Intervento al convegno promosso da Retinopera ad Assisi

Povertà emergenti e ricchezze negate

 


I – LA SCELTA DEI POVERI


 


Francesco d’Assisi e il lebbroso


Vorrei affrontare il tema assegnatomi a partire dal Testamento di San Francesco, scritto qualche ora prima della morte. In questo testo Francesco ricostruisce l’inizio della sua conversione e quindi la radice da cui parte la sua visione della vita. Scrive Francesco: “Il Signore concesse a me, frate Francesco, di cominciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara di vedere i lebbrosi. E il Signore mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro, mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo”. L’incontro con il lebbroso segna l’inizio di una vita nuova per Francesco. Dovette uscire da Assisi, uscire da sé, anche solo di poco. Si imbatté quindi in un lebbroso e, alla vista, istintivamente cercò di  evitarlo. Francesco sconfisse la paura e si avvicinò: non fece però solo l’elemosina, baciò il lebbroso. L’elemosina non bastava, era necessario compiere un gesto d’a­more. Questo piccolo grande gesto cambiò radicalmente la vita di Francesco. E’ quanto scrive nel Testamento per correggere – così ritengono molto studiosi – una interpretazione spiritualista della sua scelta evangelica. E aggiunge: “Quello che pri­ma era amaro mi diventò dolce”. Quell’incontro cambiò il gusto della vita e quindi il modo di affrontarla. Francesco, affinato nello sguardo dall’incontro con il Signore in quel lebbroso, poté riconoscere quello stesso volto, questa volta nel Crocifisso di san Damiano, e ascoltarne la voce.


Dio sceglie i poveri


La scelta di Francesco sgorga nella sua limpidezza e nella sua forza direttamente dal Vangelo, appunto, sine glossa. Il Vangelo – e non dimentichiamo che è la “buona notizia” data anzitutto ai poveri – raccoglie l’ininterrotta tradizione biblica dell’amore privilegiato di Dio per i poveri, in particolare gli orfani, le vedove e gli stranieri. In effetti, Dio si lega ai deboli e ai poveri già dalla vicenda di Caino e Abele. In quella pagina della Genesi è evidente la preferenza per Abele. Non si tratta però di un capriccio, ma dell’attenzione peculiare che Dio ha per i deboli. Abel vuol dire soffio, debolezza; più che un nome proprio indica una condizione: la debolezza. Dio sta rivolto verso di loro. La stessa concezione della giustizia, nel Primo Testamento, è legata al primato della difesa dei poveri. Scorrendo le pagine bibliche ci si accorge che la carità e la giustizia sono verificate dall’attenzione verso i più poveri. Del resto, l’intera storia di Dio con gli uomini è segnata da una peculiare attenzione ai deboli e ai poveri. È tale amore che spinge il Padre che sta nei cieli ad inviare il Figlio sulla terra. Il mistero dell’abbassamento (la kenosi), del tutto inimmaginabile dalla ragione umana, trova la sua spiegazione solo nell’amore senza limiti di Dio per l’uomo, e per l’uomo indebolito dal peccato. Gesù  si pone sulla linea delle “Scritture” e le porta a compimento. “ a stento – dice Paolo – si trova chi sia disposto a morire per un giusto…ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,7-8 ).  L’amore privilegiato per i poveri qualifica  l’agire e l’essere di Gesù. Ed è per questo che l’amore per poveri è ciò che nella Chiesa parla meglio di Dio.


 «Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri»


