Famille en communauté, l’avenir d’une utopie
Le “nuove comunità” e il sinodo sulla famiglia
Sono particolarmente lieto di partecipare a questo Colloquio Internazionale che si svolge, significativamente, pochi mesi dopo la fine del Sinodo sulla famiglia. Tra poco uscirà l’Esortazione Apostolica Post-sinodale, un testo che raccoglie quanto emerso dal Sinodo e che Papa Francesco iscrive nell’orizzonte missionario della Chiesa in questo momento storico. E’ un orizzonte particolarmente congeniale alle “nuove comunità” e alla loro testimonianza evangelica perché non solo si conservi, ma cresca in visione e responsabilità.
Non è questa la sede opportuna anche solo per ricordare il prezioso contributo offerto dalle “nuove comunità” al cammino della Chiesa anche nel versante di quella che viene chiamata la “pastorale famigliare”. Una sola cosa però credo vada sottolineata: il parallelismo che si può stabilire tra lo sviluppo del cristianesimo delle origini attraverso la rete delle famiglie e la vitalità dei movimenti famigliari del Novecento. Sono due momenti storici molto diversi. E tuttavia hanno in comune l’efficacia missionaria della Chiesa quando assume i tratti “famigliari”. Mi chiedo se in questo inizio di millennio non si debba intraprendere la comunicazione del vangelo attraverso una nuova alleanza tra famiglia e comunità ecclesiale perché fermenti in maniera “famigliare” una società sempre più individualizzata e disumana.
E’ in questo orizzonte che appare ancor più chiara la responsabilità delle “nuove comunità” a vivere il proprio carisma in maniera più generosa e creativa. Tra voi ci sono comunità nate nella prima metà del Novecento e altre immediatamente dopo il Concilio e vi qualificate per l’appartenenza alle diverse tradizioni cristiane. Vi accomuna, tra le altre cose, una prospettiva che lega strettamente famiglia e comunità, ministero ordinato, sacramento nuziale e celibato. Come dare un nuovo impulso che rafforzi il discepolato e la missionari età In questo tempo per certi versi davvero straordinario? Guardiamo l’entusiasmo che Papa Francesco suscita ovunque nel mondo. Egli appare come un seminatore infaticabile che semina ovunque il seme buono del Vangelo. Non c’è terreno nel quale egli non getti il seme, consapevole che comunque – sia che noi dormiamo o vegliamo – esso porterà frutto.
Vedendo l’entusiasmo che egli suscita ovunque nel mondo, viene in mente la festa e la gioia che leggiamo nei Vangeli, quando folle intere accorrevano attorno a Gesù per toccarlo, per sentirlo, per trovare comprensione e speranza. Ma una semina così larga chiede che ci siano mietitori sufficienti e attenti a raccogliere i frutti di quanto è stato seminato. In questo tempo sento particolarmente urgente l’esortazione di Gesù ai discepoli: “Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”(Gv 4,35). La messe è davvero molta. Non possiamo restare semplicemente a guardare, stupiti e soddisfatti, quel che il Papa sta vivendo e facendo. Tutte le realtà ecclesiali sono chiamate a trovare un nuovo slancio. A mettersi “in uscita” dice Papa Francesco nella Evangelii Gaudium. A compiere una vera e propria “conversione pastorale”. E spiega: “La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del ‘si è sempre fatto così’. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità” (EG 34). E’ insomma necessaria una nuova audacia, una nuova creatività o, se si vuole, un più attento ascolto di ciò che lo “Spirito dice alle Chiese”(Ap 2, 29).
Globalizzazione e “individualizzazione” della società
E’ in questo orizzonte che offrirei qualche riflessione sulla famiglia e il suo rapporto con la comunità cristiana. Faccio anzitutto una premessa. Se dovessi dire in maniera sintetica qual è la situazione della famiglia oggi, direi che ci troviamo di fronte ad una condizione “paradossale”. Da una parte infatti si attribuisce alla famiglia un grande valore tanto da farne la chiave della felicità. E i dati statistici confermano che la famiglia è da tutti sentita come il luogo della sicurezza, del rifugio, del sostegno per la propria vita. Dall’altra, i legami famigliari sono divenuti fragilissimi: le famiglie si disperdono, si dividono, si ricompongono, si allargano. E’ normale pensare che ormai qualsiasi forma di “vivere insieme” può essere famiglia. L’importante – si dice – è l’amore. La famiglia, oggi – a differenza di ieri, penso ad esempio ad una creta cultura marxista -, non è negata; viene posta accanto a nuove forme di vita e di esperienza relazionale che sono apparentemente compatibili con essa, anche se in verità la scardinano. Ci sono dati che già mostrano l’affermarsi di un circuito disincentivante verso il “fare famiglia”. E deve far riflettere il fatto che in diverse aree del mondo stia crescendo il numero delle persone che scelgono di stare da sole. Andiamo verso una società de-familiarizzata? Certamente a basso tasso di familiarità.
