Il fondamento evangelico della cultura della vita

Il 23 e il 24 settembre scorso, una delegazione della Pontificia Accademia per la Vita ha partecipato alla 74^ Assemblea Generale della Catholic Health Association of India, tenutasi a Kochi, in Kerala.

Il Presidente, S. Ecc. Mons Vincenzo Paglia, ha aperto i lavori dell’Assemblea, cui partecipavano più di 800 entusiasti delegati provenienti da strutture sanitarie cattoliche di tutta l’India, e tenuto la prima relazione intitolata “La buona notizia di Gesù: fondamento di una cultura della vita”

Eccellenza,

Signor Presidente,

Carissimi delegati,

La condizione umana attuale, in una forma globalizzata mai vista sinora, vive una stagione peculiare e di cambiamento veloce. Ne apprezziamo tutti i grandi benefici (sono davvero tanti gli indicatori che mostrano un innalzamento della qualità della vita umana per un numero sempre maggiore di individui) e insieme i limiti, talvolta violenti e tragici. L’ambito della cura del malato è certo uno di quei luoghi ove lo sviluppo della capacità tecnica sta mostrando le sue sorprendenti possibilità e, al contempo, i suoi nefasti limiti culturali e sociali. Lo sbilanciamento tra paesi ricchi e poveri o tra diverse fasce di popolazione all’interno di un’unica società evidenziano l’impossibilità della tecnica stessa e delle sue procedure a risolvere la questione dell’esistenza umana.

Presi da una frenesia (fortunatamente sempre più entusiasmante) di risultati, corriamo il rischio serio di dimenticarci dell’uomo o di considerarlo soltanto per la sua patologia, per la sfida che pone alla nostra arte medica.

Non solo: il doveroso riconoscimento (frutto anche del pensiero cristiano) della intangibile dignità di ogni singola persona umana sta, sempre più fortemente, mostrando il suo limite quando si lascia prevalere un individualismo narcisista. Il falso mito dell’autosufficienza che porta a slegare ogni legame, spinge a preferire una vuota solitudine alla pienezza dei legami famigliari e sociali. Anche qui, in India, seppur con forme diverse da quanto accade in occidente, si segnalano preoccupanti segnali di dissoluzione del legame sociale e delle tensioni relazionali entro cui sono comprensibile anche quelle di cura e di accompagnamento.

La cultura dell’accompagnamento è, in verità, il paradigma dell’intera convivenza umana. Il dono di accompagnarsi a vicenda, legandosi l’un l’altro, il malato e il sano, il medico e il paziente, delinea il paradigma stesso della esistenza umana. E’ il modo umano di vivere e di morire. È in questo orizzonte che va compreso il tema della relazione medico-paziente. Dobbiamo mostrare – a parole e nei fatti – Personalmente che la vita umana va accompagnata sin dal suo sorgere nel senso materno e per tutto l’arco degli anni nella quale si sviluppa. Ogni età ha bisogno di essere accompagnata. Nessuna è slegata dalle altre. La difesa e la promozione della vita riguarda l’intera esistenza, dalla lotta all’aborto e alle innumerevoli violenze sui piccoli e sugli adolescenti, alla lotta perché i giovani abbiano un futuro e le donne una dignità piena, alla opposizione netta alla guerra, alla fame, alla pena di morte, all’eutanasia. E’ l’impegno perché una nuova visone umanistica si affermi nel contesto della globalizzazione contemporanea che rischia invece di soggiacere alla dittaura della tecnica e del mercato.

Gesù, medico: cura e guarisce

Parlando a medici e operatori sanitari cristiani ho pensato, in quanto vescovo e Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, di offrire una riflessione che cogliesse in profondità il senso stesso della missione della Chiesa e, in questo caso, anche dei medici e di chiunque opera nella sanità. Senza questa energia spirituale è più difficile comprendere e vivere quella che non esito a chiamare l’alta vocazione della cura dei malati e della loro guarigione. Tale prospettiva è iscritta in maniera evidente nelle pagine evangeliche.

Il rapporto tra Gesù e i malati riguarda una dimensione centrale del messaggio evangelico. La guarigione dei malati – per Gesù – è il segno concreto e tangibile che mostra l’azione stessa di Dio nella storia umana, come una storia di guarigione e di cura, fino al suo pieno compimento nella pienezza del Regno. Il cristianesimo non è quindi una ideologia, non è una dottrina, non è una morale: è l’ingresso di Dio nella storia che si fa compagno degli uomini per aiutarli a vivere meglio e a sconfiggere il male e la morte.