Duemila anni di storia della Chiesa mostrano  questo filo rosso che lega  i poveri alla Chiesa. E ogni volta che la Chiesa  ha dimenticato il suo legame con i poveri si è anche attutito quello con il Vangelo, e viceversa: tutte le volte che ha cercato di riformare il suo volto, lo ha fatto riscoprendo anzitutto l’amore per i poveri.  L’amore cristiano attende ancora che venga scritta la sua storia. Ma le ricerche già realizzate mostrano la forza storica dell’amore, tutta segnata dall’impronta di Cristo. Porto un solo esempio: il titolo di Vicarius Christi, ben prima che al Papa, era dato ai poveri. Essi  sono il “sacramento di Cristo”. Congar diceva: “I poveri sono cosa della Chiesa. Non sono soltanto sua clientela o beneficiari delle sue sostanze: la Chiesa non vive appieno il suo mistero se ne sono assenti i poveri. Il sacerdozio è incaricato di essi… La cura dei poveri, degli sradicati, dei deboli, degli umili, degli oppressi, è un obbligo che ha le sue radici nel cuore stesso del cristianesimo inteso come comunione. Non può esistere comunità cristiana senza diaconia, cioè servizio di carità che, a sua volta, non può esistere senza celebrazione dell’Eucarestia. Le tre realtà sono legate tra di loro: comunità, Eucarestia, diaconia dei poveri e degli umili. L’esperienza dimostra che esse vivono o languono insieme…”.


Con il Vaticano II la Chiesa cattolica ha evidenziato con notevole forza tale rapporto.[1] Giovanni XXIII, nel radiomessaggio dell’11 settembre 1962, a un mese dall’apertura del Concilio, pronunciò questa splendida frase: «In faccia ai paesi sottosviluppati, la Chiesa si presenta quale è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri». I poveri tornavano ad entrare nella costituzione stessa della Chiesa. Nel discorso di apertura del Concilio, sottolineando il mistero della povertà della Chiesa, diceva: «al genere umano oppresso da tante difficoltà essa, come già Pietro al povero che gli chiedeva l’elemosina, dice: io non ho né oro né argento, ma ti do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno levati e cammina». Una Chiesa che cammina tra gli uomini, povera di tutto, forte unicamente del nome del risorto, è quella che voleva Papa Giovanni. Tale scelta non era innocua, rendeva necessaria una riforma della Chiesa stessa, a partire da uno stile di vita più semplice e austero, sia nei vescovi che nei fedeli, che stimolasse un impegno concreto per la solu­zione del grande problema della povertà nel mondo. Tra i padri conciliari, ad esempio, circolava un testo nel quale, tra l’al­tro, si diceva: «I popoli vivono miseramente perché non han­no tetto né pane. Però questo disastro è dovuto sopratutto al fatto che essi non hanno pane spirituale. Dopo che il laici­smo lo ha privato di questo pane spirituale, l’uomo è cresciu­to egoista e si nutre di odio. E così non cerca che di ammuc­chiare ricchezze, con il disprezzo totale della miseria di suo fratello. Poco conta che oggi l’uomo disponga di una scien­za e di una tecnica ammirevole, capace di dare benessere a tutta la popolazione del globo. Non curando la vita morale, che è assicurata solo da quella religiosa, egli agirà male e solo per se stesso, disprezzando i bisogni di suo fratello».[2] E Paolo VI, nell’apertura della seconda sessione del Conci­lio, riprese il tema: «La Chiesa guarda ai poveri, ai bisogno­si, agli afflitti, agli affamati, ai sofferenti, ai carcerati, cioè guarda a tutta l’umanità che soffre e che piange: essa le ap­partiene, per diritto evangelico».[3]


In verità, solo tre testi del Concilio (la Lumen Gentium, la Gaudium et Spes e il decreto Ad Gentes) affrontano il tema del rap­porto tra la Chiesa e la povertà. Anzitutto la Lumen Gentium con questo un bellissimo brano sulla povertà della Chiesa: “Come Cristo ha compiuto la sua opera di redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a pren­dere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvez­za. Gesù Cristo «sussistendo nella natura di Dio… spogliò se stes­so, prendendo la natura di un servo» (Fil 2,6-7) e per noi «da ric­co che egli era si fece povero» (2Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per far conoscere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Co­me Cristo infatti è stato inviato dal Padre «a dare la buona novel­la ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore contrito» (Lc 4,18), «a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10): così pure la Chiesa circonda di affettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne l’indi­genza e in loro intende servire a Cristo.” Con la Gaudium et Spes il Concilio afferma la destinazione universale dei beni della terra e la conseguente funzione sociale della pro­prietà: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa con­tiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli, e pertanto i beni creati debbono, secondo un equo criterio, essere partecipati a tutti… Perciò l’uomo, usando di questi beni, deve conside­rare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che posso­no giovare non solo a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni suffi­cienti a sé e alla propria famiglia… Colui che si trova in estre­ma necessità ha il diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui… Ogni proprietà privata ha per sua natura una funzione sociale che si fonda sulla comune destinazione dei beni. Se si trascura questa funzione sociale, la proprietà può diventare in molti modi occasione di cupidigia e di gravi disordini».[4] Il testo riecheggia la ricca tradizione patristica in questo campo e mostra senza dubbio una grande forza teologica. C’è poi il decreto Ad Gentes, nel quale più bre­vemente si afferma che la Chiesa deve continuare sulla «stessa strada seguita da Cristo, la strada cioè della povertà, dell’obbedienza, del servizio e del sacrifi­cio fino alla morte».[5]


