Dopo pandemia, fraternità unico futuro possibile
Fabio Colagrande – Città del Vaticano
La pandemia ci ha mostrato la nostra fragilità come individui. Anche la società, le strutture e le sovrastrutture che abbiamo creato per difendere la nostra vita, con tutti suoi privilegi, sono risultati vulnerabili. Secondo l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, l’unica risposta possibile, guardando al futuro, è quella costruita sulla fraternità e sulla solidarietà, intesi non come valori cristiani, ma fondamenta sulle quali poggia la sopravvivenza dell’umanità. Il presule ne parla nel saggio, appena pubblicato, “Pandemia e fraternità. La forza dei legami umani riapre il futuro”, (Piemme-Molecole). Il testo, a partire da una recente Nota della stessa Accademia, vuole aprire una discussione etica e culturale sul dopo-pandemia e sui criteri di una ripartenza. Concetti centrali sono la “globalizzazione della fraternità” e la diffusione dell’“antivirus della solidarietà”, come spiega lo stesso presidente del dicastero per la Vita ai microfoni di Radio Vaticana Italia:
R.- Quando Papa Francesco nella preghiera del 27 marzo ha detto che stavamo tutti andando a velocità supersonica, pensando di essere sani in un mondo malato, ci ha ricordato che in realtà non eravamo sani. C’era fra di noi un virus, prima del coronavirus, che io chiamerei il virus dell’individualismo e della solitudine conseguente che in realtà aveva già indebolito radicalmente la nostra società. In fondo il coronavirus ha fatto emergere, esplodere, quella fragilità insita nella natura di ognuno di noi che però noi non vogliamo vedere, né tantomeno considerare. In questo senso c’è una intelligenza da usare in questo momento. Il coronavirus è una molecola, neppure vivente, un parassita che in un batter d’occhio ha messo in ginocchio tutti e tutto, dimostrando che se la fragilità non viene riconosciuta alla fine ne subiamo le conseguenze. Se l’orgoglio onnipotente di ognuno di noi continua a guidare le nostre scelte, a guidare il senso stesso della vita, alla fine è ovvio che i frutti sono quelli che abbiamo visto. Direi quindi che questa pandemia ci mostra la verità di quello che noi siamo. E in questo senso allora il bisogno di gridare aiuto, il bisogno di sostenerci gli uni gli altri, di dire basta a ogni individualismo, sovranismo, ad ogni autodeterminazione, è finalmente sotto gli occhi di tutti. Non possiamo più continuare come abbiamo fatto fino ad ora.
Lei invoca una visione bioetica globale. Cosa significa?
R. – Quando guardiamo alla nostra vita, al nostro mondo, al senso delle nostre giornate, dobbiamo tener conto che siamo legati gli uni agli altri. Ogni nostra singola azione non è mai solo nostra, ma è sempre anche degli altri, nel bene e nel male. Ecco perché tutte le scelte – politiche, economiche, sociali e individuali – se non tengono conto di una visione universale del bene comune o meglio della fraternità, rischiano di provocare solo danni. La fraternità è un termine che io credo debba coinvolgere in maniera radicale tutte le nostre scelte. Una fraternità tra i popoli, all’interno delle realtà associative delle città, la fraternità tra l’uomo e il creato, la fraternità come riscoperta del destino comune di tutti. Attuare una bioetica globale è come recuperare il sogno di Dio all’inizio della creazione. Tutto il creato è la casa comune degli uomini. L’alleanza dell’uomo e della donna deve essere responsabile di tutte le generazioni e deve essere responsabile della custodia di questa casa. Tutto questo è stato trascurato. Uno di motivi della pandemia è secondo molti la devastazione del clima. Le morti degli anziani nelle Rsa sono una delle conseguenze della devastazione dei rapporti tra le generazioni. Abbiamo allungato la vita, cosa eccellente, ma poi abbiamo depositato in luoghi di ‘fine vita’ coloro ai quali abbiamo fatto questo dono, raddoppiando in qualche modo la crudeltà.
Lei dedica ampio spazio in questo volume anche a quella che potremmo chiamare una guarigione spirituale e commenta quattro salmi: il 13, il 22, il 130 e il 143. Perché?
R.- Credo che questo momento di massima fragilità possa essere rappresentato con l’immagine del grido di Gesù sulla croce, che incarna tutti i popoli di tutti i tempi. È un’immagine che rappresenta una preghiera, una richiesta di aiuto. La stessa che Papa Francesco ha espresso il 27 marzo nella Piazza San Pietro vuota, mostrando il grido dell’uomo verso Dio. In questo senso la tradizione ebraico-cristiana ci ha lasciato un patrimonio di invocazione straordinario che in questo tempo riacquista una grande potenza. Ecco perché ho voluto citare in questa riflessione quattro salmi di invocazione, anche drammatica, perché il mondo intero ha bisogno di questo. A me ha fatto impressione che la trasmissione televisiva di quella preghiera del Papa, quel venerdì sera, sia stata vista da milioni e milioni di italiani, di cui certamente molti non sono credenti né cattolici. Il Libro dei Salmi, con le sue invocazioni a Dio, può essere un vademecum importante perché raccoglie le nostre paure le nostre sofferenze, il nostro grido, le nostre speranze, le nostre angosce. A me è rimasto sempre impresso quello che mi raccontava il mio carissimo amico Elio Toaff , rabbino di Roma. Mi diceva che fin da quando era ragazzo il padre gli aveva consigliato di portarsi sempre dietro il Libro dei Salmi. Gli aveva spiegato che lì è come racchiusa tutta la vita e i Salmi ti aiutano ad affrontarla. Toaff mi raccontava che quando fu catturato e stava per essere fucilato, chiese alle guardie se prima di morire potesse recitare un salmo. Si appartò a pregare e miracolosamente uno dei soldati lo invitò a scappare. Con questo episodio esprimeva la sua profonda religiosità, la convinzione che Dio ti aiuta davvero nella vita. Ma io credo che il Libro dei Salmi in questo tempo possa essere davvero un vademecum straordinario anche per chi non crede.