Attività di cura del medico ed etica religiosa
Il tema generale del convegno e quello, più ristretto, che mi è stato affidato, “Attività di cura del medico ed etica religiosa”, è difficile costringerlo nei confini della pura scienza medica o della stessa etica sanitaria. Sappiamo, infatti, i pericoli che comporta una scienza che sia regola assoluta sulla vitae sul senso di essa. La dittatura della tecnica, fosse anche di quella giuridica, è foriera di disastri incalcolabili. Già negli anni Trenta del Novecento il filosofo tedesco M. Heidegger, di fronte al prevalere assoluto della tecnica, affermava: “Ormai solo un dio ci può salvare!” E non intendeva fare un’affermazione religiosa. Voleva solo mostrare la tragedia di un mondo in balia di una cultura della tecnica. L’uomo stesso ne sarebbe stato travolto, divenendo non più soggetto ma oggetto schiavo di tecniche e di arbitri. E’ un tema che, seppure a cicli alterni, è spesso tornato sulla scena della cultura del Novecento. Penso ad Habermas che ha messo in guardia la scienza medica dai rischi di una genetica liberale che ridurrebbe la vita umana e l’uomo a puro mercato; o a Paul Virilio che si scaglia contro un fondamentalismo tecnoscientifico che trasformerebbe la realtà in telerealtà, come lui dice, e la democrazia in una telecrazia per cittadini infantilizzati. E’ quel che ribadisce lo storico giapponese Francis Fukuiama dopo il suo volume su “La fine della storia”. Egli avverte il pericolo di una dittatura della rivoluzione biotecnologia, che avverrà se non ci sarà una decisa svolta etica: porterebbe non alla fine della storia ma alla “fine dell’uomo”.
Ecco perché la cultura contemporanea, caratterizzata dal prevalere della tecnica, è giustamente tormentata dai problemi etici. A quelli provocati dalla rivoluzione biotecnologia, appena accennati, si possono aggiungere anche quelli legati all’ecologia. E in quest’ultimo campo sono state importanti le riflessioni del filosofo H. Jonas con il deciso e forte richiamo all’etica della responsabilità. Di fronte alla complessità e alla drammaticità di questi problemi sembra peraltro che non sia sufficiente il solo richiamo all’etica. Non pochi filosofi, anche non credenti, penso ad esempio a Luc Ferry, attuale ministro dell’educazione in Francia, parlano della necessità della dimensione “religiosa”, sebbene non trascendente, per superare le pericolose ristrettezze sul senso dell’uomo e della vita. Insomma, non basta la sola etica, non sono sufficienti solo le leggi e i regolamenti. C’è bisogno di un “oltre”, di un “di più”. Ferry chiama questo “oltre” il bisogno di religiosità, senza però che questa comporti la trascendenza. Si potrebbe dire che si pone sulla soglia del mistero. Non mi dilungo su questo argomento di grande interesse ed attualità, anche nel versante della ricerca medica. Ma anche volendo restare al tema della “cura” del malato dobbiamo, a mio avviso, inoltrarci nel campo fecondo che è stato qui indicato come “etica religiosa”. Non intendo però esaminare in dettaglio questo tema per declinare gli impegni del medico nella sua azione di cura. Vorrei piuttosto delineare l’orizzonte nel quale si colloca la relazione tra l’uomo e la malattia, tra la cura e la guarigione, tra il malato e il medico. Questo orizzonte posso chiamarlo religioso nel senso che è l’oltre di Dio. In tale prospettiva colloco però non solo il credente ma anche chi credente non è. E’ infatti un orizzonte largo che accoglie le prospettive della salvezza stessa dell’uomo.