La Chiesa italiana: ripartire dagli ultimi


I vescovi italiani, di fronte alla difficile crisi che il nostro paese stava attraversando nei due decenni dopo il Concilio, ripresero questa ispirazione conciliare ed emanarono un documento dal significativo titolo: La Chiesa italiana e le prospettive del paese (1981). Il testo inizia così: “Il permanente stato di crisi dell’Italia trova una profonda e continua eco nella nostra quotidiana esperienza di vescovi”(n.1), e continua: “bisogna decidere innanzitutto di ripartire dagli “ultimi”, che sono il segno drammatico della crisi attuale. Fino a che non prenderemo atto del dramma di chi ancora chiede il riconoscimento effettivo della propria persona e della propria famiglia, non metteremo le premesse necessarie a un nuovo cambiamento sociale. Gli impegni prioritari sono quelli che riguardano la gente tutt’ora priva del’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, il salario familiare, l’accesso alla cultura, la partecipazione. Bisogna inoltre esaminare seriamente e situazioni degli emarginati che il nostro sistema di vita ignora e perfino coltiva: dagli anziani agli handicappati, dai tossicodipendenti ai dimessi dal carcere o dagli ospedali psichiatrici. Perché cresce ancora la folla di ‘nuovi poveri’? Perché a una emarginazione clamorosa risponde così poco la società attuale?”(n. 4).


Sono parole di un’attualità sorprendente. Ma soprattutto mostrano la visione con cui vivere il rapporto tra la Chiesa e il mondo, tra la comunità cristiana e la città. I cristiani, cittadini a pieno titolo della “polis”, rivolgono i loro occhi, e il loro cuore, anzitutto sui poveri. Sono belle le parole di Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est: Il programma del cristiano – il programma del buon samaritano, il programma di Gesù – è un cuore che vede. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente”. Il cristiano è un uomo, è una donna che, a imitazione di Cristo, ha gli occhi del cuore rivolti anzitutto ai poveri. Non è un caso che la parabola del Buon Samaritano, è stato il testo evangelico scelto da Paolo VI per sintetizzare l’immagine della Chiesa uscita dal Concilio Vaticano II. L’esortazione di ripartire dagli ultimi, non è perciò una esortazione morale, riguarda l’essere stesso della Chiesa e il suo agire verso il mondo. Benedetto XVI nella sua prima enciclica lo dice con chiarezza: “La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza”(n. 25).


 


II – UN’AGENDA CONTRO LA POVERTA’


 


Anche solo queste brevi riflessioni fanno emergere quanto l’attenzione alla povertà sia fondamentale nella riflessione  e nell’esperienza del credente. Ovviamente tutto ciò si intreccia con i motivi e gli argomenti di ordine economico e sociale che ruotano intorno alla povertà nella nostra realtà contemporanea, nazionale e globale. Si tratta di un intreccio dal quale dobbiamo far emergere un atteggiamento di discernimento: dalla Parola di Dio, letta alla luce della interpretazione della fede e della Chiesa, alla parola della storia, dei fatti economici, delle costruzioni sociali dell’uomo. Possiamo guardare a questo intreccio come a qualcosa che ci spinge ad un’analisi anche concreta, che nasce da un insieme di scelte alle quali siamo chiamati, di fronte ai rischi della povertà e alla sua drammatica signoria in molte regioni del mondo.


