Il mercato deve servire l’uomo non sottometterlo, invece pensa solo al profitto

I sostenitori del libero mercato notano da sempre l’indissolubile binomio tra libertà economica e libertà politica. E così – dicono – il “capitalismo” lasciato crescere sarà sempre di più uno strumento di emancipazione e di protezione anche per chi oggi viene “scartato” (poveri, giovani, anziani…) dalla società dei consumi. Se diamo libertà politica ed economica, il circuito del benessere arriverà fino a loro.

In questo senso – nota qualche critico dell’Enciclica Fratelli Tutti e dei diversi pronunciamenti papali sui temi dell’ecologia “sociale” – il “populismo” sostenuto dal Papa (parole chiave: solidarietà, accoglienza) non garantisce frutti di benessere più diffuso come effetto di una politica di accoglienza e di inclusione che si limiti a contrastare le dinamiche del mercato e le logiche del profitto. Il mercato e il profitto, incentivati dalla libera competizione, possono creare le condizioni e le risorse necessarie a sostenere lo sviluppo di un benessere più diffuso. Il populismo papale sarebbe dunque un miraggio: una promessa senza coperture, un’utopia senza risorse, un socialismo senza mezzi per realizzarsi.

Conviene dunque puntualizzare ciò che Papa Francesco intende come populismo in senso positivo. Non è la demagogia di una società etica che impone – contraddittoriamente – la limitazione dello sviluppo tecnico ed economico della ricchezza quale condizione di una migliore qualità umanistica e sociale del benessere; oppure una visione romantica nella quale le “masse popolari” sono i protagonisti autentici della storia e la “gente comune” il soggetto messianico di un umanesimo civile dei buoni sentimenti.

La visione del “popolo” che Papa Francesco prospetta ha certamente una valenza sia storica che teologica: ma la sua declinazione non ha nulla a che spartire con i messianismi secolari e con l’idealismo pauperistico. L’orientamento concreto e propositivo di questa visione, che si riferisce alla vita del popolo come termine di paragone per il discernimento della dignità morale della condizione umana comune, si può leggere, ad esempio, nel discorso pronunciato a Santa Cruz de la Sierra (Bolivia) il 9 luglio 2015.

In quell’occasione disse tra l’altro: «Voi vivete ogni giorno, impregnati, nell’intrico della tempesta umana. Mi avete parlato delle vostre cause, mi avete reso partecipe delle vostre lotte, già da Buenos Aires, e vi ringrazio. Voi, cari fratelli, lavorate molte volte nella dimensione piccola, vicina, nella realtà ingiusta che vi è imposta, eppure non vi rassegnate, opponendo una resistenza attiva al sistema idolatrico che esclude, degrada e uccide. Vi ho visto lavorare instancabilmente per la terra e l’agricoltura contadina, per i vostri territori e comunità, per la dignità dell’economia popolare, per l’integrazione urbana delle vostre borgate e dei vostri insediamenti, per l’autocostruzione di abitazioni e lo sviluppo di infrastrutture di quartiere, e in tante attività comunitarie che tendono alla riaffermazione di qualcosa di così fondamentale e innegabilmente necessario come il diritto alle “tre t”: terra, casa e lavoro».

La Chiesa – aggiunge poco dopo il Papa – «non può e non deve essere aliena da questo processo nell’annunciare il Vangelo. Molti sacerdoti e operatori pastorali svolgono un compito enorme accompagnando e promuovendo gli esclusi di tutto il mondo, al fianco di cooperative, sostenendo l’imprenditorialità, costruendo alloggi, lavorando con abnegazione nel campo della salute, dello sport e dell’educazione. Sono convinto che la collaborazione rispettosa con i movimenti popolari può potenziare questi sforzi e rafforzare i processi di cambiamento». E conclude indicando tre «compiti».

Il primo: «Mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro. Diciamo ‘no’ a una economia di esclusione e iniquità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge la Madre Terra» – e cita Giovanni XXIII e Paolo VI.

Il secondo: «Unire i nostri popoli nel cammino della pace e della giustizia. I popoli del mondo vogliono essere artefici del proprio destino. Vogliono percorrere in pace la propria marcia verso la giustizia. Non vogliono tutele o ingerenze in cui il più forte sottomette il più debole. Chiedono che la loro cultura, la loro lingua, i loro processi sociali e le loro tradizioni religiose siano rispettati» – e cita la Dottrina Sociale della Chiesa e Giovanni Paolo II.

Il terzo: «Forse il più importante che dobbiamo assumere oggi, è quello di difendere la Madre Terra. La casa comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave. (…) Non si può consentire che certi interessi – che sono globali, ma non universali – si impongano, sottomettano gli Stati e le organizzazioni internazionali e continuino a distruggere il creato» – e si riferisce alla sua Enciclica Laudato Si’.

