Convegno su “Pace, giustizia, perdono”

Convegno su "Pace, giustizia, perdono"

Giustizia e perdono, pilastri della pace
 


Il tema di questo incontro se per un verso ha una valenza perenne – quando infatti nel corso della storia non si è sentito il bisogno di pace, di giustizia e di perdono? – per altro verso, in questo momento storico, ha assunto una tonalità del tutto nuova. C’è da dire anzitutto che i tre termini, o meglio le tre realtà a cui essi rimandano, sono messe a dura prova all’inizio di questo millennio. E’ messa a dura prova la pace, particolarmente dopo gli attentati dell’11 settembre: c’è chi dice che sia iniziata la terza guerra mondiale. E’ messa a dura prova la giustizia; e, in verità, questo accade da vari decenni e su scala planetaria. E il perdono non solo è raro nel mondo contemporaneo; soprattutto viene sempre più delegittimato dalla cultura dominante. Ha fatto bene pertanto Giovanni Paolo II a stringere in unità questi tre termini, queste tre dimensioni del convivere umano, appunto, pace giustizia perdono, nel messaggio per la Giornata Mondiale della pace del 2002, come a dire che esse “simul stabunt, simul cadent”. Non c’è pace senza giustizia, e non c’è neppure giustizia senza perdono.


Lascerò al prof. Francesco D’Agostino le riflessioni sugli aspetti più specificatamente giuridici di questo plesso di temi. Per parte mia cercherò di legarmi al testo papale che mi pare particolarmente degno di attenzione. Giovanni Paolo II inizia il suo messaggio richiamandosi ai tragici fatti dell’11 settembre del 2001. La sua lettura non si ferma alla superficie, seppure tragica. Li colloca nel profondo della vicenda umana, in quel “mysterium iniquitatis” che continua a travagliare la storia degli uomini e che tuttavia non potrà prevalere sull’opera redentrice di Cristo. Il papa ricorda la forza della speranza anche in un momento drammatico come questo.


E’ suggestivo il richiamo personale all’inizio del testo: “Quanto è recentemente avvenuto, con i terribili fatti di sangue appena ricordati, mi ha stimolato a riprendere una riflessione che spesso sgorga dal profondo del mio cuore, al ricordo di eventi storici che hanno segnato la mia vita, specialmente negli anni della mia giovinezza. Le immani sofferenze dei popoli e dei singoli, tra i quali anche non pochi miei amici e conoscenti, causate dai totalitarismi nazista e comunista, hanno sempre interpellato il mio animo e stimolato la mia preghiera”.


E a questo punto Giovanni Paolo II esplicita i suoi interrogativi, che sono anche quelli di questo nostro incontro: “Molte volte mi sono soffermato a riflettere sulla domanda: qual è la via che porta al pieno ristabilimento dell’ordine morale e sociale così barbaramente violato? La convinzione, a cui sono giunto ragionando e confrontandomi con la Rivelazione biblica, è che non si ristabilisce appieno l’ordine infranto, se non coniugando fra loro giustizia e perdono. I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell’amore che è il perdono”(2).


Si potrebbe dire che il papa entrata subito in medias res. Egli sa bene che le sue riflessioni rischiano di apparire “inattuali” rispetto alla cultura dominante. Infatti, si chiede subito: “Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni della pace?” Insomma, come parlare di perdono di fronte a quanto è accaduto? Come, di fronte alla violenza che sta invadendo il mondo, pensare ad un atteggiamento di perdono? Il papa è però deciso nel dire: “Si può e si deve”. E di fronte ai tanti maestri che si battono contro i cosiddetti “buonisti”, o “perdonisti”, o “anime belle”, i quali parlando di perdono non solo sbaglierebbero ma si farebbero complici della violenza, ebbene di fronte a questi nuovi “soloni” il papa chiarisce che si può e si deve parlare di perdono perché il perdono si oppone al rancore e alla vendetta non alla giustizia. E ricorda a tutti che la vera pace è frutto della giustizia, non certo della violenza e della sopraffazione e tanto meno della vendetta. Tale affermazione, piena di sapienza umana oltre che religiosa, manifesta l’indispensabilità del perdono nella vita umana.