Una certa idea di bene comune: la nostra responsabilità per i poveri


La Dignitatis Humanae al n.6 afferma chiaramente che «il bene comune della società – che si concretizza nell’insieme delle condizioni sociali, grazie alle quali gli uomini possono perseguire il loro perfezionamento più riccamente o con maggiore facilità – consiste soprattutto nella salvaguardia dei diritti della persona umana e nell’adempimento dei rispettivi doveri»; e aggiunge che adoperarsi per il bene comune «spetta tanto ai cittadini quanto ai gruppi sociali, ai poteri civili, alla Chiesa e agli altri gruppi religiosi», ovvero: «a ciascuno nel modo ad esso proprio, tenuto conto del loro specifico dovere verso il bene comune». Tale nozione di bene comune viene espressa ancor più compiutamente dalla Centesimus Annus ove si chiarisce che il bene comune non può essere ridotto come fine proprio, innanzitutto, dello Stato. Insomma, i testi magisteriali propongono una nozione larga di bene comune che – lo ripeto – «si concreta nell’insieme delle condizioni sociali, grazie alle quali gli uomini possono perseguire il loro perfezionamento più riccamente o con maggiore facilità». La nozione di bene comune non si basa perciò su di un  bene della società per il quale sarebbe anche legittimo sacrificare il bene della persona, bensì sulla dignità della persona umana e sulla sua libertà, oltre che sulla necessità che ogni potere sociale sia limitato.


Tale nozione di bene comune impone una visione di spazio pubblico poliarchico e non statalizzato. E’ a dire che il bene comune non lo persegue solo lo Stato, ma è un compito che spetta ad ogni soggetto e ad ogni istituzione sociale. Tutti pertanto hanno il dovere di contrastare ogni forma di povertà. Con ciò si respinge ogni paternalismo, ogni assistenzialismo, ogni delega ed ogni superogatorietà nella lotta contro la povertà.  E, simmetricamente, ogni forma di individualismo radicale. Nel quadro dell’insegnamento conciliare sulla Chiesa (si veda anche solo LG 1 e GS 1), i credenti singoli ed associati, da soli e con altri uomini e donne di buona volontà, sono impegnati nella lotta contro la povertà e per la pienezza della libertà di ogni persona in virtù del Battesimo, posto a principio e a fondamento nuovo delle loro vite. Questo ci introduce ad una lezione altrettanto larga di povertà in cui c’è spazio per tutto ciò che minaccia ogni dimensione della vita umana, da quella più materiale alla meno materiale. Dunque, come cristiani abbiamo una ragione ed una misura esigentissime dell’impegno contro le povertà. Per noi è un dovere che si esprime nell’amore per la vita e la libertà altrui.


I poveri: esclusi ed emarginati


L’icona evangelica del Buon Samaritano, ci aiuta a cogliere la condizione dei poveri nel mondo contemporaneo:  sono gli esclusi e gli emarginati.  La strada che da Gerusalemme scende a Gerico è la parabola delle strade del mondo: di quelle asfaltate e affollate delle città del mondo ricco del Nord e di quelle larghe e sconnesse del grande Sud povero del mondo. Ma, a differenza della parabola ove l’uomo mezzo morto è uno solo, nelle strade di oggi i “mezzi morti” sono innumerevoli, a volte popoli interi. E pensare che mai  nella storia umana c’è stata tanta ricchezza come oggi e mai  tanti poveri come oggi. Non solo, c’è da aggiungere che mai il divario tra ricchi e poveri è stato così ampio. Si tratta di una contraddizione che diviene sempre più insostenibile. Anzi, inquietante. L’allargarsi delle disuguaglianze economiche e sociali – un fenomeno che riguarda le città sia del Nord che del Sud del mondo-dovrebbe preoccupare se non per ragioni morali almeno per egoismo collettivo: la crescita dell’area di emarginazione e di esclusione diventa pericolosissima per l’equilibro della convivenza umana e per la stessa pace del  pianeta.


