Ibrahim Rugova
Ibrahim Rugova è stato, per gli albanesi del Kosovo, il presidente quasi per antonomasia. Non fu un politico demagogico, un tribuno, un uomo di potere, ma un presidente, cioè un simbolo del suo popolo. Questa identificazione popolare con la sua figura avvenne forse perché Rugova esprimeva le migliori virtù del suo popolo: il patriottismo, la tenacia, la costanza, la fede nell’avvenire, la solidarietà cordiale, la capacità di soffrire senza scoraggiarsi. Gli albanesi del Kosovo hanno vissuto, lungo tutto il Novecento, fra mille difficoltà e pericoli che li hanno fortificati nello spirito e lo hanno unito. Rugova è stato segnato da queste vicende tragiche del suo popolo sin da bambino, quando il padre e il nonno gli sono stati strappati violentemente.
Ha conosciuto momenti distesi, se così possiamo dire, quando il Kosovo, nella Jugoslavia di Tito, era amministrato dagli albanesi che costituivano la maggioranza della popolazione. Caporedattore della principale rivista di cultura albanese, nel 1976, a trentadue anni, si recava a Parigi per studiare con Roland Barthès. Penetrerà nella cultura francese, tanto che nel 1996 riceverà la laurea honoris causa dalla Sorbona. Autore di numerosi libri a carattere letterario, storico e politico, negli anni Ottanta Rugova si è fatto conoscere come scrittore, divenendo infine il presidente dell’Unione degli Scrittori del Kosovo. Non mi soffermo a parlare della sua produzione scientifica e ricordo solamente i suoi studi sul gesuita albanese Bogdani.
Ci sono terre dove essere scrittori e poeti significa portare grosse responsabilità: il Kosovo è una di queste. Quando Milosevic soppresse l’autonomia del Kosovo, e la maggioranza degli abitanti non si riconobbe nel governo locale di una minoranza, Rugova fu la personalità che fece opposizione con più coraggio e lucidità.
Seguirono dieci anni di una stupefacente coesistenza pacifica fra serbi e albanesi in Kosovo. Guidati da Rugova e dalla sua Lega Democratica del Kosova, gli albanesi si organizzarono in una società parallela con centri medici, scuole, università, attività economiche, e persino una rete fiscale, che magari può essere qualcosa di poco popolare ma là, in quei frangenti, era necessaria per sopravvivere. Tutti fecero sacrifici, strinsero la cinghia, ma così il popolo albanese riuscì a trovare, al di fuori dello Stato non suo, che non riconosceva, una nuova e stabile organizzazione di vita. Nel 1996 Rugova negoziò un accordo sulle scuole e l’università con Belgrado. Come mediatore di quell’accordo, l’unico che fu realizzato tra le due parti, posso testimoniare la lungimiranza di Rugova da cittadino qualsiasi, per i Serbi, divenne l’interlocutore privilegiato: fu un atto di coraggio, non politico ma umanitario, dovuto alla volontà di alleviare le difficoltà del suo popolo. E fu una nuova dimostrazione dell’umanesimo di Rugova.
L’alternativa era quella della insurrezione armata. Non la si volle, per evitare un bagno di sangue, come c’era stato in Croazia e in Bosnia nei primi anni Novanta. Questo era un tema caro a Rugova, che non voleva provocare decine di migliaia di vittime fra il suo popolo. Non per paura. Lui, anzi, rischiava quotidianamente la vita, essendo un simbolo della resistenza pacifica. Di lui tutti, avversari compresi, conoscevano indirizzo, spostamenti, famiglia. Era facile lanciare proclami bellicosi da lontano, dall’estero. Non era facile, né opportuno, stando dentro ad una situazione come un padre di famiglia. E Rugova è stato per gli albanesi del Kosovo un padre di famiglia. Non mi riferisco evidentemente alla sua famiglia di sangue, così unita e discreta, così cortese come io stesso ho avuto modo di constatare, ma alla più larga famiglia costituita dal suo popolo.
E, a proposito di famiglia e famiglie, c’è un altro aspetto molto significativo della storia di Rugova. In Kosovo, come in Albania, ma anche come in certo nostro Mezzogiorno, vi erano faide tra famiglie che provocavano vendette, per cui morivano molti uomini. Agli inizi degli anni Novanta fu merito di Rugova, insieme ad un intellettuale cattolico, Anton Cetta, l’avere riconciliato le famiglie che avevano il cosiddetto debito di sangue. Furono almeno un migliaio le riconciliazioni, che avvenivano solennemente, in grandi assemblee popolari all’aperto. Questo accadeva per il desiderio di unità e pace della popolazione, che Rugova seppe interpretare e guidare.
