La fragilità umana come risorsa – Riscoprire il senso del limite di fronte alla sfida del dolore

La dignità della fragilità

Torno da Parigi dove ho partecipato al funerale di Jean Vanier, uno dei testimoni che ha mostrato la forza e la dignità della fragilità umana. E quindi una grande risorsa. Jean Vanier stesso ha percorso umilmente, nella sua conversione all’amore per i più vulnerabili, la strada – non subito facile – che ci conduce al cuore della fragilità: dove impariamo la ragione stessa dell’amore che ci tiene in vita e ci riporta alla vita. Scrive: “La fragilità sta là, al cuore del mondo. Si traduce talvolta nella paura, nell’insicurezza. Alle volte incontriamo delle fragilità che fanno molta paura […] Durante un viaggio a Calcutta mi hanno presentato un malato mentale che gridava di continuo. Gli infermieri lo evitavano un poco. Con il mio poco di esperienza sono andato verso di lui a mani aperte. E lui è venuto e ha messo le sue mani fra le mie. Si può vederlo con la Samaritana. Gesù ha toccato la sua anima perché aveva bisogno di lei (“Dammi da bere”). Quando si può cominciare una relazione avendo bisogno dell’altro, quello cambia. Se Gesù avesse cominciato a predicare quella sarebbe scappata. Invece è venuto umilmente dicendo: Ho bisogno di te”.

La fragilità, considerata generalmente come dannosa in quanto è una “ferita”, deve essere riscoperta nella sua profondità e anche nella sua forza. La fragilità, infatti, spinge l’uomo a chiedere ascolto, gentilezza, amore, compagnia. Mentre, l’autonomia e l’autosufficienza sognano un’impossibile salute piena. Ma una società di forti e di autosufficienti, che disprezza i deboli e vulnerabili, diviene crudele, disumana. Le persone consapevoli della loro fragilità sentono il bisogno degli altri, sanno invocare aiuto, sanno pregare, sanno suscitare una forza di solidarietà e ritessere perciò le lacerazioni. Potremmo dire che c’è un magistero della fragilità. In questo è una risorsa. Coloro che si credono forti, sono facilmente arroganti, litigiosi, sino ad essere dittatori sugli altri, soprattutto se deboli. L’apostolo Paolo ricorda anche a noi: “quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Nella debolezza dell’apostolo si manifesta la potenza di Dio.

La fragilità di chi si ammala aiuta chi si crede sano a scoprire i suoi limiti e il suo radicale bisogno di Dio e degli altri. Per una società più umana è decisivo scoprire che la fragilità è una delle strutture portanti della vita: la fragilità ci aiuta a considerare il valore della gentilezza e della mitezza, il valore dell’ascolto e dell’attenzione agli altri, ed anche la forza che deriva dall’essere in comunione con le sofferenze, con le attese e le speranze degli altri. Si crea una comunione straordinaria tra chi cura e chi è curato, tra chi assiste e chi è assistito. Sappiamo quanta sofferenza viene generata dalla malattia. E’ parte del mistero dell’esistenza umana. Ed è saggio cercare di ostacolare la sofferenza e il dolore, anche se sono ineliminabili dall’esistenza umana.