 


Il perdono


 


Il perdono è una forza che spinge la storia verso la stabilità e la pace, quindi l’esatto contrario dello scontro ch’è principio di instabilità e di guerra. E’ vero che il perdono non sembra far più parte del bagaglio culturale delle società occidentali. Non c’è rimedio per chi sbaglia. Anzi: chi sbaglia paga. Di qui l’impulso a difendere se stessi in ogni modo e a nascondere ogni proprio errore, fino a negarne l’evidenza. E tuttavia – è questa la tesi del papa – l’esercizio del perdono, quindi sia chiederlo che concederlo, è parte essenziale di una società degna di questo nome. Non è questione unicamente di sfera religiosa, ma anche di quella semplicemente naturale, se così posso dire. Solo una società manichea, ossia una società che divide il mondo tra malvagi e buoni, non concepisce il perdono. Ovviamente, chi concepisce in tal modo il mondo mette se stesso sempre dalla parte buona. L’altra parte è occupata dai nemici i quali sono da abbattere e da distruggere. Si potrebbe continuare a lungo questa analisi e descrivere gli innumerevoli meccanismi che ne derivano. Ne accenno ad uno solo: la creazione dei “mostri”, fatta normalmente attraverso i mass media, per avere il via libera al loro linciaggio. Questa operazione, piuttosto comune in quest’epoca di globalizzazione, diviene tragica se il “mostro” è inserito nello schema dello “scontro di civiltà”. In questa prospettiva ogni atteggiamento distruttivo può venire legittimato da chi detiene gli strumenti di comunicazione.


Ma l’affermarsi della cultura del nemico come mezzo ordinario delle relazioni internazionali non estirpa il male. Certo elimina i “condannati”, ma non porta né giustizia né pace. Anche perché sappiamo bene che la cattiveria è radicata nel cuore di tutti gli uomini, anche di quelli che si mettono dalla parte giusta. L’uomo non è mai interamente buono o interamente malvagio. La linea di separazione tra il bene dal male non passa fuori, non passa tra le civiltà, tra i popoli, tra le culture, ma dentro il cuore di ogni uomo. Dimenticarlo significa non capire la necessità della comprensione e del perdono per la stessa sopravvivenza umana. Insomma, non considerare le proprie debolezze e la propria cattiveria spinge a rinchiudersi nelle proprie ragioni senza alcun esame critico e a lanciare le pietre dell’accusa contro gli altri.


E’ emblematico l’episodio evangelico dell’adultera, narrato da Giovanni. In molti avevano trascinato questa donna davanti a Gesù per lapidarla, secondo il dettame della legge. Insomma, era giusto condannarla. Gesù chinò la faccia a terra e si mise a scrivere sulla sabbia. Quindi, senza guardare i volti di quegli uomini, disse loro: “chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”. Tutti, nota l’evangelista, iniziando dai più vecchi, se ne andarono. La scena, tuttavia, non finisce qui. Gesù perdonò quella donna ma pretese che cambiasse vita. Il perdono, non è perdonismo (brutta parola e malamente usata!), ed è ben lontano da un atteggiamento permissivo.


Al contrario, il perdono richiede un cambiamento profondo. Direi, anzi, che il perdono esiste solo in una prospettiva alta e ambiziosa. Il perdono non è mai una questione banale. E’ una dimensione interiore profonda che richiede una sapienza umana e religiosa straordinarie. E’ l’unico modo per salvarci e non distruggerci a vicenda. Nella Chiesa, la libertà di confessare i propri peccati, è tra quelle più strenuamente difese. Il sacerdote in nessun caso può rivelare il segreto confessionale, costasse anche la morte. La libertà della “confessio peccati” è tra le più alte libertà, e per i cristiani deve essere un esercizio quotidiano. Sanno, infatti, di non essere perfetti, anzi di essere tutti peccatori, bisognosi di chiedere perdono ogni giorno, come pure di concederlo. La grandezza del cristiano sta nel chiedere perdono a Dio ogni giorno e nel concederlo a chi lo chiede. E’ una prospettiva assolutamente dirompente perché permette di intraprendere nuovamente il cammino.