Quando iniziarono i bombardamenti aerei, il 24 marzo 1999, Rugova era a casa sua, a Pristina, in Kosovo. Aveva scelto di non procurarsi un rifugio all’estero, come altri che sapevano dell’inizio delle ostilità. Il suo posto era accanto al popolo che soffriva. Visse il conflitto da prigioniero in casa, controllato e minacciato, senza sapere se ne sarebbe uscito vivo. Fu per me un fatto inspiegabile quando, giungendo a Belgrado sotto i bombardamenti, per liberare l’amico Rugova, presi il telefono e senza crederci, perché le lineee telefoniche erano interrotte, feci il numero di casa di Rugova e il teelfono squillò. All’altro capo del filo rispondeva Rugova. Non credevo alle mie orecchie, ma gli assicurai la mia vicinanza e tutto il mio impegno per liberare lui e la sua famiglia. E così avvenne dopo lunghe e difficilissime trattative. Poté quindi trovare scampo in Italia. E ricordo ancora la commozione di quell’incontro che lo vedevano comunque sempre impegnato alla soluzione dei gravissimi problemi che la guerra stava suscitando. Ma la speranza di una nuova stagione per il suo Paese lo sosteneva.
Rugova era il presidente del nuovo Kosovo, in continuità con gli anni Novanta quando venne eletto per due volte presidente dalla popolazione albanese, in consultazioni per così dire ombra, ma molto serie e disciplinate. Noto per la linea pacifica e non violenta, per la quale ha ricevuto numerosi premi, tra cui il Sakharov Prize del Parlamento Europeo. Qualcuno ne ha dedotto che Rugova avesse obiettivi limitati, che fosse uomo di compromessi. Non era così. Mi sia consentito il paragone con Gandhi, che aveva obiettivi grandiosi ma con mezzi pacifici, non violenti, non offensivi, moderati, senza minacce, senza aggettivazioni sanguinarie. Lo stesso si può dire di Rugova. Egli non ha mai cessato di indicare l’indipendenza del Kosovo come il suo grande obiettivo, anche quando nessuno Stato riconosceva il referendum di autoderminazione che gli albanesi avevano espletato. Tuttavia ha perseguito questo massimo obiettivo politico con senso di responsabilità verso il proprio popolo. Non voleva rischiare stragi di innocenti. Ed ha creduto che fosse possibile raggiungere l’obiettivo con la forza della volontà, con il sacrificio personale, con la fermezza delle convinzioni, e, politicamente, con il negoziato, a carte scoperte, in nome della giustizia. Ha sempre insistito molto sulla internazionalizzazione della questione del Kosovo, credendo nella comunità internazionale.
Noi siamo onorati di avere avuto a Terni Ibrahim Rugosa e di avergli conferito il premio San Valentino. E’ stato un presidente ma non un uomo di potere. Aveva senso dell’amicizia, non delle clientele. Era uomo colto che sapeva quanto il suo popolo avesse bisogno di conquistare il suo spazio nel mondo con il lavoro, con le virtù, con l’amor di patria, con la democrazia. In momenti delicati ha saputo mettere da parte persino il suo orgoglio per il bene del suo popolo. Penso ai negoziati di Rambouillet. E non vado oltre. Ibrahim Rugova è un presidente umanista, non un capopopolo che sprezza il valore della vita. Conosce il valore dei sentimenti, della fatica, della gradualità. E mi sia consentito a questo proposito citare un passo della Pacem in terris, di cui stiamo per celebrare il quarantesimo anniversario: “Trovandosi di fronte a situazioni nelle quali le esigenze di giustizia non sono soddisfatte” osservava papa Giovanni XXIII, taluni, comprensibilmente, vorrebbero “superare con un balzo solo tutte le tappe […Eppure] Non si dimentichi che la gradualità è la legge della vita”.
Ibrahim Rugova era anche un amoroso e patriottico collezionista, di minerali della sua terra, come ben sa chi lo andava a trovare e ne riceveva graditi esemplari… Che il premio San Valentino si affianchi agli splendidi minerali preziosi della sua casa, come pegno di un altro affetto, quello che la città di Terni ha per gli uomini che rendono ragione della speranza, dell’umanità, dell’amore che Dio ha infuso nei loro cuori.