Rende ancora più pensosi, inoltre, il fatto che di fronte al fiume in piena della povertà e della miseria, invece di una crescita del sentimento di solidarietà e di generosità, assistiamo all’indurimento della mentalità egoistica. Si  affievolisce sempre più nella coscienza comune lo scandalo per lo squilibrio tra ricchi e poveri, e si esalata tranquillamente la dimensione della libertà individuale in opposizione all’utopia dell’uguaglianza


L’individualismo,espressione un tempo demonizzata sia nel mondo socialista che in quello cattolico, esprime oggi comportamenti comuni che coinvolgono massicciamente anche i credenti. La “pietas” è diventata sempre più rara e la società si è fatta più dura per tutti. Anche il legame che contraddistingueva – magari in forma approssimativa e paternalistica – le politiche di cooperazione allo sviluppo negli anni ’60 e ’70 del secolo XX, hanno lasciato il posto al suo contrario. Ma non mi dilungo su questo.


La povertà come questione economica


Di fronte alla crescita della povertà, la cultura economica e il mondo dell’economia hanno assunto atteggiamenti diversi, scaturiti da un modo diverso di inquadrare la povertà. Per molti la povertà dipende – in ultima analisi – dalle scelte individuali. In un’economia di mercato perfettamente funzionante si ha sempre la possibilità di avere un lavoro e il reddito conseguente, a condizione che si accetti la necessaria mobilità tra lavori, settori, aree geografiche, tipi di professione, livelli di salario. In questo primo atteggiamento prevale quella che possiamo definire la dimensione oggettiva del lavoro, legato al suo essere materia di scambio nel mercato. Le disuguaglianze di reddito al presente e la variabilità attesa del reddito nel corso della vita sono un elemento fisiologico, che costituiscono il necessario stimolo a investire nel capitale umano e a risparmiare. Istruzione e risparmio sono virtù, e la responsabilità individuale esercitata in modo previdente consente di evitare la povertà. La povertà, inoltre, non è legata direttamente a una situazione di ingiustizia, poiché il reddito che manca al povero non è nelle mani del ricco, ma è piuttosto  un reddito mancante, in quanto non realizzato, all’intera economia. La povertà è quindi un fenomeno di inefficienza più che di ingiustizia. E il povero, di conseguenza, è tale principalmente per causa propria, come conseguenza di scelte non previdenti.


Il mondo che ci viene così rappresentato non solo appare molto lontano da una visione più complessa nella quale, ad esempio, il lavoro ha anche una fondamentale componente soggettiva che ha a che fare con la realizzazione e il completamento della persona. Appare anche come un mondo che corrisponde solo parzialmente a quello reale. Il mondo presupposto è quello della concorrenza perfetta che non sempre esiste nella realtà. Senza dimenticare poi come possano darsi situazioni economiche che si definirebbero di equilibrio, quindi in linea con le regole di funzionamento del mercato, nelle quali tuttavia i salari restano sotto la soglia della povertà. Non solo. La povertà può derivare da eventi (non solo economici ma anche extraeconomici) che possono colpire tutti gli individui in modo casuale e, in larga misura, indipendente dal loro comportamento (almeno quello economico): malattie fisiche, disturbi mentali, dipendenze, vecchiaia, morte del coniuge/genitore, separazioni e divorzi, calamità naturali, guerre, altri eventi traumatici possono ridurre le capacità lavorative, privare le persone del risparmio accumulato, fino a ridurre in condizioni di povertà anche soggetti virtuosi e responsabili.


In questi casi potrebbe diventare assai difficile innescare processi di uscita dalla povertà. Trattandosi di eventi casuali che possono colpire (quasi) con uguale probabilità tutti i membri di una società, è naturale farvi fronte mediante sistemi mutualistici, di assicurazione sociale, basati sulla ripartizione del rischio individuale sull’intera società. Di qui nascono alcune delle ragioni, è opportuno sottolinearlo, di tipo strettamente economico che giustificano le funzioni dello stato sociale contemporaneo. Ma sul punto tornerò più avanti.


La povertà come questione sociale


La povertà in realtà non è un fenomeno puramente individuale, ricostruibile con le sole lenti dell’economia; essa viene trasmessa socialmente. Se riconosciamo che la povertà non è che un risultato di una lunga catena di concause, dobbiamo comprendere tra queste anche la cultura, le relazioni sociali frequentate e le capacità non cognitive (affidabilità, motivazione, capacità di interazione, di organizzazione ecc.) le quali, pur non essendo innate, non sono neanche completamente e parimenti acquisibili attraverso la scuola. Esse derivano in primo luogo dall’ambiente familiare e sociale di appartenenza. Ed è la famiglia, anzitutto (ma anche il quartiere, la città, il gruppo sociale), che trasmette le condizioni da cui dipendono le opportunità future dell’individuo di essere povero o benestante.


