«La morte va accettata. Il caso di Welby? Io celebro i funerali a tutti»

di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO «Chiariamo una cosa: il rifiuto dell’accanimento terapeutico, e quindi la sospensione delle cure sproporzionate, è ormai una dottrina consolidata della Chiesa».

L’arcivescovo Vincenzo Paglia è presidente della pontificia Accademia per la vita, il testo del Papa era indirizzato a lui. «Su questi temi, da Pio XII alla Evangelium vitae di Giovanni Paolo II fino al Catechismo, non c’è documento papale che non lo abbia ricordato».

Però Francesco invita a considerare il «bene integrale della persona» e fa una notazione interessante: oggi lo sviluppo della tecnica permette di prolungare la vita in modi inimmaginabili anni fa e quindi occorre un «supplemento di saggezza». Distinguere tra accanimento e eutanasia è divenuto più complicato, no?

«Per questo il Papa parla di discernimento delle situazioni concrete. La novità del progresso tecnologico è evidente. Il rischio è che la medicina si trasformi solo in tecnica e alla fine la macchina diventi l’assoluto, sia quasi divinizzata».

Il filosofo cattolico Giovanni Reale disse allora che considerare eutanasia i casi di Eluana e Welby era un «errore ermeneutico». Oggi la Chiesa farebbe considerazioni diverse su queste vicende?

«Per dare un giudizio adeguato, i singoli casi vanno giudicati nel loro tempo e nella realtà concreta, non in astratto e a posteriori. Sono convinto che non si debba mai abbandonare nessuno, né prima né durante né dopo. Per questo, personalmente, celebro i funerali a tutti».

Ma che insegnamento si può trarre, da storie simili?

«Che bisogna evitare, tutti, di fare una battaglia ideologica in nome della verità. Talvolta prevale la rigidità astratta. La verità non è un randello».

Su Welby, in particolare, Giovanni Reale osservava che era «ostaggio di una macchina» e ammoniva: «Guai a trasferire la sacralità della vita ad una macchina!»

«Al di là del singolo caso, il punto è questo. La tecnica rischia di disumanizzare la morte come la vita. C’è chi ha definito la tecnica una nuova religione. Pensi alla ricerca sulla crioconservazione, il tentativo di sconfiggere la morte. Bisogna discernere. Ci muoviamo su un crinale molto delicato, che comporta anche l’accettazione del limite. La morte fa parte dell’esistenza. Può sembrare paradossale, ma è il senso del mistero dell’uomo che il Papa suggerisce».

Quando dj Fabo scelse di morire, lei parlò di «una sconfitta amara per tutti».

«Tra l’accettare la morte e il darsi la morte c’è una differenza abissale, radicale. In questo senso anche il suicidio assistito, uno dei temi del congresso, viene respinto con decisione. Francesco richiama l’immagine evangelica del Samaritano e perfino Kant, l’“imperativo categorico” di non abbandonare mai il malato. Anche il linguaggio è importante: espressioni come “staccare la spina” sono del tutto inadeguate. La cura continua anche se non si può guarire: le cure palliative sono fondamentali».

E l’autodeterminazione?

«Il Papa spiega che è anzitutto il paziente ad aver titolo di decidere, ma in dialogo con i medici. Nessuno è un’isola, ci sono anche i familiari, gli amici. Ci vuole un’alleanza terapeutica. Io preferisco chiamarla alleanza d’amore».

Francesco invita ad affrontare questi argomenti «con pacatezza» e cercare, anche nelle leggi, soluzioni «condivise»

«È un passaggio importante: proprio perché si parla di situazioni complesse, che non si possono affrontare in bianco e nero, è bene ci sia una discussione più ampia possibile anche all’interno della società civile e si ascoltino tutte le visioni, al di là delle battaglie e delle semplificazioni ideologiche. In Italia, ad esempio, è accaduto quando culture diverse hanno scritto assieme la Costituzione».

Ed ora, sul fine vita, lo stiamo facendo?

«Si è discusso, ma si potrebbe fare ancora meglio».

(Corriere della sera)