Gesù guarisce
Il punto di partenza di questa breve riflessione lo colloco nella Scrittura, ove la domanda di guarigione contiene la dimensione più ampia della salvezza. Faccio un esempio per spiegarmi. Quando Ezechia, re di Giuda, cadde malato, si rivolse al Signore dicendo: “Guariscimi e rendimi la vita”(Is 38,16). In questa invocazione non vi è solo la richiesta di essere guarito dalla malattia, ma anche di “ricevere la vita”, ossia di essere “salvato”; potremmo tradurre: “Fammi durare, fammi vivere, fammi star bene per sempre”. Sarebbe lungo sviluppare questa riflessione nell’intero contesto scritturistico. Mi fermo ad esemplificarlo attraverso qualche cenno all’opera di Gesù. Quel che appare immediatamente, appena si aprono i Vangeli, è l’incredibile spazio dedicato all’azione del profeta di Nazaret verso i malati. Gli evangelisti fanno addirittura iniziare a Gesù la vita pubblica con la sua opera di cura dei malati. E non si tratta di un primum solo nell’ordine temporale; la cura dei malati è una dimensione centrale nella missione di Gesù. E non si parla semplicemente di cura dei malati, ma di guarigione dalla malattia. E’ vero che i due termini, curare e guarire, possono essere interscambiabili; c’è però una sfumatura diversa. La guarigione, infatti, eccede la cura. Gesù che guarisce vuol dire che ridona la salute in senso pieno ai malati. Va, altresì, notato che il termine cura (in greco, therapeuo) significa anche servizio, darsi pensiero, prendersi cura. I due termini, insomma, anche se diversi, sono ambedue pieni di senso. Il lessico biblico si arricchisce poi anche con l’altro termine, “sanare”.
Su 53 miracoli riportati dai Vangeli, ben 30 sono miracoli di guarigione. Questo sta a dire l’importanza che esse hanno nella narrazione evangelica. E Gesù non solo ne è ben cosciente, ne fa addirittura la ragione della sua incarnazione. Rispondendo ai discepoli del Battista che gli chiedevano se fosse lui il Messia, Gesù disse loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella. E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!” (Lc 7, 22-23).
La guarigione dalla malattia è una costante insopprimibile nella vita di Gesù, tanto che fa parte di uno dei due poli nei quali viene sintetizzata la sua missione. Scrive Matteo: “Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità.”(Mt 4,23). L’evangelista continua: “La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a Lui tutti i malati tormentati da varie malattie, indemoniati, epilettici, paralitici, ed Egli li guariva.”(4, 24-25). Ed è bella la scena descritta da Luca: “Al calar del sole, quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva” (Lc 4,40). Anche Marco scrive: “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era radunata davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni”(Mc 1, 32-34). Nella redarre del terzo Vangelo, Luca, che Paolo chiama Luca “medico caro”(Col 4,14), da molto spazio all’azione di guarigione di Gesù: più di un quarto dei primi dieci capitoli (120 versetti su 425).
Ma cosa significava quest’opera di Gesù? Perché gli evangelisti la sottolineano in modo così ampio? La ragione è detta chiaramente: la guarigione dei malati manifestava l’intervento diretto di Dio nella storia degli uomini. Con le guarigioni, Gesù sottraeva il corpo, la vita, il cuore, la psiche degli uomini al potere del male. Era pertanto un’opera che mostrava la vicinanza forte ed efficace di Dio. L’azione taumaturgica di Gesù si differenziava di molto da quella dei normali guaritori dell’epoca, perché si inseriva nella tradizione biblica che presentava Dio stesso come guaritore e salvatore del suo popolo Sebbene sia presente una sola volta nell’Antico Testamento l’affermazione di Dio come medico: “Io sono Jhwh, colui che ti guarisce”(Es 15, 26), si legge nel libro dell’Esodo, tuttavia, quest’affermazione più che un punto di partenza è un punto di arrivo della riflessione del popolo d’Israele sul Signore che si prende cura della sua salute. Si potrebbe, ad esempio, parlare di un vero e proprio “salterio dei malati” se si raccolgono le preghiere, le invocazioni, e anche le proteste, che il salmista rivolge a Dio durante la malattia. E il Signore viene sempre a visitare il suo popolo e a guarirlo. Su questo sfondo si innesta l’attesa della liberazione dalle malattie per il tempo messianico.
Il potere dei discepoli
Anche i discepoli sono chiamati a compiere le stesse opere del loro Maestro: “Egli diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità”. E poco più avanti: “predicate che il Regno di Dio é vicino, guarite gli infermi, resuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni”. La missione dei discepoli deve modellarsi su quella di Gesù: annunciare il Vangelo e guarire dalle malattie. La guarigione pertanto non è un’azione laterale all’annuncio, è il segno concreto e visibile che il Regno di Dio è iniziato. Ecco perché Gesù insiste: “Guarite, resuscitate, sanate, cacciate gli spiriti immondi!” Era necessario che i discepoli continuassero la sua stessa opera; anzi, che la ingrandissero: “In verità, in verità vi dico, anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi”. Queste parole esprimono chiaramente il potere dato ai discepoli.