La trasmissione può avvenire all’interno di aggregazioni sociali o tra generazioni. In entrambi i casi tende a rafforzare la segmentazione sociale e a bloccare la mobilità, anche quella intergenerazionale. La forma più odiosa di trasmissione è quella che riguarda i bambini, i quali non possono essere certo considerati responsabili della propria povertà e che, pure, dal loro stato di povertà infantile saranno sicuramente condizionati per tutta la vita. La povertà quindi acquisisce una chiare dimensione sociali, né  – come si sostiene – è un fenomeno strutturalmente transitorio.


Infine, la caratterizzazione della povertà come situazione di ingiustizia distributiva emerge nei casi in cui ciò che manca al povero è nelle mani del ricco. Ciò avviene quando la povertà non è conseguenza (solamente) di scelte individuali, né soltanto di eventi avversi di natura casuale, né della povertà dell’ambiente sociale di appartenenza, ma di strutture di disuguaglianza che “vengono prima” delle scelte individuali (mancanza delle pari opportunità di partenza) e, ancor più, di asimmetrie di potere nel mercato e nella società.


 


La grande risposta del XX secolo: lo stato sociale e la sua crisi


Attraverso un processo assai complesso che inizia prima della fine dell’800, il XX secolo – quanto meno nei paesi industriali – mette a punto una poderosa risposta agli interrogativi economici e sociali sulla povertà. E’ quella dello stato sociale: la povertà è uno dei “cinque giganti”, per dirla con Beveridge, che lo stato sociale intende sconfiggere, insieme all’ignoranza, la malattia,la miseria (come abbrutimento) e l’ozio. Non solo: l’obiettivo si allarga. Non basta sconfiggere la povertà occorre anche produrre una più estesa diffusione della ricchezza, rendendo meno evidenti le disuguaglianze di reddito che il funzionamento del sistema economico tende a produrre. Salvare dalla povertà, rimuovendo le sue cause sociali, e ridistribuire la ricchezza sono i grandi obiettivi dello stato sociale nel XX secolo. Certo, questi obiettivi sono perseguiti attraverso modelli istituzionali anche assai diversi, per presupposti e modalità di funzionamento. Un conto sono i modelli statalisti dell’Europa continentale, un altro conto i modelli societari delle realtà anglosassoni, anche se  gli obiettivi restano gli stessi.


Come sempre nella storia, la vischiosità della realtà sociale, il carattere non completamente intenzionale delle istituzioni sociali, il gioco degli interessi contrapposti, i vincoli che progressivamente si creano mettono in crisi costruzioni che sembravano aver risolto grandi questioni sociali. Nel caso dello stato sociale due sono le dimensioni da ricordare a proposito del processo che lo ha condotto ad una vera e propria crisi, cioè a non funzionare più o, peggio, a funzionare in modo perverso, alimentando i problemi anziché risolverli. Una dimensione ha carattere locale, e resta all’interno della forma dello stato nazione. La seconda ha carattere globale, e investe la società internazionale, la società globale.


Sul piano nazionale la crisi nasce perché la realtà sociale scavalca le rigidità burocratiche dello stato sociale. La dinamica sociale ed economica non “sopporta” più i vincoli istituzionali dello stato sociale. Per un verso, comincia a risolvere da sola e in altro modo le questioni della povertà, soprattutto in quei contesti nei quali lo stato sociale ha troppo spesso finito con l’incapsulare ogni meccanismo sociale spontaneo di risposta. Per l’altro, pone questioni che lo stato sociale non sa risolvere. Cambia il modo di organizzare il lavoro e la vita familiare, ma lo stato sociale è pensato per un tipo di lavoro uniforme e standardizzato e per una famiglia costruita sul capofamiglia maschio che fa lo stesso lavoro dai 25 ai 65 anni. Non solo. Il potere politico si accorge di poter usare lo stato sociale non solo per ridurre la povertà e ridistribuire la ricchezza, in un rapporto però equilibrato fra risorse disponibili e spese, ma anche per distribuire risorse a fini di consenso, accollando le spese alle generazioni successive. Lo stato sociale finisce così, in larga parte, per diventare uno strumento a protezione di alcuni interessi, indipendentemente dal loro collegamento con le questioni della povertà e della diffusione della ricchezza. Lo stato sociale diventa il problema, e non più la soluzione.


