Essere è generare: voler bene è far essere

Sono particolarmente lieto di partecipare a questo festival che quest’anno ha voluto centrare la sua attenzione sulla dimensione generativa dell’amore. L’etimologia di “generare” ci aiuta ad entrare nel tema. Generare fa parte di un insieme di termini quali “generosità”, “genialità”, “genitore” che derivano tutti dalla radice genus (genere), la quale rimanda a significati quali partorire, germogliare, fabbricare. In sintesi: mettere al mondo. O, più estensivamente: dare la vita. Si coglie qui la natura creativa del generare. Che non è frutto di un imperativo moralistico, ma di quel potente movimento interiore proprio dell’essere che, mettendoci in sintonia con l’amore vitale, ci spinge ad un ruolo attivo nei confronti della realtà. In tal senso si può dire che il “voler bene fa essere”. L’amore è generativo, è generoso, è eccedente, è creativo. E’ su questo che vorrei porre l’attenzione.

I diritti dell’umanità

Vorrei iniziare la mia riflessione richiamando un tema decisamente disatteso nella cultura contemporanea, salvo forse sul piano ecologico: intendo riferirmi ai “diritti dell’umanità”. Non quindi ai “diritti dell’uomo”, che sono altra cosa e che oggi, peraltro, sono sottoposti anche a critica, soprattutto per quella insaziabile pulsione a modificare il diritto comune in funzione del desiderio individuale che sta pervadendo la società contemporanea. Qualcuno parla di una “seconda rivoluzione individualistica” contraddistinta dal culto dell’autorealizzazione, dall’edonismo del desiderio, dal consumo privato delle istituzioni collettive. L’Io è vincente sul Noi. Essere l’Unico è la massima aspirazione di ciascuno. Tzvetan Todorov azzarda l’affermarsi di una “tirannia degli individui”. Non mi dilungo su questo. Ma è evidente il danno che provoca. Credo sia giunto il momento di esortare ad avere ben più attenzione ai “diritti dell’umanità”, ai diritti della “famiglia umana”, quella che raccoglie gli esseri umani oggi sulla terra e quelli che verranno nelle generazioni future. Noi siamo nati nel grembo di questa “famiglia”, in essa viviamo e di essa dobbiamo essere responsabili, per l’oggi e per il futuro. Questa “famiglia umana” – i sette miliardi e più che abitano il pianeta – ha diritto ad essere amata, custodita, difesa, arricchita, accompagnata. Dobbiamo preoccuparcene come ci preoccupiamo del creato che abbiamo scoperto come la “casa comune” che questa famiglia è chiamata ad abitare. Insomma: alla cura del creato come casa comune, deve accompagnarsi la cura dell’umano che è comune alla “famiglia umana”. E’ una “famiglia” che chiede affetto e cura. Montesquieu giunge ad affermare: “Se sapessi di qualcosa che giovasse (a me, alla mia famiglia, alla mia patria…) e nuocesse al genere umano, lo considererei un delitto”. Dobbiamo essere consapevoli che il male fatto alla creazione – e per fortuna stiamo cercando di correggere la rotta – possiamo farlo, e ancor peggiore, alla famiglia umana. Come siamo stati tiranni verso la creazione, possiamo esserlo anche della famiglia umana. Ecco perché va data consistenza all’affezione verso l’umanità, verso il genere umano, verso l’umano che ci accomuna.

