buona”, e tutte le creature sono destinate al settimo giorno, giorno nel quale trovano destino e pienezza di esistenza. L’uomo insomma non esiste senza le altre creature, e il mondo esiste come casa dell’uomo. Certo c’è una differenza sostanziale tra l’uomo e le altre creature. Lo esprimeva bene Romano Guardini quando affermava: le cose nascono per comando di Dio, mentre l’uomo per una chiamata di Dio. E’ la dimensione della persona che lega in maniera unica l’uomo a Dio sino a renderlo suo rappresentante nella creazione.

 

Verso un’ecologia umana

 

Non si deve dimenticare, tuttavia, che oltre ad una ecologia ambientale vi è anche una ecologia “umana” che riguarda la vita stessa dell’uomo e la sua dimensione spirituale, a partire dai molti comportamenti inquinanti che rivelano una generalizzata mancanza di rispetto per la vita. Quante volte, ad esempio, le ragioni della produzione prevalgono sulla dignità del lavoratore e gli interessi economici prevalgono sul bene delle persone, se non addirittura su quello di intere popolazioni? Non dovrebbe poi mancare l’inquietudine per le enormi possibilità della ricerca scientifica e biologica che possono introdurre turbamenti devastanti. Non tutto ciò che l’uomo può fare, va fatto. Basti pensare al dramma della bomba nucleare. E’ stato davvero un progresso? E non credo siamo in grado di misurare i danni di una indiscriminata manipolazione genetica e di uno sviluppo sconsiderato di nuove specie di piante e forme di vita animale, per non parlare di inaccettabili interventi sulle origini della stessa vita umana. A nessuno sfugge come, in un settore così delicato, l’indifferenza o il rifiuto delle norme etiche fondamentali portino l’uomo alla soglia stessa dell’autodistruzione. Il rispetto della vita e, in primo luogo, della dignità della persona umana deve diventare la fondamentale norma ispiratrice di un sano progresso economico, industriale e scientifico.

E dovremmo porre maggiore attenzione anche all’inquinamento etico che, attraverso comportamenti irresponsabili, devastano la cultura dei piccoli e dei grandi ispirando convinzioni devastanti. Il dissesto della vita morale, che sta minando nelle radici la stessa convivenza delle nostre società, richiede un’attenta consapevolezza da parte di tutti e una grave responsabilità per edificare una società a misura dell’uomo e del creato. Dissesto ecologico e dissesto morale richiedono un profondo sussulto spirituale per suscitare nuove passioni per il mondo, per la società, per il bene comune di tutti.

Senza questo profondo sussulto è arduo fondare una prospettiva di solidarietà universale. Solo nuovi grandi sogni possono spingere gli individui e i popoli ad uscire dall’istintivo egocentrismo e proiettarsi con passione verso un progetto globale. Credenti e laici sono chiamati ad avviare un serrato e fecondo dibattito a tutto campo. Luc Ferry, un filosofo francese non credente, è tra coloro che si cimentano in questa ricerca. Egli registra con preoccupazione la crescita di una concezione egocentrica del vivere derivata dalla perdita di senso: “Dopo il relativo regresso delle religioni, dopo la morte delle grandi utopie che inserivano le nostre azioni nell’orizzonte di un vasto disegno, la questione del senso non trova più un luogo dove esprimersi a livello collettivo… resta confinata nell’intimità della più stretta sfera privata. Traspare solo in occasioni eccezionali, lutti o malattie gravi”. E’ il vuoto. E la situazione non appare passeggera.

All’orizzonte – continua Ferry – non appaiono i segni di un nuovo “grande disegno” che dia significato forte alla vita e al mondo. E aggiunge: se si vuol evitare il rischio di cadere nel baratro del nulla non basta un semplice “ritorno all’etica”. E’ indispensabile un nuovo umanesimo, una nuova visone dell’uomo e del suo destino, che deve avere tratti analoghi a quelli religiosi: “La morale è utile e anche necessaria: ma rimane nell’ordine negativo del divieto. Se le etiche laiche, anche le più sofisticate e più perfette, dovessero costituire l’ultimo orizzonte della nostra esistenza, ci mancherebbe ancora qualche cosa, per la verità l’essenziale: l’amore (sia degli individui sia delle comunità di appartenenza)”. Parafrasando la nota frase di Heidegger, “Solo un dio ci può salvare!”, si potrebbe dire che, di fronte al prevalere assoluto della cultura tecnologica, “Solo l’amore ci salverà!” E’ in questo orizzonte che si muove l’enciclica papale che raccoglie gli insegnamentio del magistero rpecedente e quello del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli che con il Patriarca bartolomeo è statop antesignano nella riflessione teologica.