E’ una tendenza che trova sostegno nel processo di “individualizzazione” che caratterizza la società contemporanea. Dopo l’affermarsi della soggettività – un passo decisamente positivo perché ha permesso l’affermarsi della dignità della persona umana – ci troviamo ora in una pericoloso deriva individualistica. Gilles Lipovetsky, noto filosofo francese, parla di una “seconda rivoluzione individualista”, ossia l’affermarsi dell’individuo sciolto da ogni vincolo al cui dominio viene assoggettata ogni cosa. Massimo Recalcati, uno psichiatra italiano, rileva in maniera analoga una “esasperazione interna” della modernità, passata dalla centralità teologica di Dio a quella morale e psicologica dell’io.
In effetti, l’io sembra prevalere ovunque sul noi e l’individuo sulla società, così pure i diritti dell’individuo avanzare su quelli della famiglia. Diviene normale, anzi logico, che in una cultura individualista si preferisca la coabitazione al matrimonio, l’indipendenza individuale alla dipendenza reciproca. La famiglia, con un capovolgimento totale, più che “cellula base della società” viene concepita sempre più come “cellula base per l’individuo”. Ognuno dei due coniugi pensa l’altro in funzione di se stesso: ciascuno cerca la propria singolare individualizzazione più che la creazione di un “soggetto plurale” che trascende le individualità per creare un “noi” che affronta la costruzione di un futuro comune. Insomma, l’io, nuovo padrone della realtà, diviene padrone assoluto anche nel matrimonio e nella famiglia. Il sociologo italiano, Giuseppe De Rita, parla di “egolatria”, di un vero e proprio culto dell’io.
Anche il cristianesimo non è immune dal virus dell’individualismo. Lo rileva con sapienza Benedetto XVI, nell’enciclica Spe Salvi. Papa Ratzinger si chiede: “com’è potuto accadere che nel cristianesimo moderno si sia affermata la concezione della salvezza come un affare individuale, per cui ciascuno crede che deve impegnarsi per salvare la propria anima, mentre l’intera tradizione biblica e cristiana che ci salviamo in un popolo?” Il Concilio Vaticano II lo ha affermato con grande chiarezza: “Dio avrebbe potuto salvare gli uomini in maniera individuale, ma ha scelto di salvarli radunandoli in un popolo”. Tale individualismo religioso è divenuto complice di quell’individualismo della cultura contemporanea che sta avvelenando l’intera umanità.
Il bisogno di “Famiglia”
Tutte le ricerche rilevano comunque che i legami affettivi duraturi continuano ad essere un’aspirazione generale. Si potrebbe dire che, nonostante tutto, resta forte il bisogno di “famiglia”. E’ un bisogno che sale dal profondo della persona umana: siamo fatti per la comunione, non per la solitudine. Il racconto biblico è illuminante. Dio – si scrive nel racconto della Genesi (2, 18) -, dopo aver creato l’uomo, si rese conto che mancava qualcosa, e disse immediatamente: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Creò la donna, una compagnia “che gli fosse simile”. Nel capitolo primo della Genesi (1, 27) si sottolinea la complementarietà dell’uomo e della donna: “Dio creò l’uomo a sua immagine: a immagine di Dio lo creò; maschi e femmina li creò”. Se è vero che la vita umana non è l’unica forma di vita contrassegnata dalla differenza sessuale, è però solo della differenza sessuale dell’uomo e della donna che si dice “a immagine e somiglianza di Dio”. Tale differenza non è posta per la contrapposizione ma per la comunione e l’integrazione tra l’uomo e la donna. Questo significa che gli uomini non possono capire l’essere umano nella sua profondità se non ascoltano le donne (e quando non lo fanno si vede benissimo cosa succede!). Così pure le donne non possono capire l’essere umano nella sua compiutezza senza il dialogo con gli uomini. Insomma, senza l’arricchimento di questa relazione – nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro – i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna.