Quella mentalità individualista che prima ho richiamato ha, in effetti, eroso il senso della “communitas”. Il processo di individualizzazione ha cambiato profondamente i rapporti sociali. L’idealità comunitaria ha ceduto all’ambizione immunitaria: la cura della nostra “immunitas” da ogni rapporto che la metta a rischio è diventato un progetto anti-comunitario. Ormai è difficile che la gente dica “noi” pensando di includere tutti gli esseri umani sulla terra. Se lo dice è piuttosto per sottolineare il proprio recinto, i propri confini, la propria etnia, la propria religione. Forse, l’ultima volta che abbiamo detto “noi” – includendo tutti gli esseri umani -, è stato quando l’uomo è sbarcato sulla luna. Dicemmo “noi”, indipendentemente da chi ci fosse a compiere quel grande balzo dell’umanità. Oggi è davvero raro il “noi” della famiglia umana del pianeta. Eppure va suscitato questo amore. La “famiglia umana” va amata, bisogna dedicarle delle risorse, accantonare riserve, offrirle opportunità, trovare in essa motivi di orgoglio e di felicità. Dobbiamo avere cura che non si deteriori il “noi” dell’umanità, altrimenti ne subiremo le conseguenze negative, noi, i nostri figli, i nostri affetti più cari. Dovunque la comunità umana sia ferita, il contagio di questa ferita circola nelle sue vene, produce infezione, indebolisce l’organismo collettivo: perché l’umanità è comunque una. L’infezione si diffonde nei modi propri alla qualità umana: nella psiche, nel linguaggio, nell’immaginazione negli sguardi, negli stili relazionali e nella rete mediatica: si diffonde in modo invisibile e colpisce anche a grandi distanze, acquistando proporzioni epidemiche anche fra popoli lontani. Senza una profonda consapevolezza del “noi” umano si prosciuga anche l’idea stessa del futuro. In effetti stiamo rischiando di vivere alla giornata, senza futuro, “prigionieri del presente”. In tale orizzonte egocentrico non c’è freno al perseguimento del proprio tornaconto, del proprio godimento personale. Le ragioni dello stare insieme, dell’abitare un luogo comune, del fare comunità, perdono drasticamente forza. L’Io – sciolto da ogni vincolo – diviene attore di dissoluzione non di legami, di esclusione non di inclusione, di liquefazione non di solidificazione. Resta salda solo l’idolatria dell’Io.

I diritti della “generazione”

A questo punto, vorrei avviare una riflessione sulla “generazione” – nel significato appena accennato – sia nel suo versante orizzontale che in quello verticale. Il primo riguarda il cosiddetto inverno demografico che riguarda in particolare l’Occidente. Se mancano i figli è ovvio che si intacca gravemente il futuro della società e della famiglia umana. Qualche anno addietro era forte la paura del sovrappopolamento del pianeta. In verità, siamo cresciuti senza che sia accaduta la prevista catastrofe dei pessimisti. La popolazione è molto cresciuta nel pianeta. Ma i problemi non vengono dalla sua crescita numerica. Vengono piuttosto dall’esplosione di drammatiche disuguaglianze, di pericolosissime disparità. Basti pensare che in alcuni paesi si muore per fame e in altri per l’eccesso di cibo e bevande. L’occidente soprattutto è colpito dalla crisi delle nascite. E se non si fanno figli, non c’è futuro. La corsa alla soddisfazione di sé, al benessere individuale, come meta primaria da raggiungere ad ogni costo e subito, in realtà sta bruciando il futuro dell’umanità. Non posso dilungarmi sul tema, ma è evidente che la separazione dell’amore dalla generazione si rivela sempre più nella sua problematicità. Se continua l’inverno demografico alcune società sono destinate a scomparire. Credo che l’importanza dell’atto generativo biologico debba ritrovare il suo spazio culturale e politico nella società contemporanea. Un continente biologicamente sterile difficilmente è capace di guardare con fiducia il futuro.

A questa prima considerazione se ne aggiunge un’altra che riguarda l’infragilirsi – sino all’interrompersi – dei legami tra le diverse generazioni. In tale prospettiva il senso del “generare” non viene ristretto unicamente ad una questione biologica, ossia ‘fare figli’, ma è molto di più. Generare significa anche prendersi la responsabilità delle relazioni che debbono essere appunto “generate”, realizzate. La difficoltà dei rapporti tra le generazioni è una questione che agita le società da qualche decennio. Oggi si è fatta più pressante perché per la prima volta nella storia convivono in uno stesso orizzonte temporale quattro generazioni. Ma appaiono slegate tra loro. E va recuperato il legame tra di esse. In passato la responsabilità intergenerazionale era più evidente. Oggi, si è appannata. E ce n’è ancor più bisogno. Le nostre società, infatti, soffrono per plurime lacerazioni sia all’interno delle singole generazioni – faccio un solo esempio: siamo tutti molto più connessi: ma non per questo più solidali – o più fraterni – a dispetto dell’apparente prossimità. Ed è sempre più problematica la trasmissione di valori e di senso da una generazione all’altra. Anzi, sembra allargarsi il fossato.