L’accompagnamento di chi soffre è un imperativo categorico del Vangelo. Dio stesso ce ne dà per primo l’esempio. Il mistero della incarnazione del Figlio è un crescendo della presenza di Dio che accompagna il cammino dell’uomo vulnerabile; da quando Dio si commosse per il suo popolo schiavo in Egitto sino alla pienezza della compassione che rese il Figlio nostro fratello: fino alla morte e “alla morte di croce” (Fil 2, 8). In questo passaggio, Gesù stesso conobbe gli avvilimenti del corpo e dell’anima procurati e aggravati dall’accanimento ostile dei propri simili. Non ne nascose l’angoscia, non ne trattenne il grido. Le Sacre Scritture non sono in alcun modo reticenti sulla immedesimazione di Gesù con la nostra stessa fragilità, tranne che nel peccato. E’ questo il “miracolo” della sua intercessione, la cui fedeltà è strettamente legata alla conoscenza “patita” della fragilità umana (Ebr 5, 7-10). Jean Vanier ha formulato il suo appello alla riscoperta ecclesiale di questo nucleo del mistero nel modo più vissuto e diretto: “La conoscenza – ha scritto -è un’esperienza di chi sei come uomo o come donna e conoscere Dio vuol dire avere una relazione con Lui. E scoprire che Dio è molto più vulnerabile di come pensiamo. Un Dio fragile! Molto fragile! E questa è una delle difficoltà della Chiesa. Si parla poco della vulnerabilità e della fragilità di Dio. […] Credo che Dio abbia una grande tenerezza, oso parlare al femminile di Dio”. Insomma, per conoscersi davvero, bisogna condividere il fondo della nostra fragilità. E allora la forza dell’amore trova la sua strada.

La compagnia di Dio non ci protegge da ogni dolore, sempre però ci sostiene in ogni dolore, e mai ci abbandona. Questa compagnia d’amore è la prima cura per il malato. La malattia – voi lo sapete bene per esperienza diretta – non è un problema solo di medicina: è anzitutto una domanda di aiuto, di amore, perché si intensifichi la vita attorno a chi la sente ferita e indebolita. Di qui l’importanza della cura, della relazione con i malati: la compagnia del medico, degli amici, della comunità cristiana hanno una forza terapeutica. E questo soprattutto in una società che, con i suoi squilibri sociali e i suoi processi di emarginazione, aggrava la già radicale debolezza di ogni persona. Come diceva sempre Jean Vanier, nella lingua ruvida e diretta dei grandi testimoni: “Si rifiutano i deboli, si vogliono scartare gli anziani, si vogliono eliminare i portatori di handicap, si vogliono scartare tutte le nostre fragilità. E come riusciremo ad aiutare le persone a ritrovare la dignità dell’essere umano?”

Le richieste di impiego della medicina nella linea del potenziamento (enhancement) mostrano qui tutta la loro ambiguità. Se esse conducono ad occultare il limite come luogo di relazione e di solidarietà non condurranno a nessun miglioramento della esistenza umana. Essa non trova infatti il proprio compimento nel rinforzare attività funzionali del corpo o nell’introdurne di nuove, ma nella capacità di rinvenire un senso globale della vita (in relazione con gli altri).

La sfida del dolore

La scienza ha compiuto passi enormi per attutire il dolore e la sofferenza. E, a mio avviso, si richiede un impegno ancor più vigoroso. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che voler anestetizzare la vita da ogni dolore, angoscia, preoccupazione e afflizione, ossia voler cancellare il limite dalla nostra esistenza, non è solo vano, è pericoloso e, infine, crudele. E’ la deriva del narcisismo teso unicamente al proprio benessere, alla propria armonia, alla propria tranquillità, allontanando ogni angoscia, preoccupazione e ferita. Triste, molto triste è la società narcisista. Oltre che priva di passioni: senza sdegno per il male che non cessa di produrre dolore e ingiustizie. Soffrire per il male, angosciarsi per le ingiustizie, è un patrimonio non solo da custodire, ma è da far crescere. Purtroppo, sembra prevalere sempre più quella indifferenza che papa Francesco non ha avuto timore a chiamarla diabolica. Essa rende ciechi e indifferenti. Se qualcuno in passato ha parlato di una società dalle passioni tristi, oggi ci son solo passioni deboli. La conseguenza è  l’inverno dell’amore. La beatitudine evangelica degli afflitti, riguarda non solo chi è afflitto dal dolore, ma anche chi deve affliggersi per il dolore altrui. Senza “compassione” – ossia senza un “patire-soffrire” assieme – la vita diviene crudele per tutti. C’è bisogno di un’ascesi che aiuti a stare accanto, a soffrire assieme, come anche a combattere la sofferenza sino ad eliminare il dolore. Questa è somma dignità.