La cultura contemporanea ha creato nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per comprendere questa differenza, introducendovi però anche dubbi e scetticismo. Faccio un solo esempio: la cosiddetta teoria del gender non è forse anche l’espressione di questa rassegnazione che mira a cancellare la differenza perché non sa più confrontarsi con essa? “La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione”, ha sottolineato Papa Francesco. Il rischio è che facciamo un passo indietro. L’uomo e la donna, per risolvere i loro problemi di intesa devono invece parlarsi di più, ascoltarsi di più, volersi bene di più. E quando progettano la loro unione matrimoniale e famigliare, devono farlo per la vita e non solo per la compagnia di un momento. Insomma, il legame matrimoniale e familiare è una cosa seria, per tutti, non solo per i credenti.
Emerge qui uno dei compiti più urgenti affidati dalla storia alle famiglie cristiane e alle comunità cristiane. In questo orizzonte globale suona profetico quanto diceva il grande Patriarca Atenagora: “Chiese sorelle, popoli fratelli”. La società globalizzata potrà trovare un futuro saldo di civiltà se e nella misura in cui sarà capace di promuovere una nuova cultura della “famigliarità”.
La vocazione e la missione della famiglia
Il Sinodo riafferma il bisogno di “famiglia”. In certo modo dobbiamo ripartire dall’inizio, come Gesù stesso disse a coloro che gli posero la domanda sulla legittimità del ripudio: “all’inizio non fu così”(Mt 19,8). E’ indispensabile e urgente una nuova riflessione sulle prime pagine della Bibbia. In esse vengono tracciate in maniera inequivocabile la vocazione e la missione della famiglia. Nella prima famiglia umana è contenuta sia la “famiglia dei popoli” sia le singole famiglie. A queste famiglie Dio affida il compito di custodire il creato e la responsabilità della generazione: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela”(Gn 1, 28). Non siamo stati creati per rinchiuderci in noi stessi, ma per rendere abitabile da tutti i popoli quella “casa comune” che è la terra. E’ in questo orizzonte che si colloca la profezia della famiglia. Da essa non sono esclusi coloro che scelgono il celibato.
Vorrei spendere una parola su questo tema. Il celibato va approfondito anche perché è parte del discorso sulla dimensione “famigliare” dell’umanità e della missione che Dio le ha affidato attraverso la comunità “ecclesiale”. In tale prospettiva la condizione “monastica” associata al ministero non è in competizione con la forma “domestica” della vita di fede del popolo di Dio. Al contrario, introduce nella comunione ecclesiale una polarità feconda per l’apertura evangelica della dimensione famigliare, dalla quale riceve a sua volta la concretezza della sua destinazione ecclesiale. I carismi, anche i più grandi, come insegna Paolo, non sono per noi stessi ma per l’utilità comune (1Cor 12, 7; 14, 12). E il loro fine ultimo è unico per tutti: l’ospitalità e la condivisione dell’amore di Dio (1 Cor 12, 31; 14, 1).
La vocazione celibataria si appoggia alla scelta fatta da Gesù, e corrisponde ad una chiamata singolare, di cui Gesù non manca di segnalare il simbolo forte ed anche enigmatico (“Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca”, Mt 19, 12). Queste parole evangeliche seguono immediatamente quelle con cui Gesù celebra la purezza della vocazione coniugale originaria dell’uomo e della donna, sottraendola ad ogni compromesso ed esaltandone la portata paritaria e la dignità creaturale (Mt 19, 3-11). Gesù non contrappone il celibato alla coniugalità. E il cristianesimo ha sempre resistito – a dispetto di molti equivoci della sua stessa storia – alla esaltazione del primo svalutando la seconda. E neppure si tratta di argomentare in termini di pratica utilità del ministero comunitario o della vita di preghiera. Quando Gesù parla della dignità della donna nel matrimonio e del privilegio dei bambini nella comunità, come anche i gesti di Gesù che risuscita l’amico Lazzaro e restituisce la figlia al Centurione, non diminuisce il valore dei vincoli famigliari.
A tale scopo propongo due osservazioni. La prima è relativa all’atteggiamento di Gesù: nessuno ha più diritto di un altro di accostarsi a Lui e di ricevere la benedizione, la salvezza e la promessa del regno di Dio. Anche Gesù ha i suoi affetti famigliari, ma non una sua famiglia. Non c’è spazio privilegiato: ognuno che cerca Dio può trovarlo, in Lui, senza l’imbarazzo di ferire qualcuno che ha umanamente più diritto. Insomma, Gesù mette in pratica quel che dice: chi ascolta la Parola e fa la volontà di Dio, costui è per me fratello, sorella e madre. E chi lascia moglie e campi, per questo, riceverà il centuplo: ossia, arricchirà il mondo di affetti famigliari, in un modo che è umanamente impensabile!