 Dalla produzione alla generazione

Negli ultimi due secoli ci siamo concentrati in modo particolare sulla dimensione strumentale, raggiungendo una serie di risultati straordinari: la rivoluzione scientifica, in combinazione con quella industriale, ha cambiato la vita delle persone, gettando anche le basi per lo sviluppo della democrazia. Un assetto istituzionale che, nonostante tutti i suoi difetti, continua ad essere uno strumento indispensabile. Nell’insieme si può dire che il paradigma che abbiamo seguito è stato quello della “produzione”: ossia, di una prassi che induce i soggetti a definirsi in funzione del possesso e del consumo di “cose”. Le ragioni storiche di questa linea di sviluppo sono comprensibili, certo: è anche chiaro, però, che abbiamo sviluppato soprattutto la nostra capacità di produrre beni materiali, con tutti i vantaggi e le distorsioni conseguenti.

In primo luogo il problema della sostenibilità. Il modello di vita occidentale, divenuto ormai riferimento mondiale, non è sostenibile su ampia scala – diciamo che, per paradosso, non è globalmente sostenibile – e ciò pone enormi questioni. Non solo perché gli squilibri ambientali provocheranno aggiustamenti di portata biblica (es. sulle migrazioni), ma anche perché la scarsità di risorse rischia di diventare una causa di conflitto planetario per il controllo di materie prime, acqua, persino della produzione agricola (per effetto della desertificazione). La probabilità che tutto ciò abbia implicazioni molto negative sulla libertà di intere popolazioni del pianeta è assai elevata. In secondo luogo, l’avanzamento pervasivo della digitalizzazione delle funzioni decisionali rischia di creare un neo-taylorismo societario, mentre la progressiva integrazione del corpo umano nel processo di tecnicizzazione espone al rischio di una messa in produzione della vita in quanto tale, in tutti i suoi aspetti. Da sempre l’uomo è intervenuto per cercare di regolare la nascita e per combattere la morte. Ma, allo stesso tempo, è la prima volta che una società mira esplicitamente a modificare i caratteri stessi di questi due momenti decisivi della vita umana. Le motivazioni sono quelle che sappiamo: combattere le malattie e dare la possibilità a tutti di fare l’esperienza della genitorialità. Tuttavia ciò che viene spesso taciuto è che così facendo vengono messe a repentaglio le priorità di senso che definiscono i legami della vita umana in quanto umana.

Il tema di fondo è ancora quello del controllo: in una società in cui tutto deve essere monitorato e controllato, appare inammissibile che la nascita (e la morte) non siano anch’esse “prodotte” secondo criteri di funzionalità e ottimizzazione delle risorse e delle funzioni. Ciò spinge in una direzione ben precisa: associare al paradigma della produzione anche la nascita (e la morte). Secondo i critici, ciò causerà una deriva eugenetica basata su argomenti tecnici relativi all’efficienza del “prodotto”. Questi criteri non terranno conto di noi (e nemmeno della nostra presunta unicità): ci renderanno seriali, in anticipo sulla nostra stessa nascita. Purtroppo un simile scenario sembra avere le carte in regola per divenire una profezia che si auto-avvera: dato che l’abbiamo definita secondo parametri tecnici, la vita viene plasmata da questi stessi criteri. Per quanto non confermata ufficialmente, nel novembre del 2018 è stata data la notizia della nascita di due bambini geneticamente modificati per essere immuni dell’aids. Dunque un intervento preventivo che, per metterci al riparo da una contaminazione, manipola il dna personale. Una tale iniziativa mostra chiaramente il pericolo da cui ci dovremo difendere: finire assoggettati ad un criterio tecnico che pretende di definire la vita o, come già accade in Cina con la credit card che premia e punisce i comportamenti sociali di ogni singolo cittadino, finire nelle mani di un “grande fratello” che, mentre ci sorveglia, pretende di indicarci ciò che è buono e ciò che è invece dannoso per noi e per la nostra vita.

