«IL DIVORZIO PIÙ GRAVE È TRA CHIESA E SOCIETÀ»
di Alberto Bobbio
Tra la famiglia e la Chiesa il legame è indissolubile nel senso che il matrimonio e la famiglia sono un bene per la Chiesa e la Chiesa è un bene per loro. Eppure, oggi, nel contesto sociale matrimonio e famiglia appaiono decentrati e l’elaborazione di altri concetti di famiglia e matrimonio sono la priorità. Il Papa insiste anche su Twitter: «La testimonianza più efficace sul matrimonio è la vita esemplare degli sposi cristiani». Spiega monsignor Vincenzo Paglia, che guida il Pontificio consiglio per la famiglia: «Dobbiamo finalmente renderci conto che la crisi di matrimonio e famiglia è crisi di fede. Questo è ciò che Bergoglio invita ad approfondire».
E sul lato sociale?
«Direi che c’è anche e fortissima, una questione culturale. Oggi è venuta meno la convergenza, per molto tempo considerata tradizionale e strategica, tra modello cristiano e modello sociale di matrimonio e famiglia. Ciò ha provocato problemi nella Chiesa, fino a sfiorare il panico, e nella società. Dobbiamo essere onesti: il pensiero laico sulla famiglia negli ultimi decenni si è impoverito in maniera preoccupante e alla Chiesa, per altro verso, è mancato un adeguato approfondimento teologico su tali temi».
Così il Papa ha deciso di convocare ben due Sinodi?
«Bergoglio ha solo colto il pericolo di una mentalità che rifiuta le decisioni “per sempre” in favore di una tendenza al provvisorio legato ai sentimenti individuali. Papa Francesco – anche con le catechesi del mercoledì – vuole proporre una nuova e più larga riflessione sul matrimonio e sulla famiglia. E tocca uno dei nodi più urgenti e delicati che anche il Sinodo deve affrontare: ridare un nuovo entusiasmo e una nuova visione sul matrimonio e sulla famiglia perché diventino nuovamente attrattivi, a partire dal rapporto tra la fede e il sacramento del matrimonio».
Voi avete messo a confronto molti esperti sul tema della famiglia…
«C’è una evidente complessità del tema, cresciuta a causa delle trasformazioni sociali, ed è necessario un aggiornamento anche ecclesiale. Il Sinodo deve puntare sulla risposta alle questioni nuove tenendo conto da un lato della coerenza dottrinale e dall’altro della sollecitudine pastorale. I nostri seminari hanno approfondito questo rapporto, per aiutare il Sinodo a elaborare le decisioni opportune».
C’è chi contrappone fedeltà a misericordia. Qual è lo stile evangelico?
«La polarizzazione delle posizioni è spesso imposta dai mass media. Le semplificazioni qui sono pericolosissime. Lo stile evangelico è quello che esprime sollecitudine pastorale anche nei confronti delle congiunture più difficili, del disorientamento delle coppie, dei fallimenti del progetto familiare. Non si tratta di trovare espedienti per forzare la dottrina a vantaggio della pastorale, né del diritto per la misericordia o di abbassare l’asticella della verità per avere più libertà».
Quindi, cosa bisogna fare?
«Intanto mostrare con i fatti che la Chiesa sente la responsabilità per tutte le famiglie, anche per quelle che poi si sfasciano. La Chiesa è una madre che non abbandona nessuno. Il punto centrale – su cui papa Francesco insiste – è avere comunità che accolgono le famiglie sofferenti. Quante volte sento dirmi: “Noi abbiamo anzitutto bisogno di essere ascoltati e compresi!”. Un autorevole vescovo, mentre gli dicevo che dovremmo avere l’atteggiamento di Gesù che va in cerca della pecora smarrita, mi ha corretto: “Ma queste famiglie non sono pecore smarrite, lo sottolineava spesso Benedetto XVI, non sono scomunicate, sono nella Chiesa, quindi nel recinto”. È in questo nuovo orizzonte che vanno aiutate a guarire e a crescere nella fede, offrendo tutti i tesori che la Chiesa ha. È farisaico limitarsi a ripetere leggi e denunciare peccati. La Chiesa deve essere franca nell’ammonire, ma altrettanto pronta a trovare nuove strade per percorrerle assieme».
In che senso?
«Nel patrimonio di sapienza, dottrinale e disciplinare, ci sono già tesori preziosi che possono aiutare. È accaduto altre volte in passato. Un esempio: il vecchio Codice di diritto canonico definiva i divorziati risposati “pubblici peccatori” e “infames”; queste parole sono sparite nel nuovo Codice del 1983. E non è una questione terminologica o solo pastorale ma di una nuova comprensione della situazione».
Resta, però, il divieto all’Eucaristia (can. 915).
«È solo una parte del problema. Oggi molte persone che hanno rotto il matrimonio si sono allontanate dalla Chiesa pensando che non c’era più spazio per loro nella comunità. Questo dobbiamo sinceramente riconoscerlo. Ed è urgente mostrare con i fatti una nuova accoglienza. Il Vangelo non ha la forma di una legge che non perdona, né si ferma al giudizio sulle persone, chiede piuttosto di aiutare tutti a percorrere la via della conversione. La Chiesa ha il compito di offrire spazi di amore e di misericordia».
Ma c’è un minimo possibile attorno a cui trovare consenso?
«Nell’Instrumentum Laboris si parla di un ampio consenso attorno alla via penitenziale. E c’è spazio per ulteriori approfondimenti. Afferma Gesù: “Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue non ha la vita”(Gv 6). E non si deve dimenticare quanto ha stabilito il concilio Lateranense IV (1215) con il cosiddetto “precetto pasquale”, cioè Comunione e Confessione almeno una volta all’anno sono necessarie nell’economia della salvezza. C’è spazio per riordinare in maniera più logica sia la disciplina che la dottrina per una via pastorale che possa trovare un ampio consenso».