Nella vita gli affetti più cari e più sacri del legame coniugale e famigliare spesso sono feriti, abusati, lacerati, abbandonati. Molti legami cercano di vivere, pur in condizioni di povertà materiale e spirituale, molti cercano di ricomporsi, pur in condizioni difficili e precarie. La comunità cristiana, che è radicata nella vita delle famiglie, è anche più grande della famiglia: essa riesce a far vivere e sperare nella benedizione di legami veramente famigliari, anche coloro che in quei legami faticano a vivere e a sperare: compresi i soli, le abbandonate, i messi da parte e i rifiutati, e tutti coloro che non hanno potuto condividere e generare una vita.
Ecco, il celibato si colloca simbolicamente nel punto più povero di questa costellazione di fragilità e di ferite umane, per presidiare e custodire il punto più alto del riscatto della loro impotenza. E incita la comunità della fede a offrire uno spazio famigliare così grande da poter contenere e sostenere tutte le solitudini e gli abbandoni: anche nelle condizioni, apparentemente impossibili, della vita. Il “solo” e “l’abbandonata”, resi tali dalle circostanze della vita o dalla cattiveria degli uomini (è l’esempio di Gesù, che parla prima della “ripudiata” e poi dell'”eunuco”, con tutta franchezza e in assoluta libertà, perché non parla per sé, appunto) trovano la spazio per la loro dignità e per il loro riscatto. E per la loro reintegrazione nell’orizzonte famigliare della Chiesa.
La seconda osservazione riguarda la dimensione “famigliare” del celibato “ecclesiale”. E’ a dire che la testimonianza del celibato – una chiamata squisitamente personale che può venire solo da Dio, perché agisce profeticamente “in deroga” al comandamento creaturale e al sacramento cristiano – non si comprende al di fuori della logica “fraterna” della fede evangelica e della comunità ecclesiale. Se il principio monastico e quello domestico della costituzione della comunità cristiana agiscono nel solco di un’alleanza che edifica la Chiesa, la testimonianza dell’intero della fede prende una forza straordinaria anche per la missione dell’umanesimo nuovo inaugurato dal Signore. L’alleanza del principio monastico e del principio domestico – senza opposizione, senza costrizione – infatti, libera la sessualità dalla riduzione a pulsione del godimento e la restituisce alla sua dignità umana di scelta e di libertà. Nello stesso tempo, la relazione coniugale viene restituita alla sua dimensione comunitaria ed ecclesiale. L’intimità e la generazione trovano la loro profonda corrispondenza nello sviluppo e nella circolazione di una paternità, di una maternità, di una fratellanza più ampia di quella che si chiude nell’autoreferenzialità dei legami di coppia e di clan.
A quel punto, la testimonianza ecclesiale di una fede che genera un orizzonte famigliare per tutti, estendendo il comandamento del Creatore all’orizzonte dell’intera condizioni umana, e per chiunque, è perfettamente abilitata al suo compito. Il carisma della vocazione monastica, sottratto all’orgoglio di una prova di forza, e restituito al roccioso sostegno – e incoraggiamento e dedizione – che esso deve provvedere alla comunità dei testimoni del regno di Dio fra gli uomini, si rallegrerà della vitalità che i legami famigliari, vissuti nella fede, portano all’unica missione ecclesiale della fede. E la gioiosa vocazione a renderla un possibile di Dio, persino là dove esso appare impossibile agli uomini. Perché c’è una misteriosa corrispondenza, nella fede evangelica, e non opposizione, fra l’alleanza dell’uomo e della donna voluta da Dio e la chiamata a portare questa alleanza oltre se stessa: in favore di ogni uomo e di ogni donna.