In tale orizzonte si inserisce la decisione del papa di chiedere perdono per le colpe anche passate. Non mi dilungo su questo tema che tante discussioni ha sollevato anche all’interno della stessa Chiesa. E non c’è dubbio che si tratti di un tema delicato che va ben compreso per evitare false interpretazioni. L’intento del papa nel chiedere perdono delle colpe passate conteneva in verità l’urgenza di “ripartire dal Vangelo”, ossia di affermare nell’oggi l’impercorribilità di percorsi non evangelici. Il perdono comporta un ritorno alle sorgenti della propria fede per poter riproporne nell’oggi la forza originaria. La purificazione della memoria non è perciò un esercizio ideologico, è soprattutto un invito ad essere più evangelici, più credenti. Se questo è vero per i cristiani, lo deve essere anche per gli altri credenti come pure per ogni uomo di buona volontà. Il processo del perdono, seppure non rientra nell’itinerario dei codici giuridici, deve tuttavia trovare uno spazio nell’architettura dei rapporti tra gli uomini. Ma non vado oltre su questo campo, e mi fermo ad accennare ad un aspetto che riguarda il rapporto tra perdono e giustizia.


 


La giustizia
 


Il papa, all’inizio del suo testo, come a chiarire immediatamente il suo pensiero, afferma: “Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale e internazionale”(3). Il papa ribadisce che non non solo non c’è opposizione tra perdono e giustizia; c’è anzi una necessaria relazione. Già gli antichi in verità affermavano: “Summum jus, summa iniura”. Ma qui i due termini, perdono e giustizia, vanno compresi nel loro senso più profondo che va ben oltre quello del codice civile o del codice penale. Si tratta di cogliere cioè la profonda e complessa rete delle relazioni che si stabiliscono tra gli uomini: la giustizia  è una dimensione della convivenza umana che va oltre una fragile e temporanea cessazione delle ostilità per significare, invece, il risanamento, che avviene appunto anche attraverso il perdono, delle ferite che dividono e insanguinano i popoli e le persone. Insomma, per sanare in profondità le ferite della convivenza tra gli uomini, sono indispensabili sia la giustizia che il perdono. E’ esemplare quanto è accaduto ad esempio in Sud Africa dopo la cessazione dell’apartheid per evitare vendette e ritorsioni tra individui, famiglie, gruppi. Si costituì una apposita commissione che accogliesse le confessioni dei responsabili dei crimini in cambio del perdono. L’esperienza è narrata da Desmond Tutu nel volume “Non c’è futuro senza perdono”. Si trattava di sanare in profondità le colpe attraverso l’ammissione della colpa. C’era una pensiero dietro tale iniziativa. Scrive Tutu: “Noi siamo intessuti in una fitta rete di interdipendenze: come diciamo con un’espressione africana, una persona è persona attraverso le altre. Disumanizzare l’altro significa inevitabilmente disumanizzare se stessi… Perciò perdonare è davvero il modo migliore per fare l’interesse di ognuno, mentre la rabbia, il rancore e la vendetta sono corrosivi, distruggono il summum bonum, il più alto dei beni: quell’armonia collettiva che all’interno della comunità accresce l’umanità e la fratellanza di tutti i suoi membri” (33). Potremmo dire che in Sud Africa si realizzò un processo di giustizia attraverso la confessio peccati e il successivo perdono. E’ ovvio notare che si trattava di un procedimento particolare per una situazione del tutto congiunturale. Non di  meno ha manifestato quel particolare rapporto che si può e si deve instaurare tra perdono e giustizia.