Le guarigioni (sia di Gesù che dei discepoli) manifestano la liberazione dal potere del male. La malattia, in effetti, non è un bene. E Gesù non può non combatterla. Egli, come Messia, annuncia un nuovo tempo in cui anche le malattie sono sconfitte per instaurare un tempo di salute e di pace. I discepoli, da parte loro, sono chiamati a continuare l’opera del Maestro, ad allargarla nel tempo e nello spazio. Pietro, nella casa di Cornelio, parlò di Gesù in questa prospettiva: “Dio consacrò in Spirito e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con Lui”. Gesù, quindi, “passava beneficando e risanando”. Non guariva per stupire, ma per ridare salute. Non guariva per mostrare la sua potenza agli increduli, ma per salvare. Una volta lo dice con grande chiarezza: “Non sono venuto per i sani, ma per i malati”. Mai nei Vangeli si parla di rassegnazione alla malattia; e mai Gesù ha accettato le spiegazioni correnti sul legame diretto tra malattia e peccato personale. Al contrario, egli passava beneficando e sanando tutti mostrando così che era iniziato sulla terra il regno di Dio.
In tale contesto, emerge nei Vangeli uno stretto legame tra salute del corpo e salute spirituale. Gesù, potremmo dire in modo sintetico, guarisce e perdona. E’ a dire che a lui interessa l’uomo intero, non una sua parte, non un organo, non un aspetto, ma l’uomo nella sua integralità. L’episodio del paralitico portato davanti a lui mentre era in casa a Cafarnao è esemplare. Quando Gesù vide davanti a sé l’uomo paralitico che gli era stato calato dal tetto, gli disse: “Coraggio, figliolo, ti sono rimessi tutti i tuoi peccati”. “Costui bestemmia!”, pensarono i farisei. E Gesù: “Che cosa é dunque più facile dire: ‘ti sono rimessi i tuoi peccati o alzati e cammina?’. Ora perché sappiate che il Figlio dell’Uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati, ‘Alzati!’, disse al paralitico: prendi il tuo letto e vattene a casa tua!” Questa pagina evangelica richiama il salmo 102: “Dio perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie, salva dalla fossa la tua vita”. In un certo senso, si potrebbe dire che se uno non crede che le malattie possono essere guarite, non crede nemmeno che i peccati possono essere rimessi. Gesù guarisce e perdona; è il medico buono, come canta la liturgia di S. Giovanni Crisostomo dopo l’invito del diacono a inchinare il capo davanti al Signore: “Tu, dunque, o Sovrano, rendi piane le vie di noi tutti per il nostro bene e secondo il bisogno di ciascuno. Naviga con i naviganti, a chi viaggia accompagnati nel cammino, guarisci i malati, medico delle nostre anime e dei nostri corpi”.
La comunità cristiana e il malato
Ecco perché il rapporto tra Chiesa e malattia, tra Comunità cristiana e guarigione è non solo strettissimo, ma essenziale. Si potrebbe dire che Chiesa e Medicina hanno lo stesso scopo: guarire i malati. Quindi, non solo curarli, anche guarirli, e fino in fondo. Ecco perché la Chiesa deve essere concreta come concreta è la medicina. Ed è per questo che le comunità cristiane, fin dall’antichità, non hanno esitato a chiamare Gesù “medico dei cristiani” e la Chiesa “vera e propria clinica”. E’ nota l’espressione di Ireneo: “Il Signore è venuto come medico di coloro che sono malati”. E Origene insegnava: “Sappi vedere (nei Vangeli) che Gesù guarisce ogni debolezza e malattia non solo in quel tempo in cui queste guarigioni avvenivano secondo la carne, ma ancora oggi guarisce; sappi vedere che non è disceso solo tra gli uomini di allora, ma che ancora oggi discende ed è presente. Ecco, infatti, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo”. Potremmo continuare a lungo in citazioni di questo genere, da quella della Liturgia di San Marco: “Signore…Medico delle anime e dei corpi, visitaci e guariscici”, a un’antica iscrizione cristiana: “Ti prego, Signore, vieni in mio aiuto, tu solo medico”.