Il matrimonio, la famiglia e la comunità ecclesiale
Vorrei ora almeno accennare al rapporto tra il sacramento, la famiglia e la comunità ecclesiale. Anche qui c’è una lacuna del pensiero teologico, nonostante l’ampia letteratura morale e canonistica. La teologia del matrimonio ha trascurato la dimensione famigliare, iscrivendola tacitamente fra le conseguenze pratiche dell’unione coniugale, che definiscono la condizione comune di una forma sociale di base. Oggi invece appare chiara l’inadeguatezza di tale prospettiva. Va sviluppato ben di più il legame intrinseco fra il sacramento del matrimonio e la famiglia, sino a poter dire con chiarezza che l’uomo e la donna non si uniscono in matrimonio semplicemente per se stessi, bensì per l’edificazione di una famiglia intesa come luogo di generazione umana, di educazione filiale, di legame sociale e di fraternità ecclesiale. Insomma, il matrimonio è per la famiglia, non viceversa: il sacramento sigilla il loro reciproco e indispensabile rapporto. La destinazione sociale e la vocazione comunitaria del matrimonio, che nella famiglia trova il suo simbolo compiuto e il suo nucleo propulsivo, sono assunte all’interno della fede cristiana e della stessa forma ecclesiale, sulla base del disegno comunitario di Dio a riguardo della creatura umana.
Il fatto che il legame matrimoniale costituisca, nell’ordine cristiano, un vero e proprio sacramento della nuova alleanza, va compreso in continuità con l’originaria destinazione generativa e comunitaria dell’alleanza creaturale. Nel sacramento cristiano, il legame delle origini è redento e inserito nell’economia della salvezza cristiana, ma la logica del suo disegno creaturale continua a rappresentare il fulcro del suo compimento nella fede in Gesù Cristo, condivisa nella Chiesa. Il fatto che esista un intrinseco ordinamento del sacramento alla famiglia, e della famiglia alla comunità ecclesiale, non è una semplice conseguenza pratica dell’amore totale e fedele “dei due”, quasi che il significato essenziale del matrimonio (e quindi del sacramento) si condensasse e si esaurisse in primo luogo nel legame d’amore assoluto della coppia. In verità, la destinazione ai vincoli famigliari e alla comunità ecclesiale è piuttosto da ricondurre alla natura intrinseca del legame matrimoniale secondo il disegno creatore, che nell’economia salvifica cristiana viene inserito – come parte attiva – nel più fondamentale legame di Cristo con “i molti” per i quali è destinato l’amore di Dio ed è versato il sangue redentore.
In questa più ampia e concreta connessione si potrà ancor meglio comprendere il senso genuinamente “ecclesiale” della formula paolina sul “mistero grande”, riscoperta dalla recente teologia del matrimonio (Ef 5, 15).
Famiglie e comunità “in uscita”
Nell’orizzonte evangelico appare chiaro il primato assoluto del legame con Gesù su tutti gli altri legami. La famiglia cristiana ha come suo primo compito la sequela di Gesù. E’ questo il senso dello “sposarsi nel Signore”. I legami famigliari – nella sequela del Signore – vengono irrobustiti e trasformati: sono cioè resi più robusti, più creativi, e più universali perché senza più confini. La forza del Vangelo fa uscire di casa e abilita a creare paternità e maternità più ampie, per accogliere come fratelli e sorelle gli altri discepoli di Gesù. A chi gli disse che fuori della casa c’erano la madre e i fratelli che lo aspettavano, Gesù rispose: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3, 35). La comunità ecclesiale è la “familia Dei”. Nel seno della Comunità cristiana, le famiglie cristiane ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica, allargano le porte di casa per accogliere chi ha bisogno, escono dal loro recinto per aiutare i poveri e i deboli, conoscono la strada degli ospedali e delle carceri, scorgono nelle pieghe nascoste del quartiere e delle città le persone sole bisognose di una visita, si accorgono delle altre famiglie più deboli che fanno fatica e magari sono sull’orlo della crisi, ascoltano le grida che nessuno ascolta più perché ciascuno è assordato dal proprio rumore, e così oltre. Queste famiglie stanno compiendo miracoli. Esse sono come quei servi a Cana che sanno offrire un vino buono a chi ha la festa della vita ormai rovinata. Ed è così – attraverso queste famiglie – che il Vangelo arriva nelle periferie del mondo.
Le famiglie che vivono la sequela di Gesù non sono isolate e chiuse in se stesse. Esse attingono l’energia dell’amore dall’altare: ascoltando assieme le Scritture e nutrendosi dell’unico pane e dell’unico calice. Per questo è urgente un più chiaro legame tra famiglia e comunità partendo proprio dalla “comunità dell’altare”. La pastorale di base dovrebbe sviluppare molto di più, in chiave “famigliare”, la ricchezza di questo legame che “fa la Chiesa”. Dall’unico altare della Domenica ci si disperde poi negli altari delle case, delle strade e delle piazze per comunicare a tutti il Vangelo del Regno e guarendo malattie e infermità. Una Chiesa secondo il Vangelo non può che avere la forma di una casa accogliente, ospitale, larga, senza confini. E questo avverrà realizzandola in una “forma domestica”.