Certo, la malattia e il dolore non sono da ricercarsi per loro stessi, come se fossero un valore. Gabriel Marcel, saggiamente, scriveva: “Io sono incline ad affermare che la sofferenza è un male, ma che l’anima umana, in certe condizioni, può liberamente, cioè con un atto libero, trasformare questo male non tanto in un bene, quanto piuttosto in un principio suscettibile di irradiare amore, speranza e carità. Questo implica che l’anima che si trova nel dolore si apra maggiormente agli altri invece di rinchiudersi su se stessa o sulla sua ferita”. L’apostolo Paolo, cantore dell’agape, ossia dell’amore che “tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”, a Timoteo, suo discepolo prediletto, scrive: “Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede” (2 Tim 4, 6-7).

La sofferenza può – deve – essere trasformata in un’occasione di crescita ancora più grande dell’amore. Non siamo invitati a rassegnarci al dolore – che va combattuto e curato – sappiamo però che ogni sua goccia è preziosa se vissuta nell’amore, in quell’amore che “tutto sopporta” e che non “avrà mai fine” (cfr. 1Cor 12, 7-8). Tale amore lo riceviamo da Dio stesso e, come i talenti della parabola, glielo restituiamo raddoppiato dalla fede che conserviamo anche nella sofferenza e nel dolore.

Certo, restano le domande: quali sono le parole della fede di fronte a chi soffre? Come accompagnare chi è in una condizione di gravissime sofferenze? Come stare accanto a chi continua a vivere ma in condizioni di terribile sofferenza e la morte è ormai alle porte, inesorabile? A mio avviso vanno evitate formule stereotipate, come anche affermazioni che invitano semplicemente alla rassegnazione o peggio a suggerire che sia Dio a inviare dolore e sofferenza. I Vangeli raccontano piuttosto che Dio sta accanto a chi soffre per combattere con lui la battaglia della vita contro il male e la morte. E sta vicino non in maniera esteriore e impassibile, ma come un Dio Crocifisso: “esperto” nel dolore, che porta “fuori” dal dolore, verso la risurrezione. Scriveva Paul Claudel: “Dio non è venuto per spiegare la sofferenza; è venuto per riempirla della sua presenza”. Questa è una delle ragioni che spiega perché i malati dotati di risorse spirituali riescono a far fronte alla malattia con maggiore forza. La fede, potremmo dire, è un presidio terapeutico per l’interezza della persona, ben determinata a sconfiggere – in ogni senso – l’insidiosa alleanza del dolore e della disperazione alla quale siamo così vulnerabili (e talora, per debolezza, anche religiosamente condiscendenti). La fede combatte questa alleanza, che il farmaco convenzionale non arriva a sconfiggere, attraverso un amore che non si lascia intimidire dalla sofferenza. E anche in essa, e fino alla morte, si dispone a rendere testimonianza al Dio della speranza e della vita.

 La sofferenza, nulla va perduto

L’esperienza del dolore e dell’angoscia – e, soprattutto, la consapevolezza della propria fragilità rispetto all’incombere di vicende personali e collettive dolorose o addirittura laceranti – è forse quella universalmente più condivisa. La malattia, metafora della vita stessa, manifesta la nostra radicale fragilità e il bisogno di essere accompagnati e, infine, salvati. Si tratta di una lezione decisiva in questo nostro tempo nel quale la cultura inclina verso il culto della salute, con l’illusione della onnipotenza sino ad azzardare l’immortalità. Siamo disposti a tutto pur di conseguire una salute piena. Si potrebbe dire: la salute a tutti i costi! Una sorta di nuovo imperativo che porta a inseguire persino l’improbabile mito di “morire in buona salute”. Viene però la malattia, inesorabilmente. Tutti, prima o poi, sperimentiamo l’indebolirsi del nostro corpo, scoprendo così l’ineliminabile limite che abita dentro la condizione umana.

