La famiglia, prima comunità cristiana, scuola di vita e di fede dei giovani
Una condizione paradossale
La famiglia si trova oggi in una situazione paradossale. Da una parte infatti, resta ancora oggi l’ideale a cui tutti fanno riferimento: è sentita come il luogo della sicurezza, del rifugio, del sostegno per la propria vita. Dall’altra, però, vediamo i legami famigliari infragilirsi sempre più: le famiglie si disperdono, si dividono, si ricompongono, si allargano. Gli studiosi più attenti parlano delle società occidentali a basso tasso di familiarità. Ha sorpreso la decisone della primo ministro inglese di creare il “Ministero della Solitudine”. E non perché preoccupata delle questioni affettive, ma per il peso economico che rappresenta il notevole numero di persone sole. In Italia è cresciuto in maniera esponenziale il numero di persone che scelgono di restare da sole. A parte la notizia di chi si sposa con se stesso! In ogni caso non c’è un lima culturale che favorisca la famiglia.
E tra i motivi più chiari vi è la crescita di una cultura individualistica. C’è chi parla di “seconda rivoluzione individualista”. Insomma, viviamo in una società in cui l’io prevale sempre più sul noi e l’individuo ha un peso sempre più forte rispetto a quello della società. E in una società individualista è ovvio che si preferisca la coabitazione al matrimonio, l’indipendenza individuale alla dipendenza reciproca. In tal modo, la famiglia, con un capovolgimento totale, più che “cellula base della società” viene concepita sempre più come “cellula base per l’individuo”. Ognuno dei due coniugi pensa l’altro in funzione di se stesso: ciascuno cerca la propria singolare individualizzazione più che la creazione di un “soggetto plurale” che trascende le individualità per creare un “noi” che affronta la costruzione di un futuro comune. Insomma, l’io, nuovo padrone della realtà, diviene padrone assoluto anche nel matrimonio e nella famiglia. Il sociologo italiano, Giuseppe De Rita, parla di “egolatria”, di un vero e proprio culto dell’io.
Lo stesso cristianesimo non è immune dal virus dell’individualismo. Lo rileva con sapienza Benedetto XVI, nell’enciclica Spe Salvi, quando parla di una riduzione individualista del cristianesimo. Papa Ratzinger si chiede: “com’è potuto accadere che nel cristianesimo moderno si sia affermata la concezione della salvezza come un affare individuale, per cui ciascuno crede che deve impegnarsi per salvare la propria anima, mentre l’intera tradizione biblica e cristiana che ci salviamo in un popolo?” Il Concilio Vaticano II lo ha affermato con grande chiarezza: “Dio avrebbe potuto salvare gli uomini in maniera individuale, ma ha scelto di salvarli radunandoli in un popolo”. Tale individualismo religioso è divenuto complice di quell’individualismo della cultura contemporanea che sta avvelenando l’intera forma “associata” della esistenza umana. Assistiamo infatti all’indebolimento di tutti quei legami che comportano una stabilità e comunque una responsabilità continuativa. E ne subiscono le conseguenze tutte le forme associate a partire dalla famiglia che il primo “noi” che l’individualismo si trova sulla strada. Mi torna in mente la straordinaria definizione che Cicerone dava della famiglia: “Familia est principium urbis, et quasi seminarium rei pubblicae”.
Papa Francesco pone la famiglia all’interno di questo orizzonte strategico: la famiglia non è chiusa nella storia di individui e dei loro desideri di amore (che pure ci sono), ma coinvolge la vita stessa della Chiesa e della società, sino a poter dire che la famiglia è la madre di tutti i rapporti.
Verso una Chiesa “famigliare”
Amoris Laetitia richiede un cambio di passo e di stile che tocca la forma stessa della Chiesa: la Chiesa stessa è una Famiglia, e quando la Chiesa parla della famiglia parla anche di sé, e viceversa. In questa prospettiva è evidente che non si tratta semplicemente di riorganizzare la “pastorale famigliare”, quanto di rendere “famigliare tutta la pastorale” o, ancor più chiaramente, di rendere “famigliare tutta la Chiesa”, “tutta la parrocchia”.