Voler bene è far essere

Riprendere a pensare il futuro vuol dire tornare all’amore che genera: “fare l’amore è far essere”. L’esempio più evidente – ma non esclusivo – di questa relazione sta nella gestazione del figlio nel grembo della madre e nella sua generazione. E’ tra i misteri più alti dell’umano eppure è davvero poca la consapevolezza della sua forza simbolica. Comprendere la forza di questa dimensione è decisivo. È un po’ come la potenza simbolica dei ritmi della terra, che il contadino sa e dei quali noi non sappiamo più niente e di cui il Vangelo invece dice: “che dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia” (Mc 4,27). C’è una forza generatrice immessa da Dio stesso nell’umano creato a sua immagine e somiglianza. L’uomo e la donna non sono una semplice replica del divino, non sono dei robot che ripetono meccanicamente un modello precostituito. In essi l’immagine di Dio significa la potenza dell’amore che genera una diversità irriducibile: alla quale spetta a noi di dare l’interpretazione corrispondente alla qualità personale di cui siamo investiti.

I cristiani stessi devono ritrovare il linguaggio adatto alla testimonianza e all’intelligenza di questa singolarità dell’umano, nel contesto della pressione di conformità che vuole eliminarne le variabili decisionali e le modulazioni affettive. Nel credo cristiano la prima parola che definisce Dio è, appunto la parola “generazione”: “Dio” è rivelato e appreso dall’Unigenito. Nel seno della Trinità la generazione è decisiva per la comprensione dell’intimità divina, anche per rapporto alla differenza personale: il Padre non sarà mai il Figlio e il Figlio non sarà mai il Padre. Il rapporto tra le tre persone diviene non è di semplice contiguità ma, appunto, iscritto nella generazione del Figlio e nell’amore dello Spirito. I padri del concilio di Nicea cambiarono la referenza semantica della lingua greca per arrivare a questo, e dissero “generato, non fatto”. Per la cultura greca del tempo “generato” e “fatto” erano la stessa cosa, riferendosi alla dimensione umana (“creata”). L’intelligenza della fede della Chiesa ha come scorporato il senso del “generato”: il Figlio eterno non è “fatto”, ossia “creato”: ma l’essere-generato gli appartiene, ne dice la verità. Da allora in avanti è cambiato il linguaggio. “Generato” rimane anche se non è prodotto, anche se non è creato, anche se non è fatto. Generato – per la fede cristiana – ha un significato assoluto. Il referente è la generazione eterna del Figlio. Quando diciamo che Dio è amore, ci dovremmo ricordare che lo è perché da sempre è generazione. L’amore è tale se esce da sé, generando. Dio, nelle scritture bibliche, apre un cammino di rivelazione della propria intimità e del proprio rapporto con la creatura che approda a questa decisiva illuminazione. Dio è “unico”, ma non è mai stato “solitario”. Non c’è perfezione del concetto d’amore senza generazione. L’amore deve ripetere la generazione, deve concorrere a definirla: e in tal modo si definisce, al riparo da ogni autoreferenzialità. Altrimenti si corrompe e ci corrompe. Il senso dell’amore è generazione, non solo la sua conseguenza. Il cristianesimo deve parlare del fatto che anche il nostro essere venuti al mondo ha una destinazione. E il suo compimento dipende proprio dal fatto che noi abbiamo onorato – non importa se in maniere imperfetta e piena di limiti – la dimensione fondamentale dell’amore e del voler bene, che è la generazione, cioè il dedicarci a onorare la destinazione.