A questo esito difficile concorre la seconda dimensione, quella globale. Lo stato sociale è un modello che funziona in realtà economiche relativamente chiuse, con scambi commerciali limitati, con movimenti di persone, di beni, di risorse circoscritti. I processi di globalizzazione lo mettono definitivamente in ginocchio: fino al punto che, spesso, affrontare la povertà su scala globale significa operare perché lo stato sociale pesi di meno nell’economia a vantaggio dello sviluppo dell’impresa e della crescita economica. L’esperienza dell’UE ne è una dimostrazione eloquente. Se guardiamo questa realtà dal punto di vista italiano, possiamo notare come la diagnosi e la gran parte delle terapie mettano insieme anche i diversi schieramenti politici del paese, quelli sinceramente interessati ad affrontare il tema del contrasto alla povertà e di una maggiore diffusione della ricchezza con realismo e responsabilità. Pensiamo,  in questo senso, alle analisi sullo stato sociale in Italia del rapporto Onofri del 1997, a quelle del libro bianco “Biagi” del 2003 e a quelle del recente libro verde “Sacconi”.


Riforma dello stato sociale


Riformare lo stato sociale è la prima questione di un’agenda contro la povertà. E’ necessario mettere a punto una sua ricalibratura; quindi, né smantellarlo né difenderlo così come lo conosciamo. Anche la recente dottrina sociale della Chiesa offre degli spunti in tal senso. La ricalibratura si fonda su due pilastri: da un lato l’incomprimibile eccedenza della carità rispetto alla giustizia e dall’altro quello che potremmo definire il necessario riequilibro tra le diverse sfere sociali. Il primo pilastro sgretola la convinzione per cui, per una sorta di evoluzionismo sociale deterministico, lo stato sociale rappresenta il superamento di un modello sociale fondato sulla carità. Un superamento che esprime una razionalità sociale più perfetta, in un certo senso, più giusta. In realtà “l’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento sociale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore” (Deus Caritas Est, n.28).  Il secondo mette in dubbio quella coincidenza tra politica e stato che costituisce un mattone essenziale dell’edificio dello stato sociale nella sua versione europea continentale. “Disfunzioni e difetti nello stato assistenziale – scrive Giovanni Paolo II –  derivano da una inadeguata comprensione dei compiti propri dello stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà” (Centesimus Annus, n.48).


Le risposte alla crisi


Gli anni Novanta del secolo scorso hanno visto il rapido sviluppo di un insieme di risposte alla crisi dello stato sociale, in parte frutto di un processo di maturazione avviato nel decennio precedente. Tra i punti fermi di queste risposte sono da considerare l’ abbandono della standardizzazione delle politiche; l’abbandono del dominio della politica in forma di stato; l’abbandono del pregiudizio verso la spontaneità della risposta sociale e, soprattutto, verso le capacità di integrazione del mercato; riportare, inoltre, in primo piano la responsabilità individuale della singola persona, riespandendo lo spazio dei doveri sociali; mettere le persone in condizione di stare attivamente sul mercato piuttosto che difenderle dal mercato; investire sull’istruzione come risorsa economica per l’integrazione sociale; sviluppare, regolandola, l’innovazione nei mercati finanziari. In sostanza, si tratta di consentire ad un numero crescente di persone di avere pieno accesso al sistema economico, in condizioni di relativa eguaglianza delle opportunità e di responsabilità individuale. Anche in questo caso ritroviamo uno delle intuizioni della recente dottrina sociale della Chiesa: “Sembra che tanto a livello di singole nazioni quanto a livello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni”. Tuttavia è necessario garantire che “tutti siano aiutati ad acquisire le conoscenze, a entrare nel circolo delle interconnessioni, a sviluppare le loro attitudini per valorizzare al meglio capacità e risorse” (Centesimus Annus, n.34).