Già nell’Antico Testamento, in verità, si riportano numerose invocazioni di guarigione rivolte a Dio. Pert tutte cito solo la vicenda di Ezechia, re di Giuda. Quando cadde malato egli si rivolse al Signore dicendo: “Guariscimi e rendimi la vita” (Is 38,16). In questa duplice richiesta troviamo sia l’attesa della guarigione ma anche di una vita restituita. Potremmo tradurre: “Fammi durare, fammi vivere, fammi star bene per sempre”.

Guarire le malattie è una costante della missione di Gesù. Gli evangelisti riassumono la sua opera attorno a due poli: “Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità.”(Mt 4,23). L’evangelista continua: “La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a Lui tutti i malati tormentati da varie malattie, indemoniati, epilettici, paralitici, ed Egli li guariva.”(4, 24-25). Ed è bella la scena descritta da Luca: “Al calar del sole, quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva” (Lc 4,40).

L’azione taumaturgica di Gesù si differenziava da quella dei normali guaritori dell’epoca. Si inseriva, infatti, nella tradizione biblica ove si narra l’intervento di Dio nella storia umana come un Dio che guarisce il suo popolo e lo salva dandogli una vita piena e pacifica. Nell’Antico Testamento una sola volta si parla di Dio come “medico”: “Io sono il Signore, colui che ti guarisce”(Es 15, 26). Ma le pagine dell’Antico Testamento sono piene di invocazioni di guarigione. Se si raccogliessero le preghiere, le invocazioni e anche le proteste, che il salmista malato rivolge a Dio, ne risulterebbe un vero e proprio “salterio dei malati”. Il Signore viene sempre a visitare il suo popolo e a guarirlo dalle malattie. In questo orizzonte di liberazione dalle malattie si iscrive l’attesa del tempo messianico, il tempo della sconfitta delle malattie e della guarigione piena.

Gesù non tiene per sé questo potere. Lo trasferisce anche ai suoi discepoli. Scrive l’evangelista: “Egli diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità”. E poco più avanti aggiunge: “predicate che il Regno di Dio è vicino, guarite gli infermi, resuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni”. La missione dei discepoli deve modellarsi su quella stessa di Gesù: annunciare il Vangelo e guarire dalle malattie. La guarigione pertanto non è un’azione aggiuntiva all’annuncio. La guarigione dei malati è il segno concreto e visibile che il Regno di Dio è iniziato. Ecco perché Gesù insiste: “Guarite, resuscitate, sanate, cacciate gli spiriti immondi!” Era necessario che i discepoli continuassero la sua stessa opera; anzi, che la ingrandissero: “In verità, in verità vi dico, anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi”(Gv. Queste parole esprimono chiaramente il potere dato ai discepoli.

La comunità cristiana e la guarigione

Le comunità cristiane, fin dall’antichità, non hanno esitato a chiamare Gesù “medico dei cristiani” e la Chiesa “vera e propria clinica”. E’ nota l’espressione di Ireneo: “Il Signore è venuto come medico di coloro che sono malati”. E Origene insegnava: “Sappi vedere (nei Vangeli) che Gesù guarisce ogni debolezza e malattia, non solo in quel tempo in cui queste guarigioni avvenivano secondo la carne, ma ancora oggi guarisce; sappi vedere che non è disceso solo tra gli uomini di allora, ma che ancora oggi discende ed è presente. Ecco, infatti, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo”. Potremmo continuare a lungo in citazioni di questo genere, da quella della Liturgia di San Marco: “Signore…Medico delle anime e dei corpi, visitaci e guariscici”, a un’antica iscrizione cristiana: “Ti prego, Signore, vieni in mio aiuto, tu solo medico”.