 

La trasfigurazione del creato

 

Permettetemi infine un cenno al “sogno di Dio” sul mondo, nel suo inizio e al suo termine. “In principio” – nota la Bibbia nella Genesi – l’uomo riceve da Dio un giardino da coltivare e da custodire per renderlo spazio di vita e dimora per tutte le creature nella giustizia, nella pace, nella bellezza. C’è poi la “fine” della storia che l’Apocalisse rivela in una città bella con un giardino (cfr. Ap 21-22) la cui costruzione spetta anche all’uomo mentre Dio la fa scendere dal cielo. Tra il “principio” e la “fine” vi è l’intera storia umana segnata sia dalle ferite degli uomini che cedono alla tentazione dell’onnipotenza e che deturpano il creato, sia dall’impegno di tanti credenti e di persone di buona volontà che spendono la loro vita per il bene di tutti. L’impegno a trasfigurare la creazione intera è la grande fatica affidata ad ogni generazione.

Deve crescere sempre più la consapevolezza del legame tra l’uomo e il creato: in effetti, o si salveranno assieme, o assieme periranno. Si potrebbe persino dire che che la salvezza dell’umanità condiziona quella della creazione. È Paolo a fare questa connessione nella Lettera ai Romani quando scrive: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio… Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi”(8,19-22). C’è un’attesa in tutte le creature, un desiderio di salvezza cosmica, possibile però solo se gli uomini realizzano la loro vocazione a diventare figli di Dio. Quando gli uomini saranno figli di Dio, ossia legati a Gesù Cristo, allora la creazione conoscerà essa pure la sua trasfigurazione, la sua “novità”, e saranno generati cieli nuovi e terra nuova.

I profeti tante volte hanno annunciato questo futuro della creazione, descrivendolo con le immagini dell’agnello e del lupo che pascolano insieme, del lattante e della serpe che insieme giocano, del deserto che rifiorisce (cfr. Os 2,20; Is 11,6-8; 32,15-17…)! Sono visioni che volevano suscitare passioni per costruire un futuro non solo per se stessi ma per tutti. Gesù Cristo rappresenta lo spartiacque decisivo della storia del creato nella sua ampiezza. Il giorno di Pasqua viene rotolata via dal sepolcro la pietra che lo chiudeva. Gesù, il “primogenito di ogni creatura” diviene il “primogenito di coloro che risorgono dai morti”(Col 1, 15-20). Il corpo di Cristo risorto è lo “spazio” all’interno del quale la creazione viene raccolta da Dio e trasfigurata. Con lui sono iniziati i tempi definitivi.

I cristiani, di fronte “al deserto che avanza” come annunciava Nietzsche, di fronte alla terra sempre più desolata, di fronte alla distruzione del creato, sono chiamati ad unirsi a Cristo che scende nelle profondità della creazione per salarla dalla corruzione e dirigerla verso l’Alto. E’ quel che i cristiani celebrano e sperano ogni domenica quando si radiunano attorno all’Eucarestia. Celebrano una salvezza non individuale né astratta dal creato. Nella domenica già vivono il futuro della creazione, ossia la famiglia umana che abita una città pacificata e universale. L’Eucarestia, quella piccolo pane trasfigurato, quel “frammento” ricapitola già il “tutto”, anche se deve ancora venire la pienezza. Questo celebrano i credenti ogni domenica.

E chi non crede, o crede in altro modo? Ciascuno è chiamato ad aprirsi all’amore: è questa la via per trasfigurare, non solo per salvaguardare, il creato. Oggi siamo più consapevoli che non si può amare l’uomo senza amare anche la terra, sua abitazione. La crisi ecologica può essere un’occasione opportuna non solo per suscitare “il coraggio della paura”, come qualcuno giustamente chiede al fine di ottenere decisioni e comportamenti sapienti, ma soprattutto per riscoprire la fede da parte dei credenti e l’amore da parte di tutti. Solo l’amore, infatti, salverà il creato.