Scrive ancora il papa: “Le famiglie, i gruppi, gli Stati, la stessa Comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale”(9). Sono parole certamente coraggiose e piene di sapienza evangelica. Ma, come prima accennavo, esse indicano anche l’unica via percorribile per una pace stabile e duratura. Del resto è facile capire che se la soluzione delle ferite viene affidata alla vendetta, ossia al pareggio della bilancia, ci si immette in una spirale drammatica che continuerà ininterrottamente ad approfondire le ferite non certo a sanarle.


Giovanni Paolo II esplicita una delle spirali viziose di questo atteggiamento: “Il perdono mancato, quando alimenta la continuazione dei conflitti, ha costi enormi per lo sviluppo dei popoli. Le risorse vengono impiegate per sostenere la corsa agli armamenti, le spese delle guerre, le conseguenze delle ritorsioni economiche. Vengono così a mancare le disponibilità finanziarie per produrre sviluppo, pace e giustizia”(9). E, sconsolato, aggiunge: “Quanti dolori soffre l’umanità per non sapersi riconciliare, quali ritardi subisce per non saper perdonare! La pace è la condizione dello sviluppo, ma una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono” (9).


Questo messaggio del papa avviene dopo l’11 Settembre. Il crollo delle due torri di New York resta tragicamente emblematico della fragilità della convivenza tra gli uomini. C’è chi fa iniziare il millennio proprio in quel giorno. Ed è iniziato davvero male. Si continua a dire che il mondo si trova in guerra, anche se si tratta di una guerra molto diversa da quelle passate. Si parla di nuovi e terribili attacchi di tipo terroristico mentre finita una guerra se ne sta preparando un’altra. Si introducono nuove regole sulla base della lotta al terrorismo, si decidono alleanze a inimicizie, si stabiliscono nuovi moduli di comportamento anche in maniera unilaterale a motivo della prevenzione a possibili attacchi, e così via. Non c’è dubbio che il diritto internazionale viene messo a dura prova, anzi ci si chiede cosa più possa significare lo “stato di diritto”. E quando un presidente, parlo di Bush, parla di “giustizia infinita” per indicare una guerra senza tregua, si opera una tale identificazione tra guerra e giustizia da far tremare i polsi.


L’11 settembre non ha solo mutato il concetto di guerra, ha anche inciso sui tratti comportamentali dell’umanità: tutti siamo più incerti, insicuri sulla vita, preoccupati della sicurezza, ansiosi sui pericoli che il domani potrà riservare. Il mondo di oggi appare davvero più insicuro di ieri. E poi c’è odio in giro; c’è rabbia in tanti luoghi; ci sono poteri oscuri; ci sono disegni di violenza e di terrorismo. E c’è tanta gente che può sfruttare il dolore e la rabbia di tanti. E’ senza dubbio urgente combattere e sradicare il terrorismo perché non colpisca più. Non c’è dubbio su questo. L’emergenza terrorismo spinge tutti a ripiegarsi ancor più su di sé e al proprio presente.


Nel frattempo si moltiplicano individualismi irresponsabili, tribalismi difensivi e fondamentalismi pericolosi. La stessa globalizzazione, assieme al progresso, ha portato anche paure e divisioni. C’è gente che si sente aggredita di fronte a nuovi vicini (pensate alla legge sugli stranieri approvata in Italia!) oppure si sente spaesata di fronte a un mondo divenuto troppo grande. Eravamo già entrati nel nuovo millennio senza grandi sogni e senza grandi utopie. La caduta delle ideologie e una omologazione generale avevano come abbassato e ridotto gli orizzonti della vita. La lotta al terrorismo e l’esasperato ripiegamento su di sé, porta a dimenticare i gravissimi squilibri sociali, economici, culturali e politici che lacerano la vita del pianeta. Pensate solo al conflitto isarelo-palestinese di fronte al quale tutti siamo impotenti e rassegnati. Ovviamente non è una fatalità, è una scelta ben precisa. Come è ben precisa la scelta della rassegnazione di fronte ai milioni di persone che continuano a morire di fame, di fronte alla crescita della disparità tra il Nord ricco del mondo e il Sud povero, di fronte alle masse di profughi che continuano a lasciare le loro terre a motivo della guerra e della fame, di fronte alla piaga dell’AIDS che sta distruggendo paesi interi, di fronte alla emarginazione di milioni di poveri nei paesi occidentali, di fronte ai pregiudizi verso gli zingari e alla solitudine degli anziani, e così via. Questa enorme situazione di ingiustizia che si aggrava sempre più è destinata ad esplodere, se non viene sanata in radice. Ed è miope la posizione dell’Occidente ricco di rinchiudersi in difesa contro il resto del mondo pensando di sopravvivere. Com’è possibile anche solo pensare alla pace se non si sana tale situazione?