La Chiesa non può presentarsi come un tribunale, o un pubblico ministero dell’accusa per giudicare gli adempimenti e le inadempienze della legge senza riguardo per le dolorose circostanze della vita e l’interiore riscatto delle coscienze. La Chiesa è impegnata dal Signore ad essere coraggiosa e forte proprio nel proteggere i deboli, nel curare le ferite dei padri e delle madri, dei figli e dei fratelli; a cominciare da quelli che si riconoscono prigionieri delle loro colpe e disperati per aver fallito la loro vita. E’ indispensabile comprendere il legame indissolubile tra questa madre e i suoi figli. E’ vero che il matrimonio è indissolubile, ma il legame della Chiesa con i suoi figli lo è ancora di più perché è come quello che Cristo ha con la Chiesa, piena di peccatori che sono stati amati quando ancora lo erano, e non sono abbandonati, neppure quando ci ricascano. Questo è il mistero grande, di cui parla l’Apostolo. La Chiesa ha come suo compito materno riportare a casa coloro che hanno sbagliato per curarli e guarirli; ovviamente non riuscirebbe a farlo se li lascia dove sono abbandonati al loro destino perché “se lo sono cercato”. Dobbiamo intraprendere un nuovo stile ecclesiale, consapevoli della diversità delle situazioni e con la decisione di non lasciar solo nessuno.
La vocazione e la missione della famiglia
Nonostante che la cultura contemporanea cerchi di indebolire la famiglia come luogo saldo, dobbiamo comunque rilevare il bisogno che tutti hanno di famiglia. E’ un bisogno iscritto nelle profondità dell’essere umano, come del resto appare già nelle prime pagine della Bibbia. Ed è bene tornare a rileggerle. Nelle due narrazioni della creazione del’uomo e della donna appare con evidenza che l’immagine e la somiglianza di Dio comprendono l’indispensabile legame tra l’uomo e la donna. E’ nella loro alleanza che si rivela l’essere umano fatto appunto ad immagine e somiglianza di Dio: “E Dio creò l’Adam a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”(Gn 1,27). E alla loro alleanza Dio affidò due grandi compiti: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela”(Gn 1,28). In Adamo ed Eva, pertanto, si raccoglie l’intera umanità, l’intera famiglia umana, di cui le singole famiglie sono una delle articolazioni.
La parola della creazione – ricchissima di tesori – è ancora troppo trascurata e dimenticata, eppure offre ampiezze e profondità nuove. E’ un grande lavoro che aspetta di essere compiuto. Ed è entusiasmante: Dio affida il mondo e le generazioni all’uomo e alla donna congiuntamente. Quello che accade tra loro decide tutto. Quando i due progenitori si lasciarono prendere dal delirio di onnipotenza, e quindi di fare a meno di Dio, rovinarono tutto. E’ un racconto che fa intravedere le tragedie conseguenti al rifiuto della benedizione di Dio sul legame generativo tra l’uomo e la donna.
In ogni caso, seguendo l’antico racconto biblico, Dio non abbandona l’uomo e la donna al loro destino e ribadisce la forza di quel legame generativo dell’inizio. Quando dice al serpente ingannatore: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe” (Gn 3, 15a), Dio pone la donna come una barriera protettiva, di inimicizia verso male: è una benedizione a cui essa può ricorrere – se vuole – in ogni generazione. Vuol dire che la Donna porta una segreta e speciale benedizione, per la difesa della sua creatura dal Maligno! Come la Donna dell’Apocalisse, che corre a nasconderlo dal Drago. E Dio la protegge (cfr. Ap 12, 6). E la protezione di Dio, nei confronti dell’uomo e della donna, non viene comunque mai meno per entrambi. Prima di far uscire i peccatori dal mondo-giardino, Dio “fece all’uomo e alla donna tuniche di pelle e li vestì” (cfr. Gn 3, 21). Anche nelle dolorose conseguenze del nostro peccato, Dio fa attenzione che non rimaniamo nudi e abbandonati al nostro destino!