Sviluppare un’economia di mercato inclusiva, piuttosto che inceppare l’economia di mercato per obiettivi sociali che, troppo spesso, diventano obiettivi particolari, è la chiave di volta dell’intera strategia di risposta. Un’economia di mercato inclusiva significa apertura, sul piano delle economie nazionale e sul piano della società internazionale; significa irruzione di nuovi soggetti nel mercato globale; significa maggiore sviluppo globale e maggiori opportunità per ridurre i livelli di povertà. E’ principalmente lo stato europeo continentale ad essere messo in discussione dalle grandi linee di trasformazione dello stato sociale alla fine del secolo scorso: sul piano interno, nazionale, e su quello globale.


I dilemmi del XXI secolo


Possiamo ora – ma solo a mò di conclusione e quindi in maniera non esaustiva – confrontarci anche con il dibattito di questi giorni. Non sempre le risposte degli anni Novanta alla crisi dello stato sociale hanno funzionato. Più apertura e più fiducia nella società globale hanno sicuramente ridotto l’area della povertà, hanno aumentato la crescita e spinto lo sviluppo, ma non hanno sempre migliorato, complessivamente, la diffusione della ricchezza E, come vediamo drammaticamente in questi mesi, l’innovazione nei mercati finanziari non è stata accompagnata da una sua oculata vigilanza. Occorre fare di più e meglio contro la povertà, ad ogni livello. Si profilano però risposte sbagliate a questi parziali insuccessi: risposte che ripercorrono le vie della chiusura, della protezione, delle barriere. Sono vie economicamente improduttive oltre che fonti di conflitti e di tensioni. Non risolvono i problemi che pensano di avere di fronte (la società globale genera insicurezza, dicono: dobbiamo affrontare la paura rimettendo a posto i confini delle identità, delle economie, etc.) e generano, viceversa, nuovi conflitti.


La paura che genera la chiusura non produce minore povertà e maggiore ricchezza per tutti: perpetua, viceversa, le condizioni di vantaggio di chi, spesso senza meriti, già dispone delle risorse. L’apertura resta la risposta giusta. L’apertura, infatti, genera competizione, innovazione, continua ricerca delle soluzioni ai nuovi problemi. Va sottolineato che una sana e regolata  competizione ha un grande valore unitivo, coesivo, di promozione della socialità perché  la competizione costringe a misurarsi gli uni con gli altri per risolvere i problemi di tutti. In tale orizzonte la competizione è espressione di solidarietà. Per questo la sfida resta quella di rendere il più inclusivo possibile il sistema economico di produzione e distribuzione delle risorse. E rendere più inclusivo significa continuare ad abbattere barriere, a connettere anziché separare, a liberare anziché proteggere, a vigilare con equilibrio anziché intralciare e difendere.


La società globale è fatta di stati, una delle forme di organizzazione della politica, ma non solo. Essa è costituita da una pluralità di realtà, politiche, economiche, culturali, religiose. E la povertà deve essere un comune avversario. Solo dal riconoscimento e dalla promozione di questa pluralità può crescere la speranza di vincerla in vista di per un mondo più largo, più giusto, più vivibile. Il successo nello sforzo globale di contrasto alla povertà è un segno essenziale per riconoscere la fecondità e la crescente pienezza del cammino che facciamo come intera famiglia umana. Ed è un segno di quella opzione preferenziale per i poveri che è principio fondamentale della dottrina sociale della Chiesa (Sollicitudo Rei Socialis, n.42).


 


 



[1] AA. VV., Église et pauvreté, Paris 1965.

[2] J. Meivielle, “Il progressismo cristiano. Errori e deviazioni”, s.d., n.l., pp. 26-27.

[3] Paolo VI, Encicliche e discorsi, I, Roma 1963, pp. 216-218.

[4] Enchiridion Vaticanum. Documenti: Il Concilio Vaticano II, Bologna 1968, pp. 913-991.

[5] Ivi, pp. 628-629.