E’ singolare la posizione di Wolfensonn, presidente della Banca Mondiale per il quale il risanamento della povertà dei paesi poveri è divenuto parte integrante dello stesso processo di accumulazione della ricchezza. La solidarietà, pertanto, e quindi una tensione verso la crescita del benessere di tutti, fa parte integrante dello stesso sistema capitalistico, se così posso dire. Nel suo ultimo volume, “Stare nel mondo”, Salvatore Natoli fa notare l’importanza della solidarietà per la costruzione di una società giusta e pacifica. De resto questo discorso era stato teorizzato dall’utilitarismo classico dell’Ottocento. Jeremy Bentham e John Stuart Mill, utilitaristi democratici, sostenevano che ognuno dovesse pervenire al suo utile, ma ritenevano che quanto fosse tanto più possibile se tra i fattori di utilità si introduceva anche il benessere collettivo. Del resto la stessa borghesia ottocentesca si era posto il problema della povertà, se non per la sua eliminazione almeno per il suo attutimento. In ogni caso è benvenuto l’impegno a far crescere l’economia dei paesi poveri. E qualcuno inizia a parlare anche della compassione come dimensione della politica. E’ quanto afferma, ad esempio, Del Debbio  nel suo volume sulla globalizzazione. Scrive: “Perché non usare le espressioni “solidarietà” o “giustizia sociale”? O altre di pari valoro? Perché la compassione non riguarda il dover essere dell’uomo, ma l’essere stesso dell’uomo; non rimanda, cioè, primariamente, a una scelta morale, ma rimanda a una condizione esistenziale: l’humana conditio, che è, al contempo, una communis conditio…Ed è proprio l’esperienza crescente della globalizzazione, della interdipendenza degli individui, delle diverse famiglie umane e culturali che rende questa parola dal sapore antico più che mai attuale. Facciamo esperienza della com-passione ogni giorno, il com-patire è uno dei risultati della globalizzazione informativa” (179-180).


 


Riconciliazione e pace


 


In un mondo diviso e lacerato, in un mondo ove è raro il perdono, in un mondo che rischia di non sapere più cosa significhi giustizia, gli uomini e le donne, credenti e non credenti, laici e religiosi, sono tutti chiamati ad una sorta di rivolta spirituale. Sappiamo le tensioni presenti oggi nel mondo, e i numerosi conflitti anche armati, per difendere ciascuno la propria identità. Ebbene c’è bisogno di porsi come forza di riconciliazione. Non discuto sulla necessità della lotta al terrorismo, e il papa nella sua lettera lo dice chiaramente. Ma resta il problema dei problemi, ossia la convivenza tra popoli diversi. Immaginando la sconfitta del terrorismo, dobbiamo costruire comunque un futuro comune tra popoli, tra culture, tra civiltà, tra religioni diverse. La domanda che ne consegue è tra le più complesse: come è possibile convivere tra persone e popoli diversi per fede, per storia, per cultura? E’ una questione che traversa la geopolitica e la politica nazionale, i comportamenti civili e quelli religiosi.


E riguarda anzitutto il cambiamento interiore delle persone, sia della coscienza che dei valori di riferimento. Non si tratta di perdere o di attutire la propria identità scivolando verso una improbabile, e neppure auspicabile, omogeneizzazione. Semmai, il problema è come conservare le diverse identità senza che si pongano l’una contro l’altra, l’una nemica dell’altra. Insomma, si deve comporre la particolarità e l’universalità. E’ ciò che possiamo chiamare l’arte del convivere tra diversi, che appare, peraltro, una sfida obbligata.


