Famiglia, luogo di educazione alla libertà

Premessa

Il contesto familiare resta il luogo fondamentale di trasmissione alle giovani generazioni di abiti mentali, apprendimenti, atteggiamenti e valori. E’ nella famiglia infatti che si apprende a essere liberi, ossia capaci di autonomia e di responsabilità verso gli altri. Purtroppo però la famiglia è anche luogo di violenza e di non accoglienza dei bisogni dei figli. In tal senso non va idealizzata in maniera stratta come se potesse esistere una famiglia slegata dalla società o, nel caso della Chiesa, dalla comunità cristiana. Neppure si deve dimenticare la realtà storica che mostra famiglie molto differenti tra loro e con una grande varietà di tipologie al loro interno. Si possono incontrare, così, differenze di composizione (nuclei ristretti, famiglie allargate), diversità di ruoli tra i genitori, varietà nello status economico e sociale, nella filosofia di vita, nel contesto socio-culturale e soprattutto nei modelli educativi. E poi, da un paese a un altro, i valori familiari variano sensibilmente. In ogni caso, le famiglie restano comunque gli “agenti per eccellenza” dello sviluppo morale delle giovani generazioni.

Come ho appena accennato la famiglia non è mai “sola”, e neppure è l’unico ambito di influenza sulla vita dei bambini e dei ragazzi. Accanto ad essa ci sono altre realtà importanti per lo sviluppo degli atteggiamenti di vita, come la scuola, i gruppi dei coetanei, degli amici, gli ambiti religiosi, e così oltre. Vorrei ora accennare ad alcuni punti che colgono la crisi dell’educazione, familiare e scolastica e qualche prospettiva per il futuro.

Pedagogia “nera”, autorità e controllo nell’educazione

La “scoperta dell’infanzia” descritta da Philip Ariès può essere collocata nell’Europa moderna. L’autore, con l’espressione “scoperta dell’infanzia”, voleva sottolineare che nelle epoche precedenti i bambini crescevano a tal punto mescolati nel mondo degli adulti da non avere un’attenzione particolare alle loro specificità e ai loro bisogni. Questo non vuol dire che fosse assente una dimensione educativa. Ma non vi era un’attenzione specifica, come in questo nostro tempo. Faccio un solo esempio. Montaigne scriveva “ho perduto due o tre bambini quando erano a balia”. Insomma, non conosceva il numero preciso dei figli morti. L’educazione avveniva “per immersione” nell’ambiente sociale e spesso assumeva forme di costrizione, di forte disciplina che condizionava molto i corpi e le menti dei minori.

Nell’Ottocento è cresciuta molto l’attenzione verso i bambini al punto da essere definito “il secolo del fanciullo” per la progressiva presa di coscienza dei loro diritti. Tuttavia si è lasciata prevalere quella “pedagogia nera” che esplicitamente o implicitamente imponeva il potere degli adulti, attraverso il controllo sulla vita dei più piccoli nei modi più diversi, dal forgiare il carattere con prove difficili alle punizioni corporali. La sorveglianza sarà vista da Michel Foucault come l’elemento di una pedagogia del potere dell’adulto sul bambino.

La deriva estrema della “pedagogia nera” sfociò nel controllo delle nuove generazioni da parte dei sistemi totalitari. La famiglia doveva cedere il potere allo Stato che si arrogava il compito della educazione dei bambini, degli adolescenti e dei giovani in un’utopia collettivistica che portò a gravi degenerazioni. Un esempio. Il popolo tedesco è stato “educato” da una paziente pedagogia nera rafforzata dalla propaganda a considerare altri gruppi, e in particolare gli ebrei, “l’altro” da distruggere.

Anche oggi tuttavia ci sono famiglie in cui continua a vincere la “pedagogia nera” dell’abuso e del maltrattamento. Alice Miller ha mostrato, nel suo volume La persecuzione del bambino, i danni fatti a bambini indifesi e soprattutto la loro rimozione da grandi delle ferite sofferte da piccoli. In una suggestiva ricostruzione mostra come Stalin, Hitler, Ceausescu avevano accumulato, in famiglie con padri ubriachi e poveri che li picchiavano, una grande carica di ipocrisia e di crudeltà. Dovrei allargare il discorso ai giorni nostri. Non è questa la sede, ma non posso non accennare alle drammatiche derive dei “bambini soldato” o anche ai bambini trasformati in kamikaze.

