Insisto per San Francesco nello Statuto

Articolo per "Il Messaggero"

E’ sempre particolare l’aria natalizia. Tutti ci impegniamo per fare festa. Anche la corsa ai regali ne fa parte. Ed è bene che sia così. E tuttavia un punto nodale è da richiamare, se non vogliamo che se ne perda il senso. Il Natale non è la «nostra» festa. È la festa di Gesù che nasce in mezzo a noi; una nascita così straordinaria da convincere gli uomini a dividere la storia in due: prima e dopo questa nascita. Nonostante tale rilevanza corriamo il rischio di perdere di vista il festeggiato. Per questo ricordarlo è opportuno. E vorrei dire subito che fa onore all’Umbria il fatto che uno dei suoi figli abbia riproposto con una incredibile plasticità la verità del Natale.
Mi riferisco a Francesco di Assisi. Permettetemi però un inciso, visto che qualcuno in un quotidiano, proprio ieri, chiedeva il perché della mia (e non solo mia) insistenza per inserire il nome di san Francesco (e san Benedetto) nello statuto della regione. A parte la questione del marketing: è capitato a me, ma credo ad ogni umbro, scoprire che nel mondo è san Francesco a far conoscere l’Umbria e non viceversa. Ed è anche ovvio che scrivere per scrivere non basta. Già l’apostolo Paolo diceva che non è la lettera che conta ma lo spirito (anche se lo spirito senza lettera è difficile vederlo). E ugualmente sentiamo spesso lamentare che le leggi ci sono ma “chi pon mano ad esse”? In ogni caso “scripta manent” e aiutano a ricordare e, speriamo, anche a vivere.

Ma torniamo alla settimana prima del 25 dicembre del lontano 1223, a Greccio, quando Francesco volle appunto “vedere” con gli occhi il mistero del Natale. Chiamò il suo amico Giovanni Vellita e gli disse: «Giovanni, vorrei in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato il bambino per la mancanza di cose necessario a un neonato, come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”.
Francesco voleva “vedere” il Natale. I cristiani, in verità, sin dai primi secoli avevano rappresentato quella nascita; ma era quasi scorporata dall’ambiente in cui era avvenuta, dalla gente che l’aveva vista. Nelle grandi basiliche di Gerusalemme, di Roma, di Costantinopoli, i mosaici e gli affreschi rappresentavano Maria vestita da regina e il bambino in fasce, ma orlate d’oro. Quel bambino era il dominatore dei regni di questo mondo, ed era giusto. Anzi ne abbiamo bisogno anche oggi, abituati come siamo a vedere, ad accettare e anche a subire altri signori, altri dettati, sulla nostra vita. Quel bambino è venuto a liberarci da tutti i “signori”, compreso il nostro egocentrismo!
Ecco perché c’è bisogno del Natale. Ma come viverlo? Il Celano ricorda il desiderio di Francesco di “osservare perfettamente e sempre il santo vangelo e di imitare fedelmente gli esempi del Signore”. E, in questa nostra terra di contadini e di pastori, voleva toccare con mano la scena evangelica; voleva vedere com’era andata davvero, quello che videro i primi pastori. Francesco era ormai quasi cieco; un’infezione contratta in Egitto gli stava spegnendo la vista. E forse anche questo lo spingeva a «vedere» quel Natale. Quella notte bramava di vivere la gioia di quei pastori che giunsero in fretta «a Betlemme e lì trovarono Maria, Giuseppe e il bambino che dormiva nella mangiatoia». In quella notte Greccio divenne come una nuova Betlemme. Francesco ci offre ancora oggi l’indicazione di come si vive il Natale: recarsi a «vedere» quel bambino significa cogliere la salvezza. Chi vede quel bambino infatti non incontra la forza del proprio orgoglio, non confida nelle proprie ricchezze, non si affida ai potenti di questo mondo; incontra solo un bambino povero, debole e indifeso. Per lui «non c’era posto nell’albergo», come tante volte non c’è posto tra gli uomini per quelli che sono deboli e indifesi.
Sono anzitutto i bambini soli che continuano a morire di fame a migliaia al giorno, sono quelli mandati a fare la guerra, e poi i malati, i profughi, gli stranieri lontani dalla loro terra, gli abbandonati, gli oppressi, i condannati a morte, le vittime delle guerre e della violenza. Come quei pastori, come Francesco, dobbiamo recarci a «vedere» questi numerosi presepi attuali e tragici, e accoglierli nel nostro cuore, nella nostra vita, nelle nostre preoccupazioni. È bello continuare ad allestire il presepe: ci ricorda che non dobbiamo chiudere le nostre porte ai piccoli e ai deboli. E soprattutto ci mostra la strategia di Dio: vincere il male con il bene, sradicare la cattiveria con l’amore. È anche il messaggio del Papa per il primo gennaio del 2005 in occasione della giornata della pace.