La globalizzazione del mercato, della tecnica, delle comunicazioni rende impensabile e impossibile oggi ogni separazione. In passato si poteva vivere separati (penso all’Europa del “cuius regio eius religio”; si trattava allora della separazione tra cattolici e protestanti). Oggi questo è impossibile. L’ordine del mondo uscito dalla seconda guerra mondiale (quello che, nella sua drammaticità, ha comunque accompagnato gli ultimi cinquanta anni del Novecento con la divisione del mondo in due blocchi), non è più proponibile, anche se lo volessimo. Non resta altro che incamminarci verso un mondo in cui i diversi sappiano convivere.


Ed è qui che bisogna concentrare i nostri sforzi: si tratta di ri-apprendere e ri-praticare l’arte del convivere (per secoli è stata possibile). E come ogni arte, anche questa richiede disciplina interiore, conoscenza e comprensione reciproca, superamento di pregiudizi e ricerca di valori condivisi. In tale orizzonte si staglia il messaggio di Woitjla per la giornata mondiale della pace cui abbiamo accennato: non c’è pace senza giustizia; non c’è giustizia senza perdono.


C’è una convinzione che sta al fondo della speranza che muove le parole del papa: nel cuore dei popoli (e, a maggior ragione, delle religioni) ci sono energie positive per la convivenza, assieme anche a forze cieche e violente. Non a caso Giovanni Paolo II continua a riproporre lo “spirito di Assisi” e il dialogo come una frontiera imprescindibile. Le religioni sono chiamate a lottare contro le forze cieche e violente che abitano nel cuore degli uomini e che possono annidarsi anche nelle pieghe della religiosità e a sprigionare dalle loro radici le energie di amore, di comprensione, di solidarietà che sono in esse presenti. L’arte del convivere, l’arte del dialogo deve essere la via maestra che le religioni, le culture, o meglio gli uomini e le donne di religione e di buona volontà debbono apprendere e praticare.


Atenagora, un credente, nato in quel crogiuolo di popoli ch’è la terra balcanica, vissuto negli Usa e poi eletto patriarca ecumenico a Istanbul, diceva: “Tutti i popoli sono buoni. Ognuno merita rispetto e ammirazione. Ho visto soffrire gli uomini. Tutti hanno bisogno di amore, se sono cattivi è forse perché non hanno incontrato il vero amore…So pure che esistono forze demoniache e oscure, che a volte si impossessano degli uomini e dei popoli, ma l’amore di Gesù è più forte dell’inferno”.


La fede deve diventare cultura di riconciliazione e di dialogo, ossia un modo di vedere largo, un modo di amare senza confini, un modo di vivere che non riduce le cose ai nostri schemi, che non restringe il mondo alle nostre abitudini mentali. Ognuno deve aprire le finestre della propria mente e allargare le pareti del proprio cuore. E’ facile, molto facile, essere sensibili solo a quello che ci sta vicino, a quello che ci tocca e ci commuove; e ignorare ciò che sta lontano da noi. L’amore è anche un cuore ospitale a ciò che non ci tocca direttamente. Parafrasando una frase di Gesù potremmo dire: “Che merito avete se conoscete solo quello che vi tocca?” L’ignoranza è funzionale all’egoismo. E nell’ignoranza appassiscono l’amore, la generosità, l’audacia, la passione. La forza dell’amore spinge ad uscire da sé per recarsi nei cuori degli altri al fine di creare una cultura d’amore, una civiltà dell’amore. La forza della riconciliazione è una energia concreta che fa superare ogni ripiegamento su di sé e aiuta ad alzare il proprio sguardo e la propria azione verso l’universalità della famiglia umana. Dopo l’11 settembre il mondo ha bisogno di più giustizia e di più perdono, o, se si vuole, di più ragione e di più fede. E’ un’alleanza che può vedere laici e credenti operare assieme per una convivenza di pace.