Dalla pedagogia nera alla pedagogia bianca

Il passaggio da una “pedagogia nera” ad una “pedagogia bianca” possiamo scorgerlo negli anni del secondo dopo guerra fino a giungere alla approvazione della Convenzione ONU dei diritti del fanciullo del 1989. Lo stesso anno del crollo del muro di Berlino! Questo documento è un punto di arrivo ma lo è anche di partenza per una più robusta presa di coscienza del “rispetto”, dell’”onore” che la società deve al bambino. La pedagogia del Novecento e del dopoguerra riscopre il bambino come soggetto di dignità e diritti. Ma la strada da fare è ancora lunga. Le ricerche in psicologia cognitiva e nelle neuroscienze descrivono un bambino molto più maturo di quanto pensiamo, intreccio tra natura e cultura.

Ma ci sono state intuizioni che – nella fatica della solitudine – hanno avviato il nuovo cammino della riscoperta della dignità del bambino. Tra queste non possiamo non ricordare l’opera teorica e pratica di Maria Montessori. Per questa illustre pedagogista il bambino deve stare al centro. Con un’affermazione icastica amava dire che il bambino è “padre dell’Uomo”, e rappresenta la chiave della rigenerazione dell’umanità. Come non ricordare quella pagina evangelica ove Gesù, di fronte ai discepoli che stavano discutendo su chi tra loro fosse il primo, prese un bambino e lo pose indicandolo come il vero “primo” (Mt 9, 36-37). Si tratta di una visione che onora e ammira l’infanzia. Di fronte alla repressione dell’educazione degli adulti e alla coercizione che la scuola esercitava sui bambini (attraverso tempi, strutture e comportamenti che lo umiliavano e lo schiacciavano), Montessori credette nel maestro interiore come guida dei bambini. Gli adulti, secondo la Montessori, vedono il bambino come svogliato, irrequieto e capriccioso. In realtà, attraverso l’educazione ricompare il vero bambino, che ama l’ordine e il lavoro ed esprime desideri legittimi, non sempre ascoltati dai genitori o dagli educatori.

Volendo dare ora uno sguardo ai giorni nostri, dobbiamo rilevare che ci sono almeno tre elementi che condizionano l’educazione contemporanea. Il primo. E’ dato dal profondo cambiamento di mentalità riguardo al concetto di autorità con la conclamata crisi del ruolo paterno. E’ noto il volumetto di Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? Ove si parla della “evaporazione” del padre. E ancora prima, il testo dello psicologo tedesco degli anni Settanta, Alessandro Mitscherlich Verso una società senza padre. L’affermazione dell’autonomia della persona e  della libertà  individuale è andata di pari passo con una severa critica all’eredità della tradizione, ed alla staticità di norme trasmesse dalle generazioni precedenti. E qui si

Il secondo elemento è la centralità del “bambino” nella società contemporanea. Il calo demografico in Europa ha avuto due esiti, per un verso il bambino oggi è davvero “prezioso” divenendo più soggetto e non oggetto, per l’altro verso è divenuto “bambino-re”, ossia “specchio” del narcisismo degli adulti. E, infine, come mostra il dibattito tra liberali e comunitaristi, la rivolta contro il padre si è accompagnata sia ad una prevalenza narcisistica dell’io, sia ad un desiderio di rinnovata fusione tra l’uomo e il mondo esterno, a una regressione adolescenziale dell’adulto.

Stili educativi famigliari e comportamenti impliciti

I genitori influiscono sulla vita dei ragazzi in molti modi: in particolare attraverso l’attaccamento, ossia con i modi e la qualità del legame, il calore e la fiducia fondamentale, l’identificazione nel padre nella madre oppure con il modello “premi-punizione”. Già dagli studi di Adorno sulla personalità autoritaria, lo stile educativo genitoriale è di notevole importanza nell’orientare la chiusura–apertura dei figli verso la diversità. Adorno, Fromm, Erikson, Maslow hanno messo in luce la sindrome della personalità autoritaria, caratterizzata da un “io” debole, compensato da un forte Super-io, soggetto ad autorità esterne, incline a stereotipi e a cercare sicurezza nella disciplina e nell’ordine.

Le ricerche sul dogmatismo autoritario mostrano che l’atteggiamento autoritario dei genitori riduce le possibilità di scambio e impedisce al figlio di maturare una disponibilità al dialogo, ostacolando la comparsa di condotte di cooperazione e aiuto. Gli atteggiamenti “positivi” o “negativi” verso i bambini influenzano la loro capacità di interagire, di dialogare, di accettare l’altro. Nei bambini con una relazione affettuosa o distaccata con la propria madre, si riscontrano maggiori o minori comportamenti aggressivi. La risposta affettiva dei genitori (soprattutto di fronte alle trasgressioni), se accompagnata dal ragionamento, contribuisce a far interiorizzare nei bambini le norme morali e a far loro valutare le conseguenze delle azioni.