E’ vero che la radice ultima della malattia e della morte si trova nel disordine immesso creato dal male che ha spinto l’uomo ad affermare se stesso, illudendo che sia signore del bene e del male (cfr. Gn 3,5). Ma questa affermazione non lega la causa della malattia alla persona che ne è colpita (a meno che qualcuno non se la procuri da se stesso). Gesù è molto chiaro a tale proposito quando risponde alla domanda dei suoi discepoli se la cecità del cieco nato fosse stata causata dal suo peccato o da quello dei genitori: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”(Gv 9,3). Con ciò è chiarito che il male non viene da Dio. Al contrario, Dio ha inviato il suo stesso Figlio per contrastarlo sino a sconfiggerlo, come ho già accennato in precedenza. Del resto, basta leggere i Vangeli: la maggior parte dei miracoli compiuti da Gesù riguardano la guarigione dalla malattia e persino dalla morte. Gesù è venuto per guarire e salvare, questo è il Vangelo, la “buona notizia” da comunicare a tutti a partire dai malati.

La sofferenza fa parte della vita. Gesù stesso l’ha sperimentata in prima persona, come accade nella sua ultima settimana di vita, devastata dalla sofferenza: la preghiera agonica nel Getsemani, l’arresto, il tradimento di Pietro, l’ingiuria, la flagellazione, la crocifissione e l’atroce morte sulla croce. Gesù non aveva cercato tutto questo. Ma l’amore per il Padre e per gli uomini era così grande da fargli accettare anche la più alta delle sofferenze, come quella procurata dalla morte sulla croce. Vi è andato incontro, riempiendola con il suo amore. E questa è la via della salvezza.

Prendo in prestito da Benedetto XVI l’invito a considerare la necessità di farsi prossimi alla sofferenza umana come una dimensione essenziale per l’intera società. Nella enciclica Spe Salvi, afferma: “La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d’altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell’altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine. Ma anche la capacità di accettare la sofferenza per amore del bene, della verità e della giustizia è costitutiva per la misura dell’umanità, perché se, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumità è più importante della verità e della giustizia, allora vige il dominio del più forte; allora regnano la violenza e la menzogna” (Spe Salvi, n.38).

La sofferenza può essere trasformata in un’occasione di crescita dell’amore. La fede non invita a rassegnarsi alla sofferenza. Semmai aiuta a combatterla e, se possibile, ad eliminarla. E la ragione di questa forza sta nell’amore che sa commuoversi, come quello che viene descritto dalla pagina evangelica del buon samaritano. La scelta che Gesù fa di un samaritano (il Vangelo parla solo del samaritano, senza aggiungere l’aggettivo buono), ossia di un uomo non appartenente alla fede ebraica, spinge a ritenere che l’amore compassionevole è iscritto nel cuore di ogni uomo, anche non credente. Questo amore che si lascia commuovere – ma può esserci un altro amore? – spinge alla prossimità verso i più deboli, verso coloro che soffrono. E’ un amore forte che riesce ad essere più forte della stessa sofferenza. E’ un amore che cambia il corso della storia e blocca la forza del male. Spesso si fa strada la convinzione che di fronte alla forza del male e della malattia nulla possiamo con le nostre forze. In realtà, la vicinanza affettuosa fatta di gesti magari piccoli ma pieni di amore, ha una forza nascosta ma efficace di guarigione e di consolazione. Gesù ne ha dato per primo l’esempio. Egli, che ha assunto in sé tutto ciò che è umano tranne il peccato, attraversa per intero la lezione di Giobbe: fino all’angoscia di morte e al grido di abbandono. La passione e la morte del Signore ci salvano: una delle verità fondamentali della fede sulla quale il cristianesimo è edificato. Al tempo stesso, una di quelle verità che devono essere custodite con delicatezza speciale dall’oscuramento e dal fraintendimento. Dovremmo riflettere in questa prospettiva su queste parole dell’apostolo Paolo: Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”(Col 1,24).