Per la comunità cristiana la cura della malattia è stata costante e sempre accompagnata dall’utopia della guarigione piena. Ecco perché è stata constante la presenza della preghiera come parte della cura del malato. Questo non significava sottovalutazione dell’azione del medico. Tutt’altro. Il Siracide chiede che il medico venga onorato: “Onora il medico, come si deve secondo il bisogno, anche egli é creato dal Signore. Da Dio viene la guarigione, la scien­za del medico lo fa procedere a testa alta. Il Signore ha creato i medicamenti della terra, e l’uomo assennato non li disprezza. Dio ha dato agli uomini la scienza, perché potessero gloriarsi. Con essa il medico cura ed elimina il dolore, e il farmacista prepara le miscele, non verranno meno le sue opere, da lui proviene il benessere sulla terra. Figlio, non avvilirti nella malattia, ma prega il Signore ed Egli ti guarirà. Offri incenso, e un memoriale di fior di farina e sacrifici pingui, secondo le tue responsabilità. Poi fai passare il medico, perché il Signore ha creato anche lui, che non stia lontano da te. Ci sono casi in cui il successo è nelle loro mani, anch’essi pregano il Signore perché li guidi felicemente ad al­leviare la malattia e a risanarla, perché il malato ritorni alla vita”(Sir 38, 1-14).

Il rapporto tra Chiesa e malattia, tra Comunità cristiana e guarigione, tra medico e malato è parte della missione stessa indicata da Gesù. Si potrebbe dire che Chiesa e Medicina hanno lo stesso scopo: guarire i malati. I due termini, curare e guarire, possono essere interscambiabili, anche se vi è una sfumatura di diversità. La guarigione, infatti, eccede la cura e tende verso la pienezza della vita nel Regno di Dio. Gesù che guarisce vuol dire che ridona ai malati la salute nella prospettiva, appunto, della pienezza. Per la comunità cristiana la cura della malattia non è mai stata senza questa utopia che ha però una dimensione anche comunitaria: tutto il popolo viene salvato. La preghiera – che esprime quell’oltre di Dio – ha sempre accompagnato la cura del malato, senza che questo significasse disprezzo dell’azione medica.

Dio è venuto a salvare l’uomo nella sua totalità. La malattia non è perciò un semplice fatto biologico: essa diviene metafora della vita, ne manifesta la radicale la debolezza e il bisogno di salvezza da parte di Dio. L’uomo è “polvere” (come dice la Genesi), o è un “vaso di creta” (come scrive Paolo). Ma Dio si prende cura di questa polvere: non solo le soffia la vita, ma la cura, la difende e la guarisce quand’essa viene colpita. Il malato, con la sua condizione, ci ricorda di cosa siamo fatti e ci suggerisce l’indispensabilità dell’affidarsi agli altri. E’ una lezione davvero importante in questo tempo nel quale la cultura è tesa al culto della salute a qualsiasi costo, alla illusione della onnipotenza sino a potersi dare l’immortalità. Il cardinale Martini ha scritto: “La malattia è parte della vita… Non è un incidente, ma la rivelazione della condizione normale di limite insita in ogni condizione umana, è qualcosa che mi definisce nel mio essere fragile, debole, incerto, mancante. Rivela chiaramente ciò che è nascosto in me anche quando sto bene. E la temo, la malattia, perché non voglio che emerga la verità della mia limitatezza, della mia povertà”.

In tal senso credo sia importante oggi ridare senso alla fragilità. Considerata dannosa, la fragilità va invece riscoperta nella sua profondità. La fragilità – è certo una “ferita” – ma essa chiede ascolto, gentilezza, amore, compagnia. L’autonomia e l’autosufficienza, sono il suo opposto, come pure l’impossibile salute piena. Una società di forti e di autosufficienti è crudele, disumana. Le persone consapevoli della loro fragilità invece sentono il bisogno degli altri, sanno invocare aiuto, sanno pregare, sanno suscitare una forza di solidarietà e ritessere le lacerazioni. Coloro che, illudendosi, si credono forti, sono in realtà arroganti, litigiosi, dittatori sugli altri. L’apostolo Paolo scrive: “quando sono debole è allora che sono forte”(2Cor 12,10). Nella debolezza dell’apostolo si manifestava a potenza di Dio. La fragilità di chi si ammala aiuta chi si crede sano a scoprire la sua fragilità. Per una società più umana è decisivo scoprire che la fragilità è una delle strutture portanti della vita: ci aiuta a scoprire il valore della gentilezza e della mitezza, dell’ascolto e dell’attenzione agli altri, ma anche il valore dell’essere in comunione con le sofferenze, con le attese e le speranze degli altri. Si crea una comunione straordinaria tra chi cura e chi è curato, tra chi assiste e chi è assistito.

