Le mappe della disuguaglianza

di Marcello Filotei

Esterno giorno. Roma, 1870. L’eco dei colpi di fucile dei bersaglieri, non così tanti, si è spenta da poco tempo. Quintino Sella, non ancora presidente dell’Accademia dei Lincei, passeggia tra i Fori. Ha l’incombenza di partecipare alla riorganizzazione della città. «Se volete amministrare Roma o avete un’idea universale o sbaglierete tutto», gli sussurra qualcuno all’orecchio.

Forse le cose non sono cambiate troppo da allora. La capitale d’Italia non è una città “normale”, in qualche modo è ancora l’Urbe di Cicerone, che la metteva in diretta connessione con la famiglia, definita principium urbis et quasi seminarium rei publicae.

Anonimo fiorentino, «La città ideale» ( Walters Art Museum, Baltimora, XV secolo)

Spesso nei classici si trovano risposte, se no non sarebbero classici. Lo spiega l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, che concludendo mercoledì alla Lateranense l’incontro su «Famiglie, disuguaglianze e sofferenza sociale nello spazio urbano. Un caso: Roma» organizzato dalla cattedra Gaudium et spes del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, del quale è Gran cancelliere, sottolineava come è proprio il nucleo familiare il primo luogo dove si apprende a vivere tra diversi, l’ambito in cui si sperimentano le prime relazioni plurali, capaci di tenerci insieme solo se c’è una visione comune. Del resto perché i genitori risparmierebbero se non guardassero al futuro in maniera prospettica, e perché i figli li accudirebbero se non pensassero che anche loro un giorno staranno nella stessa condizione di bisogno.

Certo, la situazione attuale contraddice questa visione. Ed è stato monsignor Pierangelo Sequeri, preside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II, a puntualizzarlo in apertura lanciando un interrogativo al quale si è cercato di dare una risposta: «Le famiglie si sono adattate molto alla città da quando è iniziata la società industriale, fino al limite della rottura, fino a rinunciare a una frequentazione assidua tra i membri del nucleo. La città si sta adattando con la stessa flessibilità ai bisogni delle famiglie?».

A sentire Salvatore Monni, che insegna economia dello sviluppo all’Università Roma Tre e che ha scritto assieme a Keti Lelo e Federico Tomassi il volume Le mappe della disuguaglianza (Roma, Donzelli, 2019, pagine XVIII-206, euro 22), parrebbe di no. L’analisi è impietosa: «Le città metropolitane escono dalla crisi più profonda che l’Italia abbia mai conosciuto con una larga classe di esclusi, presenti non solo nelle periferie: le disuguaglianze si sono aggravate, coinvolgendo anche quello che un tempo era il ceto medio». L’emergenza, sostiene Monni, è la disuguaglianza in termini di opportunità, l’impossibilità di realizzare se stessi.

Ai Parioli i laureati sono il 42 per cento, a Tor Cervara il 5. In centro vivono principalmente single, le famiglie si sono spostate in periferia, dove però non trovano i servizi, e le donne, se fanno un figlio, in assenza di asili nido devono lasciare il lavoro per un lungo periodo. Quando tornano in ufficio vengono spesso demansionate. Ecco perché i loro stipendi, a parità di titolo di studio, sono più bassi di quelli dei loro colleghi. In centro ci sono le piazze, anche molto belle, ma ci vanno prevalentemente i turisti, i single forse preferiscono gli aperitivi. In periferia ci sono le famiglie, ma mancano i luoghi di aggregazione per creare comunità. Finisce che i ragazzi si danno appuntamento nei centri commerciali, che poi plasmano la società verso un’attenzione al consumo molto elevata. Questioni complesse. Diffidare delle risposte semplici.