Riscoprire l’amore come generazione è decisivo per questo nostro tempo. La generatività è fondativa. E può – anzi deve – essere intesa in senso ampio: da quello della madre che genera dei figli, a tutte le altre dimensioni generative, da quelle artistiche a quelle affettive a quelle che portano sviluppo in tutti i campi della vita. Si tratta di riconoscere appieno che lo scopo della nostra libertà è quello di agire in pienezza.

Questo amore – ad immagine di Dio – non è l’amore romantico, l’amour-passion. Nella nostra cultura, il nome dell’amore si è molto annacquato, ridotto al circolo sentimentale romantico. La conseguenza sta dentro la celebre metafora coniata da Zygmunt Bauman: la “liquidità” nella quale vive la società contemporanea. Oggi l’amore si forma e scioglie con la stessa facilità, aderisce a qualsiasi oggetto godibile e se ne ritrae non appena un altro attira il suo desiderio: ha rapporto solo col proprio incanto e col proprio godimento, senza riferimento alcuno alla generazione e alla comunità. Per la fede cristiana il paradigma dell’amore cristiano è quello di Gesù. Un amore così straordinario, così oltre l’amore umano, che gli autori del Nuovo Testamento quando dovettero parlarne furono costretti a trovare un termine nuovo, agape, appunto, una parola praticamente non usata dalla cultura greca che preferiva eros e philia. Con questo termine agape, il Nuovo Testamento introduce una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell’altro (philia), ma un amore, appena concepibile dagli uomini, che trova il suo modello culminante appunto nel compimento della nascita dell’altro e nel riscatto della morte dell’altro. L’amore che appare in Gesù: riflesso dell’Unigenito che diventa Primogenito di molti fratelli, principio del riscatto che si compie mediante lo Spirito che risuscita i morti. Un amore disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire – ed è il meno che si possa dire – anche oltre ogni reciprocità interessata e anche di fronte alla mancanza di interesse per la reciprocità. E’ un amore che fa essere, che genera. Un amore che attraversa, purifica e riscatta i difetti e gli eccessi di eros e di philia, restituendoli alla loro perfezione e alla loro destinazione. Per questo è superiore a tutto, anche alla fede. Paolo, con un incredibile capovolgimento, ma cogliendo in profondità le parole di Gesù, osa dire: “Se avessi tutta la fede tanto da poter trasportare i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla” (1Cor 13, 1). Tutto passerà, anche la fede e la speranza. Scrive ancora Paolo: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1Cor 13, 13). Al termine resterà solo l’amore che ci aprirà definitivamente gli occhi alla visione di Dio, ch’è “agape”.

L’amore del prossimo, nell’interpretazione di Gesù, è dotato di una assolutezza che nessun’altra figura dell’amore possiede. Le diverse forme dell’amore vi partecipano, nel registro di eros come in quello di philia, nella misura in cui si dispongono ad interpretarne in questa chiave la loro destinazione ultima.

Il fondamento dell’amore del prossimo è il dono dell’amore stesso di Dio che si riversa sulla sua creatura per destinarla alla pienezza della vita. La partecipazione all’amore di Dio porta l’amore del prossimo alla stessa altezza dell’amore che deve essere rivolto a Dio. L’indissolubile unità dei due comandamenti è il cuore stesso del cristianesimo, è il suo incomparabile tesoro che deve testimoniare al mondo. Certo, ci domandiamo se i cristiani sono all’altezza di questo dono. Ma ci è stato rivelato che, nonostante la nostra fragilità, l’amore-agape si realizza quando non siamo ripiegati su noi stessi, in quel triste circolo narcisista e al fine nichilista, ma sappiamo generare una prossimità concreta a chi ha bisogno, a chi chiede aiuto, a chi ha bisogno di essere accolto e amato.

(testo integrale dell’intervento al festival Filosofi lungo l’Oglio – 11 luglio 2019)