E’ l’utopia di un nuovo modo di vivere, non chiuso in se stesso ma aperto a tutti e particolarmente ai poveri. In un tale orizzonte diviene chiara la responsabilità di accogliere coloro che non hanno famiglia, le persone sole e deboli perché facciano parte della più larga famiglia di Dio. Ed è in questo orizzonte che si deve porre anche il tema dei divorziati risposati o di quelle famiglie imperfette e in fieri. Verso costoro deve affrettarsi il nostro passo, irrobustirsi il nostro ascolto, intensificarsi la nostra compagnia. C’è una responsabilità particolare dei movimenti che già vivono una interrelazione tra famiglia e comunità. E’ la responsabilità di aiutare la Chiesa a colmare il divario tra famiglie e comunità cristiane. Potremmo dire che le famiglie sono troppo poco ecclesiali perché facilmente si rinchiudono in se stesse, e le comunità cristiane poco famigliari perché appesantite dalla burocratizzazione, o ingrigite dal funzionalismo.
La profezia di una Chiesa famigliare in un mondo di soli
Famiglia e comunità cristiana debbono trovare la loro alleanza non per rinchiudersi nel loro circolo ma per fermentare in maniera “famigliare” l’intera società. Nello scenario di un mondo segnato dalla tecnocrazia economica e dalla subordinazione dell’etica alla logica del profitto, è strategico riproporre il Vangelo famiglia come forza di umanesimo. La famiglia – una profezia di amore in un mondo di soli – decide dell’abitabilità della terra, della trasmissione della vita, dei legami nella società. Il Vaticano II afferma con chiarezza la vocazione della Chiesa, delle comunità cristiane, delle famiglie: essere segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano. E’ questo l’amore che deve abitare nella famiglia e nella Chiesa.
La parola della creazione – ricchissima di tesori – è ancora troppo trascurata e dimenticata, eppure offre ampiezze e profondità nuove. E’ un grande lavoro che aspetta di essere compiuto. Ed è entusiasmante: Dio affida il mondo e le generazioni all’uomo e alla donna congiuntamente. Quello che accade tra loro decide tutto. Quando i due progenitori si lasciarono prendere dal delirio di onnipotenza, e quindi di fare a meno di Dio, rovinarono tutto. E’ un racconto che fa intravedere le tragedie conseguenti al rifiuto della benedizione di Dio sul legame generativo tra l’uomo e la donna.
In ogni caso, seguendo l’antico racconto biblico, Dio non abbandona l’uomo e la donna al loro destino e ribadisce la forza di quel legame generativo dell’inizio. Quando dice al serpente ingannatore: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe” (Gn 3, 15a), Dio segna la donna con una barriera protettiva, di inimicizia verso male: è una benedizione a cui essa può ricorrere – se vuole – in ogni generazione. Vuol dire che la Donna porta una segreta e speciale benedizione, per la difesa della sua creatura dal Maligno! Come la Donna dell’Apocalisse, che corre a nasconderlo dal Drago. E Dio la protegge (cfr. Ap 12, 6). E la protezione di Dio, nei confronti dell’uomo e della donna, non viene comunque mai meno per entrambi. Prima di far uscire i peccatori dal mondo-giardino, Dio “fece all’uomo e alla donna tuniche di pelle e li vestì” (cfr. Gn 3, 21). Anche nelle dolorose conseguenze del nostro peccato, Dio fa attenzione che non rimaniamo nudi e abbandonati al nostro destino!
La famiglia è una benedizione insostituibile per la terra, che è la nostra casa comune, la casa di tutti i popoli di ieri, di oggi e di domani. La promessa che Dio fa all’uomo e alla donna, all’origine dell’umanità, include tutti gli esseri umani, sino alla fine della storia. Se abbiamo fede – anche poca ne basta -, le famiglie dei popoli della terra guarderanno le famiglie cristiane e le comunità cristiane che già vivono questa solidarietà ampia e si riconosceranno in questa benedizione. E’ il grande sogno di Dio sul mondo: riunire tutti nell’unica famiglia umana. Chiunque si lascia commuovere da questa visione, a qualunque popolo, nazione, religione appartenga, può unirsi alla Chiesa: è nostro fratello, sorella e madre.