Il “populismo” di Papa Francesco non è il “populismo” politico-partitico che vediamo all’opera in maniera demagogica nei dibattiti politici, che seleziona il popolo degno di considerazione e di tutela in base a criteri razzistici, nazionalistici, di classe o di appartenenza. Si tratta invece di una categoria “inclusiva” di ogni essere umano che si attende dalla comunità in cui viene al mondo o chiede di vivere gli stessi diritti e gli stessi doveri che lo rendono degno di esserne partecipe: perché è un essere umano in cerca di accoglienza umana e di habitat umano: e non semplicemente il sostenitore di una politica di classe o un’occasione di profitto economico.

Di questa impostazione inclusiva dell’appartenenza umana in quanto umana, la fede è certamente appassionata custode e stimolo: non ci si può neppure immaginare che l’orizzonte di valori e di senso che la fede apre ed ispira possa essere separato dall’identità cristiana. Oppure, peggio ancora, che la fede cristiana possa farsi complice della sua rimozione. La convinzione che evangelizzazione e promozione umana sono strettamente collegati appartiene irreversibilmente (Paolo VI) alla coscienza di una Chiesa che ha intuito ancora più profondamente l’attualità della dimensione sociale e comunitaria dell’amore del prossimo illustrato dalla parabola del Samaritano. C’è anzi di più.

Lo sguardo del Papa non si riduce a quella parte ristretta di mondo che chiamiamo Occidente. La sua visione è globale: lo spirito della fratellanza umana è diventato una soglia trasversale del progresso civile e un indice discriminante della qualità religiosa universale. Quanto poi al teorema di un mercato intrinsecamente capace di auto-regolamentazione, come sosteneva la Scuola di Chicago di Milton Friedman, sarebbe intellettualmente onesto tener conto, almeno, delle criticità che ormai si sono imposte anche allo sguardo dei teorici dell’economia e della politica.

L’impetuosa crescita del capitalismo “finanziario” e “cognitivo” è vistosamente accompagnata da evidenze che attestano dinamiche di accumulazione del profitto separate dall’umanesimo del lavoro e di poteri di condizionamento autonomi rispetto alla democrazia civile. Speculazioni finanziarie e algoritmi incontrollabili abitano una sfera largamente impermeabile al controllo sociale alla stessa governance politica. Gli algoritmi non sono “schiavi” di cui servirci ma diventano  “padroni” dei fini che ci riguardano.

La rivoluzione del digitale ha sempre più un impatto decisivo sulle vite, sull’organizzazione delle cure e sull’accesso ai servizi, aumentando le distanze tra stati e popolazioni e tra economie. Pensiamo ad una start up che fornisce dispositivi connessi al paziente: braccialetti, bilance, strumenti per monitorare le attività fisiche. I dati raccolti vengono studiati a distanza da un algoritmo che in caso di anomalie può programmare una visita e studia le conversazioni tra medico e paziente per delinearne meglio il profilo. Una tale start up esiste già. Ed anche altri colossi dell’ hi-tech hanno unità specializzata in biotecnologie per determinare i biomarcatori in grado di indicare i segni premonitori delle patologie.

Cosa accade con i dati? Qui è la ricchezza immateriale del futuro: la raccolta di dati in base ai quali si forniscono offerte e servizi. Oppure, al contrario, grazie ai dati e alla loro raccolta si espanderà il capitalismo della sorveglianza, con prodotti nuovi per il monitoraggio ed il controllo dei comportamenti, dal consumo alla sicurezza, in base ad una delega totale agli algoritmi. E chi disegna gli algoritmi? Chi è responsabile della loro efficacia, del loro utilizzo, delle distorsioni che possono verificarsi?

In Occidente vediamo già all’opera tali potenzialità delle tecnologie. E cosa accade nelle steppe della Siberia? E nelle favelas dell’America Latina? E negli slums dei grandi agglomerati urbani: Città del Messico, Nairobi, New Delhi, Calcutta, in Cina? E se le persone non sono più libere ma agiscono a comando? Accade nei magazzini “drive in” in cui personale equipaggiato con cuffie riceve istruzioni da sistemi che indicano continuamente quale articolo andare a prendere ed in quale scaffale trovarlo ed in quale carrello depositarlo. La tecnologia “giusta” – è la filosofia di fondo – va sfruttata per consentire alle persone “giuste” di fare le attività “giuste” come parte di una “Liquid Workforce adattabile, pronta al cambiamento e reattiva” (citazione da Technology Vision 2016 Trends, rapporto annuale di Accenture).

Dunque il Leviatano Algoritmico va messo in questione. Il mercato non si autoregola verso il meglio. Il mercato si autoregola per massimizzare i profitti. Papa Francesco e la Chiesa lo sanno bene. La Dottrina Sociale, dal 1891, dalla Rerum Novarum di Leone XIII, sta dicendo che deve esserci uno sviluppo rispettoso del “capitale umano”, capace di far crescere tutte le componenti della società. Oggi la sfida si declina nella tutela dell’ambiente (la casa comune, senza la quale la vita è impossibile) e in un sostegno della “fraternità tra tutti i popoli”. La pandemia ci ricorda che i virus non hanno frontiere e allo stesso modo lo sviluppo deve coniugare equità e giustizia. Non c’è altra strada e l’Enciclica “Fratelli Tutti” ci invita a percorrerla.

(Il Riformista)