Il Consultorio del Centro della famiglia di Treviso
di Alessandra Cecchin
E’ la “fraternità” che come cristiani siamo invitati a riscoprire e a vivere e, soprattutto, a proporre alla società, anche grazie alle famiglie. Una fraternità che nasce da una nuova prossimità che porta alla convivenza pacifica tra diversi, ossia a prendersi cura gli uni degli altri, contrastando così quell’individualismo esasperato causa del “crollo del noi”, titolo dell’ultimo volume di mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, ospite a Treviso all’inaugurazione del Consultorio del Centro della famiglia domenica 25 novembre.
Mons. Paglia, che cosa rappresenta questo nuovo servizio offerto alle famiglie del territorio?
Il vescovo Gardin nel suo saluto ricordava la “simpatia immensa” con cui Paolo VI definiva l’impegno del Concilio – e la Chiesa – paragonandolo alla parabola del Buon samaritano. Potremmo immaginare anche questo Consultorio a quell’albergo della parabola, ossia a fare di questo centro un luogo dove si è accolti e aiutati, accompagnati e curati e soprattutto a restare all’interno di un tessuto comunitario che è animato da uno “spirito di famigliarità”. E’ certo un Centro di ispirazione cristiana, ma proprio per questo “cattolico”, ossia aperto a tutti, nessuno escluso.
Qual è la novità introdotta da “Amoris Laetitia” nella riflessione sulla famiglia?
Una delle grandi novità di questo documento è non essersi fermato a riproporre la definizione della famiglia, ma di spingere ad aprire gli occhi sulla realtà delle numerosissime famiglie, quelle che sono in salute ma anche quelle che sono ferite, o stanche, o magari vivono solo una scintilla di famigliarità. E, con l’audacia e l’amore del pastore, papa Francesco chiede a tutte le chiese del mondo di uscire, e di uscire insieme alle famiglie che stanno in salute, che vivono una vita buona e serena, per andare incontro a quelle ferite. Tutte le famiglie ci sono care! Papa Francesco vuole che riscopriamo la famiglia come un cardine ineliminabile della società, di tutte le società, come il luogo originario dove gli uomini e le donne apprendono a convivere in pace tra diversi: questa prospettiva è “il” problema delle famiglie, delle città, delle nazioni, del mondo intero. Di sempre, ma soprattutto di oggi. Se la famiglia sta male, a catena tutto ne risente. La capacità di convivere pacificamente tra diversi è una lingua che va appresa fin da bambini, appunto, in famiglia. Dobbiamo ridare vigore a questo “noi” che è la famiglia, oggi purtroppo avvelenato dal virus di quell’ individualismo che spinge tutti ad uno sterile narcisismo. C’è chi parla di un nuovo culto, il “culto dell’io” (egolatria), sul cui altare si sacrificano anche i figli, i coniugi, gli affetti.
Un individualismo che è sempre più radicato anche a livello pubblico…
Certo, tanto da diventare anche “egocrazia”, ossia una prospettiva politica per cui la società viene come atomizzata, polverizzata, quasi “defamigliarizzata”. Serve un nuovo salto culturale che porti ad aprire le società, non a chiuderle, magari alzando muri e costruendo barriere. E’ vero, la globalizzazione rischia di renderci tutti spaesati, ma non possiamo far vincere la paura dell’altro chiudendo porte e finestre. In tal modo smantelliamo ogni socialità. Tutti però sappiamo bene che la solitudine non è mai bella. Anzio, è sempre brutta. Per chiunque. Mi verrebbe da dire anche per Dio. Infatti, nel credo cristiano è “trinità”. Solo nell’amore, solo nella comunione con l’atro è possibile la felicità.
Quali le sfide più importanti che attendono le famiglie e la Chiesa insieme alle famiglie?
Direi che c’è bisogno, oltre che di questa rivoluzione culturale, anche di una rivoluzione evangelica. Papa Benedetto nell’enciclica Spe Salvi evidenzia che uno dei peccati più gravi del cristianesimo contemporaneo: aver promosso una spiritualità individualista che è diventata complice proprio di quella cultura narcisista che ci sta distruggendo. Per troppo tempo abbiamo predicato la salvezza della propria anima dimenticando che per i cristiani la salvezza o è di tutti o non c’è. Ecco perché è indispensabile il recupero di quella fraternità, di quell’amore che non è anzitutto amore per sé, come le famiglie sono chiamate a vivere e a testimoniare. Come cristiani, come uomini e donne dobbiamo imparare a passare dalla domanda sulla mia identità (Chi sono io?) a un’altra domanda, quella sull’alterità (Per chi sono io?). Purtroppo, guardando le nostre realtà ecclesiali ci rendiamo conto che da una parte abbiamo famiglie isolate con poco senso ecclesiale e, dall’altra abbiamo parrocchie spesso molto funzionali ma poco famigliari. E’ una grande sfida che la chiesa deve affrontare. E non solo per sé. La Chiesa, oggi, ha anche la missione di fermentare in maniera famigliare le nostre città e il mondo. Le nostre parrocchie, le nostre celebrazioni domenicali devono essere luce e sale di famigliarità per le città, per i nostri paesi. Io credo che sia necessaria anche una nuova riflessione teologica sul grande tema della famiglia. Dobbiamo tornare a quel famoso “all’inizio non era così”, la risposta di Gesù ai farisei. “All’inizio”, com’era? Ecco, nella Genesi il Signore affida la “casa comune” (l’intera creazione) all’alleanza dell’uomo e della donna (Adamo ed Eva non erano semplicemente marito e moglie, essi rappresentavano l’intera umanità). Dobbiamo trovare una nuova prospettiva nella quale l’uomo e la donna riprendano il timone della storia, della società e della famiglia e siano responsabili sia della cura del creato come delle generazioni. Deve tornare a pulsare culturalmente questa prospettiva di vocazione del matrimonio e della famiglia che non si esaurisce nell’autoreferenzialità ma deve compiere una grande missione. Non ci si sposa per sé, ci si sposa perché il Signore affida all’alleanza dell’uomo e della donna un compito enorme, insostituibile. E se va in crisi questa alleanza, ne va del creato e dell’intera famiglia dei popoli.