Nel 1990 le Nazioni Unite definirono un Indice dello sviluppo umano (Isu) che accanto al Prodotto interno lordo, il Pil, valuta la qualità della vita nei paesi membri. Applicando i parametri Onu ai diversi quartieri di Roma emerge che in alcune zone l’Isu corrisponde a quello dei luoghi più poveri del pianeta, in altre è molto più alto.

In condizioni del genere è facile fomentare la ricerca di un colpevole. Meglio se la crisi non dipende da noi. Gli immigrati sono un bersaglio facile, anche perché, come ha detto ancora Paglia, «non sperimentiamo più la diversità all’interno della famiglia, per esempio con l’accoglienza del secondo figlio che pone il primogenito di fronte all’esigenza di condividere gli spazi e l’attenzione dei genitori».

E allora è colpa degli stranieri, quelli poveri perché i ricchi spendono nei ristoranti del centro e vanno bene. Sembra ormai dato per scontato che le periferie siano traboccanti di immigrati che minacciano la sicurezza delle famiglie italiane. Sorpresa: secondo i dati ufficiali gli stranieri (poveri) vivono perlopiù in centro, divisi spesso per comunità, prevalentemente vicino ai loro luoghi di lavoro, che in gran parte sono le case degli italiani single. Non risultano al momento orde di immigrati che imperversano in periferia.

E allora se si vuole pensare a un rilancio della comunità metropolitana, perché di metropoli si tratta e non di città, non si può partire da un racconto falsato da pregiudizi e privo di contenuti scientifici. La capitale d’Italia ha bisogno di un progetto di sviluppo universale, è questa l’unica possibilità per renderla nuovamente “esemplare”. Come quando il neorealismo raccontava Roma in dialetto per parlare delle miserie di tutto il mondo. Come quando Pasolini, nel 1967, per fare i conti col dolore di tutti — anche dei napoletani, dei milanesi e degli abitanti di Nuova Delhi — sceglieva di affidare a un “borgataro” come Franco Citti il ruolo del protagonista nell’Edipo re. Una città è esemplare quando il suo specifico diventa rappresentazione dell’universale, quando è il simbolo di qualcosa di assoluto. E con l’assoluto Roma ha una certa dimestichezza.

Ci vogliono gli artisti, i filosofi, gli storici e gli economisti, meglio se dello sviluppo. Ma non basta. Bisogna anche superare due deficit dei quali in questo momento soffre la democrazia in generale: quello della legittimità e quello dell’autodeterminazione. Lo ha spiegato Massimo De Carolis, che insegna Filosofia politica all’Università di Salerno. La sovranità è legittima solo se rappresenta il potere di tutti sui singoli. L’autodeterminazione invece è la possibilità di scrivere da sé la propria storia, di decidere della propria vita. Due facce della stessa medaglia sulla quale si costruisce il legame sociale nella modernità. Roma vive un deficit grave di entrambi gli elementi: non solo gli abitanti non hanno fiducia nei governanti, ma in molti casi pensano che progettare un’esistenza “decente” in queste condizioni sia “semplicemente impossibile”.

Se si vuole avviare un percorso bisogna partire dal fatto che la capitale italiana, che nel paese è confrontabile solo con Milano, non è una città, ma una metropoli. La differenza è sostanziale, spiega De Carolis. Una città è una struttura di potere omogenea dove l’abitante è un “insider”, sa dove risiede l’autorità, si sa muovere nello spazio, conosce i significati dei simboli e delle cose. Funziona così dai tempi dell’Atene di Pericle. Una metropoli è invece un luogo dove c’è un tasso di pluralismo molto elevato, dove le mappe diventano mappe della disuguaglianza, dove l’abitante è un “outsider” rispetto a flussi che non è capace di definire, dove si vive da soli.

Il quadro è questo, se si vuole modificarlo bisogna rispondere con un progetto universale, esemplare, o si correrà il rischio “di sbagliare tutto”. Forse questo incontro voleva essere un sussurro all’orecchio di chi se ne occupa.

L’OSSERVATORE ROMANO