La malattia si accompagna anche al dolore e alla sofferenza. Fa parte del mistero dell’esistenza umana. Possiamo e dobbiamo combattere sia la sofferenza che il dolore. Eliminarli, non credo possiamo riuscirci. Accompagnarli, dobbiamo farlo. E’ una delle chiavi che ripropone la centralità della cura. Dio stesso, che non ci protegge da ogni dolore, ci sostiene sempre in ogni dolore. La compagnia amorevole è la prima cura per il malato. La malattia non è un problema solo di medicina: è una domanda di aiuto, di amore, perché si intensifichi la vita attorno a chi la sente ferita e indebolita. E’ importante far emergere questa forza terapeutica del medico, della comunità cristiana, verso i malati, soprattutto in una società che, con i suoi squilibri sociali e i suoi processi di emarginazione, aggrava la già radicale debolezza di ogni persona.

 Il medico: una missione alta

In questo orizzonte credo si iscriva l’azione del medico cristiano e di chiunque si avvicina al malato. L’etica della cura non si riduce nella espletazione delle capacità tecniche e nell’osservanza delle regole deontologiche, ovviamente necessarie. Ma è indispensabile creare un rapporto profondo tra il medico e il malato, che è ben di più che quello tra un tecnico e una malattia. Voi lo sperimentate ogni giorno: i malati non hanno bisogno solo di cure mediche, di farmaci, di tecnologia, ma anche di amore, di relazione, di ascolto, di essere guardati negli occhi e sentire il conforto della compassione.

Il Vangelo chiede che i malati siano sentiti come la parte privilegiata dell’umanità su cui riversare le proprie capacità di ordine tecnico-scientifico assieme all’amore e alla passione per la loro guarigione. Questo atteggiamento non è scontato. Richiede una vera e propria conversione, ossia un atteggiamento del cuore che porta a dare il proprio amore, anzi la propria stessa vita per gli altri. A legarsi al malato in profondità. Troppo spesso medici, infermieri, sacerdoti, parenti, stanno in piedi accanto al malato, fieri della loro salute ma estranei alla sua debolezza. E’ una lontananza che il malato percepisce. E non dimentichiamo l’opera di misericordia nella quale Gesù stesso si presenta come il malato che andiamo a visitare.

Alla necessaria professionalità scientifica va aggiunta la forza terapeutica dell’amore. Purtroppo, questa dimensione sembra attutirsi anche nelle comunità cristiane. Eppure, la storia della Chiesa, è piena di santi taumaturghi. E qui mi permetto anche solo un cenno sulla necessità di recuperare una spiritualità della guarigione. Anche oggi sono possibili i miracoli. Senza scivolare sul piano della magia. Le guarigioni dei malati richiedono medici e credenti con un cuore puro. Cipriano di Cartagine afferma che la santità personale anche un’efficacia taumaturgica: “Quando saremo casti e puri, modesti nelle nostre azioni, frenati nelle nostre parole, potremo guarire anche i malati”. Ricordo anche i santi Cosma e Damiano, martiri del terzo secolo. Essi si trovano raffigurati a Roma, nella omonima Basilica, vestiti con le vesti bianche, come i medici, accanto a Cristo vestito di bianco. La tradizione dice che questi due medici andavano al capezzale dei malati e, prima di informarsi sulla loro salute, pregavano. Solo dopo si informavano sulla loro salute e decidevano la cura. I loro miracoli erano come un misto di fede e di cure. La guarigione è sempre un insieme di amore e di cure.

Perché, malgrado l’imperante mentalità razionalista, c’è un’enorme domanda di guarigione? Quanta gente va alla ricerca di pratiche magiche, occulte, miracolistiche, astrologiche! Quest’affannosa ricerca di protezione, di sicurezza e di guarigione non è altro che una grande domanda d’amore? Ecco perché dovrebbero aprirsi più facilmente le porte dei nostri cuori verso i malati. Se c’è l’amore anche se il corpo non guarisce, lo spirito ritorna più vigoroso.

Il primato dell’amore per l’uomo è la regola che tutti i credenti debbono avere nell’azione verso i malati. E i medici debbono essere i primi. I malati non sono dei pazienti, sono dei fratelli e delle sorelle da amare sino in fondo. E’ su questa convinzione che anche la medicina deve basare la sua azione di cura. Giovanni Paolo II aveva ragione nel dire che la scienza medica è “una forma sublime di servizio all’uomo”.

Grazie

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