Anche la sofferenza ha un suo senso spirituale. Potremmo dire che nessuna goccia di dolore va perduta. Benedetto XVI recupera una tradizione ben radicata in passato,ma senza indulgere al dolorismo: “Faceva parte di una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma non molto tempo fa ancora assai diffusa, il pensiero di poter «offrire» le piccole fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un senso. In questa devozione c’erano senz’altro cose esagerate e forse anche malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe essere di aiuto. Che cosa vuol dire «offrire»? Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno…Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi”(40).

Dono della grazia non è la sofferenza, quanto piuttosto il legame d’amore che attraverso di essa si instaura. Tante volte mi è accaduto di sentire persone che si domandano se il loro male non sia una conseguenza del loro peccato, oppure che Dio gli stia dando quello che si è meritato per il male compiuto, mostrando così l’idea di un Dio giudice e di una vita maledetta. Sono domande che chiedono attenzione, ascolto, amicizia e un abbraccio di amore. Anche Giobbe non smetteva di parlare con Dio e di porgli domande. C’è anche chi vuole essere liberato dalla colpa di continuare a vivere pur essendo malato: “Io lo so che sono molto malato e che dovrò morire ma io voglio vivere ancora. Giusto vero?” In chi soffre c’è una profonda domanda di una vita di bene, in cui il male e la morte siano vinti. Sono domande della fede, non parole di rassegnazione. Il segno della presenza del Signore è nell’appello dell’amore, non nella consacrazione del dolore. L’angoscia di Gesù nell’orto del Getsemani, il suo grido sulla croce, proteggono il disagio dei deboli e degli indifesi dalla necessità di vergognarsi della loro prostrazione e di giustificare così il loro abbandono. Ma nel Vangelo di Gesù c’è dell’altro: Gesù stesso prende su di sé tutto il peccato e lo redime con un amore che non conosce limite, neppure quello della sua morte. Gesù fa esplodere tutta la violenza del peccato del mondo su di sé. E salva tutti!

In questa prospettiva, l’amore aiuta a resistere al male. Dona energie per affrontare il difficile cammino della malattia e anche dalla morte, perché non si è soli. Nell’abbraccio dell’amico si sciolgono tante amarezze e si può sperimentare una capacità di resistenza che non si era pensato di avere. C’è una parte di noi abitata da Dio e dalla sua forza. Ricordo che Antonio – un anziano in una casa alloggio della Comunità di Sant’Egidio – nonostante fosse sfinito dalla malattia, aveva detto sorridendo: “sto lottando, qui sono circondato” – riferendosi alle persone che gli stavano attorno e che si prendevano cura di lui. Il suo sorriso non è mai venuto meno, neanche nei momenti più difficili della malattia. Anche Elisa – un’anziana nella stessa casa alloggio – quando non riusciva più a far udire la sua voce, nella sua estrema debolezza ha continuato a parlare con il suo sorriso. E anche quando la vita e il corpo sembravano andare incontro a tante limitazioni, è emerso tutto il suo attaccamento alla vita, tutta la sua gioia per quello che viveva, per l’affetto di tanti amici. Nel voler bene e lasciarsi voler bene non si è lasciata rubare la gioia dalla malattia, che pure era faticosa. “Che bella vita” aveva esclamato più volte! Parlava della malattia come di una battaglia da vincere ed era sicura che l’avrebbe vinta. Diceva “la vita va vissuta tutta, fino in fondo”. In una società in cui si vive sempre più soli e isolati è grande il bisogno di condividere il proprio dolore. Riversarlo nel cuore di un amico lo rende più leggero, più sopportabile e fa vedere la speranza che il male può essere vinto. E’ la grande risorsa della fragilità umana!

Padova, 17 maggio 2019