Romero, primo martire del Concilio

di Lucia Capuzzi

Durante la sua ultima visita a El Salvador, la gente gli si accalcava intorno: tutti volevano salutarlo, toccarlo e, soprattutto, dirgli il lorogracias. Era l’11 marzo e l’arcivescovo Vincenzo Paglia era volato nel Paese più piccolo dell’America Latina per annunciare, come postulatore presso la Congregazione delle cause dei santi, la data della beatificazione di Óscar Arnulfo Romero, arcivescovo martire di San Salvador, assassinato dagli squadroni della morte mentre celebrava la Messa il 24 marzo 1980. Quasi due mesi dopo, l’atteso giorno è arrivato. Il presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, dunque, è tornato nella nazione per la storica celebrazione, in programma domani, sabato 23 maggio.

Eccellenza, è emozionato?

Direi proprio… Monsignor Romero non ha terminato la Messa il fatidico 24 marzo di 35 anni fa. Anche il funerale è rimasto incompiuto a causa di un attentato. Il 23 maggio ci sarà la conclusione di quelle due Messe interrotte sulla terra, che troveranno il loro compimento nel cielo.

Con il riconoscimento del martirio in «odium fidei» di Romero, il 3 febbraio, il Vaticano ha, in qualche modo, “ampliato” il concetto stesso del termine: l’arcivescovo è stato ucciso da persone che si consideravano formalmente cristiane…

Il martirio di monsignor Romero è il compimento di una fede vissuta nella sua pienezza. Quella fede che emerge con forza nei testi del Concilio Vaticano II. In questo senso, possiamo dire che Romero è il primo martire del Concilio, il primo testimone di una Chiesa che si mescola con la storia del popolo con il quale vivere la speranza del Regno. Una speranza di giustizia, di amore, di pace. In tal senso Romero è un frutto bello del Concilio. Un frutto maturato attraverso l’esperienza della Chiesa latinoamericana che, tra le prime nel mondo, ha cercato di tradurre gli insegnamenti conciliari nella storia concreta del Continente, avendo il coraggio di formulare l’opzione preferenziale per i poveri e di testimoniare, in una realtà segnata da profonde ingiustizie, la via del dialogo e della pace. La Chiesa latinoamericana ha regalato al mondo grandi figure. Per questo mi procura una grande gioia l’inizio della causa di beatificazione di un altro salvadoregno e amico di Romero, padre Rutilio Grande, e del brasiliano Helder Câmara.

Romero martire del Regno e della sua giustizia…

La figura dell’arcivescovo, e in generale dei martiri, ci ricorda Gesù Buon Pastore che dà la vita per le sue pecore. In Romero tale somiglianza arriva fino al punto di ricordare la scansione temporale della vita di Cristo. Romero, come Gesù, ha vissuto gli ultimi tre anni del suo ministero predicando il Regno e stando vicino ai deboli e ai poveri. Come Gesù è giunto a offrire la sua vita sulla croce, così Romero è giunto a offrirla sin sull’altare. E, come il Signore, Romero ha avuto il cuore trafitto, nel suo caso da un pallottola.

L’annuncio della beatificazione, a marzo, è stato accolto con una travolgente esplosione di gioia dal popolo salvadoregno. Più volte hanno interrotto i suoi discorsi con grida di gioia e canti spontanei. Che cosa l’ha colpita in quell’occasione?

Mi ha profondamente commosso vedere i contadini salvadoregni recarsi ancora oggi sulla tomba del loro arcivescovo, nella cripta della Cattedrale, e parlare con lui come se fosse presente fisicamente. È stata bellissima l’ondata di entusiasmo generale dell’intero Paese. Romero sembra oggi unirli tutti.

Che cosa rappresenta per i salvadoregni la beatificazione di monsignor Romero?

Romero, come il Buon Pastore, non solo raduna le pecore, ma insegna loro ad abbandonare la violenza. Mi riferisco, in particolare, ai giovani delle maras (gang criminali attuali protagoniste dell’attuale mattanza, ndr) con cui l’arcivescovo, se esercitasse adesso il suo ministero episcopale, cercherebbe di trovare un canale di dialogo per convincerli ad abbandonare la violenza e a impegnarsi per una società più giusta e solidale.

(da Avvenire)