Convegno nazionale medici – Dichiarazioni anticipate di volontà

Convegno nazionale medici - Dichiarazioni anticipate di volontà

Sono lieto di porgere il mio saluto al vostro convegno nazionale su un tema particolarmente delicato come quello delle “Dichiarazioni anticipate di volontà”. Si tratta di un tema che incrocia questioni centrali per l’uomo, quali sono appunto la sua vita e la sua morte. E le soluzioni da individuare non possono essere di ordine puramente “tecnico” appunto perché riguardano il senso stesso della vita. Per questo è indispensabile che la riflessione proceda con ponderatezza e attenzione, senza lasciarsi prendere dalla fretta tipica delle emergenze ma anche senza indugiare oltre nell’omettere risposte che il legislatore non può più esimersi dal fornire. La fretta, sempre cattiva consigliera, lo è ancor più quando si tratta di legiferare non per un singolo caso o per un momento, ma per una prospettiva di lungo periodo che tocca le fondamenta stessa dell’esistenza. Non c’è dubbio, dunque, che il confronto debba essere ampio e responsabile sino a far maturare soluzioni quanto più possibile condivise.

Nel porgere il mio saluto – vista la delicatezza del tema – mi permetto di offrire un piccolo, brevissimo, personale contributo. E parto dalla esigenza di evitare, in questo campo delle Dichiarazioni anticipate di volontà, la doppia “onnipotenza”, quella del medico, da una parte, che spinge a non tenere in nessun conto la posizione del malato come poteva accadere in passato; e l’onnipotenza del malato, dall’altra, che ridurrebbe il medico ad un mero esecutore della volontà del paziente o di chi da lui riceve l’incarico di rappresentarlo. A me pare che si debba ricercare una “virtuosa alleanza” tra il medico e il paziente; un’alleanza che è decisiva in ogni momento della vita e ovviamente ancor più in situazioni liminari come quella di cui dibattiamo. In questa “virtuosa alleanza” è possibile individuare una via che sia davvero “umana” ed assieme efficace per affrontare situazioni complesse a variegate.

Non entro nella disputa giuridica circa il valore di una volontà espressa “ora per allora”. Non pochi giuristi sottolineano la pericolosità dell’accoglimento di tale percorso. La modesta, anche se non breve, esperienza di vicinanza a non pochi casi di malati terminali che mi è capitata di vivere, mi spinge a ricordare che il problema che oggi abbiamo in Italia – un problema davvero grave anche per la sua ampiezza – più che quello dell’accanimento terapeutico è piuttosto l’abbandono sociale e terapeutico di migliaia di persone che vivono in condizioni liminari. L’abbandono, insieme con l’eutanasia, porta a segnare una sorta di implicito rifiuto della persona malata, vista come un costo economico e un peso esistenziale. Voi tutti comprendete le conseguenza disastrose di un simile atteggiamento per la concezione dell’esistenza che sarebbe inoculata anche alle giovani generazioni.

Mi pare invece decisivo sottolineare – e voi ce lo insegnate in maniera inequivocabile – quanto sia determinante la vicinanza fisica, l’accompagnamento effettivo ed affettivo dei malati, di tutti i malati, e ancor più di coloro che vivono situazioni estreme. La cura, intesa non solo come terapia, richiede anche il diritto dei malati di essere accuditi e il dovere del medico e della stessa società di accudire i più deboli. In tal senso la distinzione tra vite degne e non degne di essere vissute è da considerarsi arbitraria e pericolosa, non potendo la dignità essere attribuita, in modo variabile, in base alle condizione di esistenza, come lo stesso Comitato Nazionale per la Bioetica afferma. La non piccola esperienza di vita mi fa dire, con una convinzione esperienziale ancor prima che teorica, che è la solitudine la vera tragedia a cui si deve porre rimedio e non solo nei casi limite. Anche da sani infatti la solitudine è drammatica e tutti voi ne conoscete le tragiche conseguenze.

Non mi dilungo su questo e chiudo questo mio breve saluto con un cenno alla questione del dolore perché mi pare che costituisca l’orizzonte nel quale si inscrivono tante scelte anche in questo campo. Tutti conosciamo – e voi in maniera del tutto particolare – la paura di soffrire. E proprio questa paura sta alla radice di tante decisioni. Sono convinto che su questo punto è indispensabile una riflessione più attenta e puntuale. Mi auguro che la ricerca su questo tema si intensifichi, scandagliando il tema nei suoi diversi aspetti. La lotta al dolore, da perseguire con decisione, è un dovere ineludibile della società, in tutte le sue articolazioni. Non c’è dubbio che le cure lenitive – non penso solo a quelle palliative – debbono essere messe in atto e sostenute con maggiore impegno sia da parte della ricerca scientifica che della politica sanitaria.

Cari amici medici, molte sono le questioni che siete chiamati ad affrontare in questo vostro convegno, e non tutte semplici, come appare anche dal programma. Resta comunque una iniziativa quanto mai opportuna. Anzi sarebbe necessario un coinvolgimento ben più ampio anche a livello popolare. Solo una crescita adeguata delle questioni relative a questo tema permette di superare sia l’ignoranza che non pochi pregiudizi e quindi legiferare in maniera certamente più adeguata, senza la fretta dell’emergenza, ma senza sottrarsi al compito di fornire risposte ormai non più procrastinabili. Permettetemi, pertanto, di salutarvi con quella sensibilità che ad un cristiano viene suggerita dagli stessi Vangeli verso i medici. Tra le prime indicazioni per definire Gesù vi è quella appunto di “medico” buono che cura e guarisce gli uomini e le donne sia nel corpo che nello spirito. Per questo – guardando con rispetto e venerazione il vostro impegno in favore dell’umanità sofferente – non posso non esservi accanto con partecipazione e augurarvi con tutto il cuore buon lavoro, anche per questo vostro convegno.