Questo non significava disprezzo per la medicina. E’ vero esattamente il contrario. Non si comprenderebbe la storia della medicina e dell’assistenza ai malati, senza la storia della Chiesa. Ma per la comunità cristiana la cura della malattia non è mai stata senza l’utopia della guarigione e senza la speranza della salvezza piena. Ecco perché la stessa preghiera ha sempre accompagnato la cura del malato, senza peraltro disprezzare il medico, cosa già chiara nel libro del Siracide: “Onora il medico, come si deve secondo il bisogno, anche egli é creato dal Signore. Da Dio viene la guarigione, la scienza del medico lo fa procedere a testa alta. Il Signore ha creato i medicamenti della terra, e l’uomo assennato non li disprezza. Dio ha dato agli uomini la scienza, perché potessero gloriarsi. Con essa il medico cura ed elimina il dolore, e il farmacista prepara le miscele, non verranno meno le sue opere, da lui proviene il benessere sulla terra. Figlio, non avvilirti nella malattia, ma prega il Signore ed Egli ti guarirà. Offri incenso, e un memoriale di fior di farina e sacrifici pingui, secondo le tue responsabilità. Poi fai passare il medico, perché il Signore ha creato anche lui, che non stia lontano da te. Ci sono casi in cui il successo è nelle loro mani, anch’essi pregano il Signore perché li guidi felicemente ad alleviare la malattia e a risanarla, perché il malato ritorni alla vita”(Sir 38, 1-14).
Non posso dilungarmi su questo, ma la stessa Chiesa può essere compresa come luogo di cura e guarigione. Alcuni Padri dell’Oriente cristiano, mentre definiscono, come ho accennato, la Chiesa vera e propria “clinica”, parlano dei Sacramenti come di medicine efficaci. E’ ovvio che tutto ciò è comprensibile all’interno di quella prospettiva che vede l’uomo nella sua interezza, in tutte le sue dimensioni, corporali, psichiche e spirituali. Dio è venuto a salvare l’uomo nella sua totalità. Tale concezione rimanda all’idea della malattia, sia fisica che psichica, presente nella Scrittura. Nel linguaggio biblico la malattia è la manifestazione della debolezza dell’uomo, della sua finitezza radicale: l’uomo è fatto di polvere (come dice la Genesi), o è un “vaso di creta” (come scrive Paolo). Il malato fa emergere quella debolezza che ci riguarda tutti. “La malattia – scrive il cardinale Martini – è parte della vita… Non è un incidente, ma la rivelazione della condizione normale di limite insita in ogni soddisfazione umana, è qualcosa che mi definisce nel mio essere fragile, debole, incerto, mancante. Rivela chiaramente ciò che è nascosto in me anche quando sto bene. E la temo, la malattia, perché non voglio che emerga la verità della mia limitatezza, della mia povertà”. La malattia non è perciò un semplice fatto biologico: è la metafora della vita. Essa si accompagna anche al dolore e alla sofferenza. Un mistero che accompagna inesorabilmente la nostra esistenza. Possiamo e dobbiamo combatterlo. Eliminarlo? Non credo possiamo riuscirci. Accompagnarlo? Questo sì! Dio stesso che non ci protegge da ogni dolore, ci sostiene sempre però in ogni dolore. La compagnia amorevole è la prima, grande, essenziale cura per il malato. La salvezza che Dio è venuto a portare, infatti, consiste nell’essere strappati da questo destino di debolezza per essere accolti nella comunità di coloro che sono sulla via della guarigione. La malattia non è un problema solo di medicina: è una domanda di aiuto, di amore, perché si intensifichi la vita attorno a chi la sente ferita e indebolita. E’ importante far emergere questa dimensione terapeutica della comunità cristiana e del medico, soprattutto in una società come quella attuale che, con i suoi squilibri sociali e i suoi processi di emarginazione, aggrava la già connaturale debolezza. La risposta radicale alla malattia è l’amore che salva.
La medicina dell’amore
In questo contesto, ossia nell’orizzonte dell’amore, va inserita l’opera del medico e di chiunque avvicina il malato. L’etica del medico, ma anche di chiunque avvicina il malato, non può ridursi all’espletazione delle capacità tecniche, e neppure alla semplice osservanza delle regole deontologiche che tuttavia sono un passo determinante. L’etica “religiosa”, intesa come orizzonte di amore, comporta un coinvolgimento profondo del medico con la persona del malato, a partire dalla coscienza della comune debolezza. Certo, ci si deve interrogare su cosa sia la qualità della vita. Ma dobbiamo ricordarci che senza l’orizzonte dell’amore anche questo obiettivo è sfocato. I malati – nell’orizzonte dell’amore – vanno perciò sentiti come la parte privilegiata su cui riversare non solo le proprie capacità di ordine tecnico-scientifico ma l’amore e la passione per la loro guarigione. Troppo spesso il medico, l’infermiere, il sacerdote, i parenti, stanno in piedi di fronte al malato, fieri della loro salute, ma estranei alla loro debolezza. Questa lontananza è percepita di chi sta male, eppure, sono anch’essi deboli e bisognosi di aiuto.