Ancora, l’orientamento egocentrico (il padre o la madre tengono conto soprattutto delle proprie sensazioni) oppure decentrato (attenzione alla prospettiva dell’altro) appare in stretto rapporto con le risposte dei figli. Le famiglie ad orientamento posizionale, ad esempio, più tradizionali, tendono ad impostare il rapporto con i figli  in base allo statuto formale dei membri; la distinzione dei ruoli è marcata e i genitori tendono a imporre comportamenti senza discussioni. Mentre, le famiglie ad orientamento personale lasciano grande spazio alla comunicazione e alla discussione e tendono a “psicologizzare” le relazioni interne. Non vanno nascosti i rischi legati all’estremizzazione di quest’ultimo orientamento, che può condurre a facilitare un relativismo in materia morale e un’eccessiva contrattazione delle regole, Tuttavia, dal punto di vista dello sviluppo della prosocialità, è lecito supporre che le famiglie del primo tipo ricorrano più facilmente a motivazioni estrinseche, mentre le seconde, sottolineando l’importanza della responsabilità personale, contribuiscono a rafforzare sentimenti di identificazione e di empatia.

E’ importante sottolineare il ruolo svolto dalla paura. Una maggiore sicurezza del bambino, specie nella prima infanzia, favorisce la disponibilità ad uscire dal proprio piccolo ambito, esplorando l’ambiente circostante. Analogamente, la sicurezza di essere accettati, non minacciati, accolti, influenza la possibilità di affrontare il mondo esterno senza vedere in ogni estraneo il nemico. La paura e l’insicurezza minano la fiducia di potersi confrontare con l’altro, mentre la certezza di essere accettati apre alla curiosità, al dialogo e allo scambio. Varie ricerche sull’influenza della paura sull’interazione sociale dei bambini hanno mostrato, anche se con significative differenze tra maschi e femmine, che la paura determina un aumento dei comportamenti aggressivi.

La famiglia, quindi, trasmette e comunica ai figli orientamenti morali a diversi livelli, quali l’affermazione della autorità, la sollecitazione affettiva, l’argomentazione. Questi elementi possono essere integrati in uno stile educativo orientato verso una consapevole educazione morale. In questo senso, l’esercizio dell’autorità deve far riferimento all’autorevolezza. Mentre la sollecitazione affettiva, attraverso l’esempio e l’educazione delle emozioni, può aiutare i bambini a percepire le reazioni degli altri, identificandosi con la loro situazione. Infine l’argomentazione, di tipo razionale, può contribuire a comprendere ed interpretare le emozioni stesse, decifrandone i messaggi.

Anche di fronte alle trasgressioni dei figli, come vari autori hanno messo in luce, i genitori possono svolgere un’efficace educazione morale integrando la dimensione dell’ascolto con quella dell’autorevolezza. In questo senso, essi potranno: ascoltare le motivazioni del bambino, collocando gli avvenimenti nella storia precedente e all’interno del quadro dei suoi comportamenti abituali; contestualizzare l’evento in cui il bambino ha trasgredito o disobbedito alle regole, individuando circostanze attenuanti, senza tuttavia relativizzare in modo assoluto le norme; evidenziare le conseguenze negative per gli altri del comportamento del bambino, inducendo a valutare le conseguenze delle azioni; evitare il ricatto affettivo che minaccia di togliere amore come risposta alla trasgressione dei figli.

Educare alla solidarietà

Il processo di maturazione dei bambini non è una libertà fine a se stessa. La libertà è “per” qualcosa e “per” qualcuno. La domanda cruciale dell’educazione pertanto è: “per chi sono io?” e non semplicemente rispondere a “chi sono io?”L’educazione deve tendere a formare persone consapevoli del loro legame con gli altri, della dimensione del rispetto e ancor più dell’amicizia con gli altri. La persona umana, ogni singola persona (piccoli, giovani, adulti) vive di relazioni. Zygmunt Bauman nel suo “Conversazioni sull’educazione” ha parlato del delicato equilibrio tra “coinvolgimento” e “distacco”: non possiamo né fonderci completamente con l’altro, né allontanarci troppo.

