Vincent Lambert, nel dramma il conflitto non aiuta

Venerdì 28 giugno la Corte di Cassazione francese si è pronunciata contro il divieto di sospendere alimentazione e idratazione artificiali a Vincent Lambert. Un divieto deliberato dalla Corte d’Appello in seguito alla richiesta del Comitato internazionale dei diritti delle persone portatrici di handicap (Cidph) dell’Onu, interpellato dagli avvocati dei genitori del paziente. L’affannoso rincorrersi di ripetuti ordini e contrordini da parte autorevoli assise giuridiche indica con chiarezza la difficoltà della situazione. Il dramma di Vincent Lambert ha assunto una risonanza mediatica e una portata simbolica che supera la singolarità della sua situazione. Si intrecciano molteplici piani: familiare, medico, giuridico, politico, comunicativo. Tutto ciò rende molto delicata l’elaborazione di un giudizio etico, anche perché le informazioni cliniche sono assai complesse e non direttamente accessibili in tutti i loro dettagli.

I VESCOVI FRANCESI

Dal canto suo, la Conferenza episcopale francese ha sottolineato di non avere la competenza per esprimersi sul caso specifico, evitando di sostituirsi alla coscienza di coloro cui spetta la decisione, ma fornendo piuttosto il proprio contributo per istruire il cammino che conduce al giudizio. Si è pertanto limitata ad alcune considerazioni generali, senza la pretesa di entrare nella valutazione del caso concreto, anche per l’impossibilità di disporre di tutta l’informazione necessaria. Il doloroso conflitto familiare circa l’ipotesi di sospendere alimentazione e idratazione artificiali, essendo precluso l’accesso alla volontà del paziente – elemento indispensabile per la valutazione della proporzionalità delle cure –, ha condotto a una situazione di stallo che dura ormai da anni. La questione etica si intreccia poi con la sfera giuridica. Il ricorso alle vie legali ha irrigidito ed esasperato il conflitto. Senza entrare nei tecnicismi della sentenza, possiamo dire che la Cassazione ha ritenuto la scelta della sospensione, a cui in medici erano giunti dopo una accurata valutazione collegiale, compatibile con la legge vigente in Francia. Ma in questa lunga e logorante polemica, la contrapposizione ha invaso la sfera pubblica, con ampie risonanze mediatiche, prendendo la fisionomia di una battaglia tra chi è favorevole e chi è contrario all’eutanasia. I vescovi hanno anzitutto riaffermato con chiarezza la negatività di questa pratica. Inoltre hanno richiamato l’importanza dell’attenzione al più debole per la costruzione della convivenza sociale. E hanno messo in luce la ricaduta che la scelta di interrompere il trattamento può avere su coloro che si trovano in analoghe situazioni (circa 1.700 persone in Francia), per le loro famiglie e per il personale sanitario. Una osservazione particolarmente pertinente.

TRA MEDICINA, DIRITTO E CULTURA

Del resto, anche altre recenti vicende, come quella di Alfie Evans in Inghilterra e di Noa Pathoven in Olanda, hanno profondamente turbato e diviso l’opinione pubblica oltre i confini dei rispettivi Paesi. Va sottolineato che si tratta di situazioni molto diverse e non comparabili, per motivi sia clinici sia esistenziali. Ma esse condividono alcuni tratti comuni. Da una parte, il fatto che sono in gioco decisioni che riguardano la vita e la morte, rendendo conflittuale la definizione di chi ha titolo per operare tali scelte: la persona malata, i familiari, i medici, i giudici. Dall’altra, i mezzi sempre più potenti di cui dispone la medicina, che sollevano con frequenza crescente l’interrogativo sulla limitazione dei trattamenti. Queste vicende ci richiedono quindi di precisare e di approfondire il ruolo e il senso delle cure mediche e dei criteri che presiedono al loro impiego. Papa Francesco ci ha peraltro ricordato che occorre evitare un indiscriminato prolungamento delle funzioni biologiche, perdendo di vista il bene integrale della persona (Discorso al Convegno sul suicidio assistito della Associazione medica mondiale, 16 novembre 2017Ž ). Davanti a queste drammatiche lacerazioni, si tratta di assumere anzitutto un atteggiamento di raccoglimento e di preghiera vicendevole, perché si possano trovare vie di comunicazione che favoriscano la riconciliazione più che la controversia, sul piano familiare e sociale. Dovremmo inoltre evitare di affidare la soluzione solo a un gesto tecnico o giuridico per cercare insieme un accordo più ampio possibile. È un cammino che richiede impegno non solo personale, ma anche collettivo, per elaborare quel senso della vita che la sofferenza mette in questione e per far fronte al limite radicale che la morte rappresenta. Si tratta di risvegliare le forze che la cultura ha sempre mobilitato nella storia dell’umanità, in tutte le sue espressioni simboliche, da quelle artistiche a quelle religiose, offrendo ragioni per vivere. Solo una più diffusa e profonda formazione delle coscienze potrà prepararci a decisioni così drammatiche e complesse. Nella consapevolezza che mai nessuno deve essere abbandonato. Sempre, invece, deve essere accompagnato dall’amore. Che sconfigge anche la morte”.