A mio avviso, alla necessaria professionalità scientifica è necessario auspicare un’audacia maggiore nell’amare. Purtroppo, questa dimensione sembra attutita nella vita della società contemporanea. E con tristezza debbo dire che anche nelle comunità cristiane si riscontra talora freddezza. Eppure, se penso alla storia della Chiesa, la vedo piena di santi taumaturghi. Per quel che mi concerne è urgente, anche nella Chiesa, recuperare una spiritualità della guarigione, un impegno a sperare e ad operare perché gli uomini guariscano nel corpo e nello spirito. E i miracoli sono possibili. Non si tratta di scivolare sul piano della magia, perché il miracolo si connette sempre ad una particolare santità, ossia ad una energia di amore che viene dall’alto. Cipriano di Cartagine assegna alla santificazione personale anche un’efficacia taumaturgica: “Quando saremo casti e puri, modesti nelle nostre azioni, frenati nelle nostre parole, potremo guarire anche i malati”. Ricordo anche i santi Cosma e Damiano, martiri del terzo secolo. Essi si trovano raffigurati a Roma, nella omonima Basilica, vestiti con le vesti bianche, come i medici, accanto a Cristo vestito di bianco. La tradizione dice che questi due medici andavano al capezzale dei malati e, prima di informarsi sulla loro salute, pregavano. Solo dopo si informavano sulla loro salute e decidevano la cura. I loro miracoli erano come un misto di fede e di cure. La guarigione é sempre un insieme di amore e di cure. Perché, malgrado l’imperante mentalità razionalista, c’è un’enorme domanda di guarigione? Quanta gente va alla ricerca di pratiche magiche, occulte, miracolistiche, astrologiche! Quest’affannosa ricerca di protezione, di sicurezza e di guarigione non è altro che una grande domanda d’amore. Ecco perché dovrebbero aprirsi più facilmente le porte dei nostri cuori verso i malati. Se c’è l’amore anche se il corpo non guarisce, lo spirito ritorna più vigoroso.
E’ bella questa testimonianza di Ennio Flaiano, un “laico” che, nel 1942, ebbe una figlia, Luisa, malata di un’encefalopatia epilettoide. Curata amorevolmente dai suoi, Luisa, morì nel 1992. Questo scrittore abruzzese aveva pensato negli anni Sessanta ad un film-romanzo di cui è rimasto un’abbozzo. In esso si immagina il ritorno di Gesù sulla terra, infastidito da giornalisti e fotoreporter ma attento solo ai malati. Scrive, ad un certo punto, Flaiano: “un uomo condusse a Gesù la figlia malata e gli disse: io non voglio che tu la guarisca ma che tu la ami. Gesù baciò quella ragazza e disse: In verità, quest’uomo ha chiesto ciò che veramente io posso dare. Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando la folla a commentare i suoi miracoli e i giornalisti a descriverli”. Quali i confini etici nella cura? Sono poco esperto in materia per addentrami. Una cosa so per certo però: non si possono mettere confini all’amore. Certo, ciascuno lo deve declinare dentro la propria vita e il proprio servizio. E quindi il medico, assieme alla conoscenza scientifica, deve lasciarsi coinvolgere dall’amore: sa bene che non si trova davanti ad un caso, ma ad uomo, o meglio a un fratello. Il primato dell’amore per l’uomo è la regola che il medico deve avere nella sua opera di cura. E’ sul fondamento dell’uomo, inteso come un fratello da amare sino in fondo, che si deve costruire l’impianto etico anche nel campo medico. Ha ragione perciò Giovanni Paolo II quando afferma che la scienza medica è “una forma sublime di servizio all’uomo”. E’ in questa prospettiva di servizio e di amore che si deve collocare la questione etica della cura del medico. Ed è una prospettiva così larga da accogliere credenti e laici e ogni uomo di buona volontà. Quello dell’amore, non è però un orizzonte scontato. Per nessuno. Esso va scelto ogni giorno e perseguito con tenacia. Ma è l’unica ragione per cui vale davvero la pena vivere e guarire.