L’educazione morale deve dare maggiore spazio alla dimensione affettiva senza tralasciare quella cognitiva. La dimensione emozionale – affettiva ed empatica – che guida molti comportamenti è fondamentale. E qui la famiglia gioca un ruolo centrale nella formazione della dimensione affettiva. Questo non vuol dire far prevalere le emozioni ma favorire la consapevolezza dell’importanza degli altri per la nostra vita. La famiglia è il primo luogo della formazione della dimensione relazionale. Aveva ragione Cicerone nel definire la famiglia “principium urbis et quasi seminarium rei pubblicae”, ossia il luogo della formazione delle relazioni o, se si vuole, della convivenza pacifica tra diversi.

Non basta solo conoscere il giusto per agire bene. Jean-Claude Forquin, osserva che “ogni attività intellettuale rigorosa favorisce lo sviluppo di capacità, atteggiamenti, motivazioni che possono giocare un ruolo importante nello sviluppo della moralità, predispone all’adozione di condotte morali, ma non conduce certamente ad esse in modo diretto ed automatico[1].    L’approccio procedurale-formale di tipo razionalistico tout court (Durkheim, Kohlberg) non conduce necessariamente a dare efficaci risposte educative. Si può essere razionali ed allo stesso tempo disinteressati verso gli altri e non maturare un’effettiva condotta di aiuto.

Carol Gilligan, esaminando le qualità della morale adulta (autonomia, indipendenza, controllo), ha avanzato l’ipotesi che alla base della morale non vi è solo l’orientamento alla giustizia, ma anche l’esperienza dell’attaccamento, della sollecitudine, che ci fa sentire con gli altri, che ci porta ad identificarci con le loro emozioni. Questa prospettiva è più matura di una morale basata solo sulla giustizia, spesso fredda e impersonale. Gilligan sostiene che accanto a una morale dei diritti, a una morale razionale e cognitiva, c’è una morale della sollecitudine, basata sull’empatia, sulla relazione con gli altri, sull’affettività[2] .

Per questo, non si tratta di trasmettere regole astratte da applicare, quanto di realizzare relazioni affettive dirette tra i bambini e gli altri, a partire dai famigliari. E’ quell’insieme di sentimenti non concettualizzati che tuttavia sono ben presenti e colti dai ragazzi[3].  Certo, che ne è delle relazioni affettive dirette “al tempo di Internet”, mentre la Rete ha completamente invaso il campo, specie tra gli adolescenti? I ragazzi vivono online, in un mondo che non è separato da quello reale, ma rischia di diventarlo. Vorrei fare a questo proposito l’esempio della legge sul cyberbullismo, recentemente approvata dal Parlamento. Il bullismo non è altro che comportamenti crudeli, offensivi e diffamatori da parte di un ragazzo/a o di un gruppo nei confronti di un altro/altra. Si potrebbe dire che è sempre esistito; eppure, le caratteristiche di Internet (cyber) lo rendono diverso. Si tratta di un fenomeno specifico per vari motivi, il principale dei quali è la “distanza” tra il persecutore e la vittima. Chi fa del male a un coetaneo lo vuole certamente fare, ma non vede gli effetti  dei suoi comportamenti  e delle sue parole. Il volto dell’altro ragazzo, o addirittura bambino, è lontano, l’anonimato protegge, l’emulazione giustifica l’azione (“lo fanno tutti”). In un certo, senso la Rete rischia di separare dagli altri e rendere meno evidente le conseguenze della violenza. Ciò non significa che Internet sia di per sé “colpevole” ma certo può facilitare quella distanza che indebolisce le relazioni e le rende meno responsabili.

La pro-socialità ha una ragione “naturale”

“Nessun uomo è un’isola”, scriveva il poeta teologo John Donne (XVII secolo) in una sua poesia che divenne molto nota. Il poeta voleva sottolineare che ogni persona è parte dell’intera umanità. Tale prospettiva contrasta decisamente con una cultura egocentrica che sta mettendo l’Io sulla sommità. Non mi dilungo su questo. Ma è bene sottolineare la natura sociale di ogni persona umana. Una concezione individualistica dell’esistenza è in certo modo contro la struttura fondamentale della persona umana.

C’è una enorme responsabilità della società contemporanea nel trasmettere una sensibilità narcisista fin dall’infanzia, con il conseguente distacco dagli altri come parte essenziale del la propria esistenza. La solitudine narcisista è contro la radicale spinta alla comunione dell’uomo. Purtroppo una cultura narcisista porta alla crescita nella società di sentimenti di intolleranza, di pregiudizio. Ma nel profondo di ciascuno c’è il sigillo dei sentimenti di simpatia, di solidarietà con il conseguente orientamento di una pro-socialità. Le basi per un impegno solidale da parte dell’uomo e della donna sono iscritti nell’essere umano stesso. Educare vuol dire aiutare a far emergere e a cresce fin dai primissimi tempi nella vita del bambino atteggiamenti di collaborazione, empatia, fraternità con gli altri.

Gli studiosi che hanno approfondito tale concetto (Hoffmann, Staub, Berkowitz) mettono in luce come questi comportamenti non sono messi in atto in vista dell’approvazione altrui, o di un tornaconto personale, quanto di un’autentica volontà di aiuto, derivante da solidarietà e senso di responsabilità interiorizzati. Dal punto di vista pedagogico, l’atteggiamento pro-sociale presenta numerosi motivi di interesse. Pur non presupponendo la “naturale bontà” dell’essere umano, bensì la sua “insocievole socievolezza”, educare all’attenzione all’altro concorre a formare in maniera matura la persona. La comprensione della natura sociale dell’uomo, quindi della sua capacità di altruismo, di condivisione, di compassione, porta a porre al centro la relazione come aspetto fondamentale nell’espressione dell’umanità. Il rapporto interpersonale, l’essere-con-gli-altri-nel-mondo, realizza la piena coscienza dell’uomo. L’apertura all’altro rende l’uomo ancor più se stesso. Su questa linea, l’educazione rivolge uno specifico interesse alla persona in crescita, vista nel contesto sociale e nei suoi scambi, centrando l’attenzione sui meccanismi di trasmissione e di comunicazione di comportamenti ed atteggiamenti aperti all’altro. Ne risulta, di conseguenza, uno sguardo particolarmente approfondito alla famiglia come nucleo in cui può svilupparsi o anche inaridire la capacità umana di guardare l’altro con occhi di amicizia, affetto e condivisione.

Si tratta di una “scuola familiare” di solidarietà attraverso la prosocialità e l’apertura.

L’educazione all’identificazione a all’empatia è un’apertura al riconoscimento delle persone. I genitori possono far operare ai figli il passaggio dal “sentire dolore” inteso come identificazione con il mio dolore a un  atteggiamento di simpatia nei confronti dell’altro, vincendo la naturale reazione che riconduce sempre a dirigersi verso se stessi. Inoltre, possono far evolvere un generale atteggiamento empatico in una specifica simpatia, soprattutto verso persone o gruppi più deboli.

Tale compito educativo sarebbe inutile e rischioso se i figli non fossero sostenuti e guidati dalla famiglia a trasformare una sensibilità prosociale, nutrita di empatia e simpatia, in solidarietà, che si nutre di gesti concreti. Senza questi ultimi, una generica apertura alla sofferenza degli altri, divenuta impotente, si ripiegherebbe su se stessa,  abbandonandosi alla delusione e giustificando la propria scelta di indifferenza, rassegnazione o violenza. La compassione e l’empatia che non divengono azione solidale, anche se solo attraverso gesti piccoli o simbolici, possono, infatti, vanificarsi e dissolversi.

Il prossimo Sinodo dei vescovi vuole interrogarsi su come accompagnare i giovani nella loro crescita sia come membri della società che della comunità cristiana. Ci potremmo chiedere: come la Chiesa educa con una “pedagogia bianca”? Una risposta potrebbe essere quella di farsi carico della dimensione umanizzatrice dell’incontro con l’altro, che come scriveva Guardini, “diviene un tu per me”. Non potrà farlo però con  le regole o le teorie, ma solo con la forza della testimonianza. Ci vogliono maestri degni di fiducia, ascoltati volentieri perché le loro scelte e i loro volti convergono in una veracità, in una credibilità umana e spirituale. In questi giorno ricordiamo don Milani, indimenticabile educatore, maestro della parola, che sintetizzava la sua opera educatrice con la scuola nell’espressione “agli svogliati dargli uno scopo” . L’educazione apre a una ricerca di senso, schiudendo il segreto della relazione con gli altri. Il testimone non insegna certezze e neppure assume il dubbio come metodo. Egli non sta né in alto né in basso, viene da “prima” perché ha vissuto di più ma non può per questo rendere pesante il cammino dei nuovi arrivati: condivide con i più giovani le stesse paure e le stesse speranze: sono insieme nel “noi” della fede.

[1] Forquin J.C., « L’enfant, l’école et la question de l’éducation morale. Approches théoriques et perspectives de recherche », in “Revue Française de Pédagogie“, 1993, 102, p.95.

[2] Gilligan C., “In a different voice: Women’s conceptions of self and of morality, in “Harvard Educational Review“, 1977, 4, pp.481-517.

[3] Pagoni Andréani M., Le dévéloppement socio-moral. Des théories à l’éducation civique, Villeneuve-d’Ascq, Presses Universitaires du Septentrion, 1999, p.48.