L’uomo e la donna non sono sati creati per rinchiudersi ciascuno in se stesso e neppure nel rinchiudersi tra loro due. Essi sono stati creati per operare assieme affinché custodiscano il creato (la casa comune) e la riempiano di generazioni. In questo ampio orizzonte si colloca la profezia dell’alleanza tra l’uomo e la donna. Un’alleanza che deve essere vissuta nella famiglia naturale, nella Chiesa e nella stessa famiglia umana. E non dobbiamo dimenticare che anche il celibe è parte della dimensione “famigliare” della Chiesa e dell’umanità (Gesù non contrappone il celibato alla coniugalità. E il cristianesimo ha sempre resistito – a dispetto di molti equivoci della sua stessa storia – alla esaltazione del primo svalutando la seconda). La comunità cristiana comunque è più grande della famiglia: essa riesce a far vivere e sperare nella benedizione di legami veramente famigliari, anche coloro che in quei legami faticano a vivere e a sperare: compresi i soli, gli abbandonati, i messi da parte e i rifiutati, e tutti coloro che non hanno potuto condividere e generare una vita.
Il matrimonio, la famiglia e la comunità ecclesiale
Vorrei ora accennare al rapporto tra il sacramento nuziale, la famiglia e la comunità ecclesiale. Amoris Laetitia in certo modo riallinea in maniera più chiara questa triplice scansione e manifesto la lacuna che c’è nel pensiero teologico a tale proposito. Mentre è abbondante la letteratura morale e canonistica sul matrimonio, scarseggia la teologia sulla famiglia come se quest’ultima fosse una conseguenza pratica dell’unione coniugale. Deve essere sviluppato ben di più il legame intrinseco fra il sacramento del matrimonio e la famiglia, sino a poter dire con chiarezza che l’uomo e la donna non si uniscono in matrimonio semplicemente per loro stessi, bensì per l’edificazione di una famiglia intesa come luogo di generazione umana, di educazione filiale, di legame sociale e di fraternità ecclesiale. Insomma, il matrimonio è per la famiglia, non viceversa: il sacramento sigilla il reciproco e indispensabile rapporto dell’uomo e della donna. La destinazione sociale e la vocazione comunitaria del matrimonio, che nella famiglia trova il suo simbolo compiuto e il suo nucleo propulsivo, sono assunte all’interno della fede cristiana e della stessa forma ecclesiale, sulla base del disegno comunitario di Dio a riguardo della creatura umana.
Il fatto che il legame matrimoniale costituisca un sacramento della nuova alleanza, va compreso in continuità con l’originaria destinazione generativa e comunitaria dell’alleanza creaturale. Nel sacramento del matrimonio, l’alleanza originaria dell’uomo e della donna, è redenta e inserita nell’economia della salvezza cristiana. Il fatto che esista un intrinseco ordinamento del sacramento del matrimonio verso la famiglia e della famiglia verso la comunità ecclesiale, non è una semplice conseguenza pratica dell’amore totale e fedele “dei due”, quasi che il significato essenziale del matrimonio (e quindi del sacramento) si condensasse e si esaurisse in primo luogo nel legame d’amore assoluto della coppia. In verità, la destinazione ai vincoli famigliari e alla comunità ecclesiale è piuttosto da ricondurre alla natura intrinseca del legame matrimoniale secondo il disegno creatore, che nell’economia salvifica cristiana viene inserito – come parte attiva – nel più fondamentale legame di Cristo con “i molti” per i quali è destinato l’amore di Dio ed è versato il sangue redentore.
In questa più ampia e concreta connessione si potrà ancor meglio comprendere il senso genuinamente “ecclesiale” della formula paolina sul “mistero grande”, riscoperta dalla recente teologia del matrimonio (Ef 5, 15).
Famiglie e comunità “in missione”
Nell’orizzonte evangelico appare chiaro il primato assoluto del legame con Gesù su tutti gli altri legami, quelli famigliari compresi. I coniugi pongono l’amore di Gesù come fondamento del loro amore. E’ questo il senso dello “sposarsi nel Signore”. Nell’orizzonte della sequela, pertanto, i legami famigliari vengono irrobustiti e trasformati: sono cioè resi più saldi, più creativi, e più universali perché senza più confini. La forza del Vangelo fa “uscire di casa” e abilita a creare paternità e maternità più ampie, per accogliere come fratelli e sorelle gli altri discepoli di Gesù. A chi gli disse che fuori della casa c’erano la madre e i fratelli che lo aspettavano, Gesù rispose: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3, 35). La comunità ecclesiale è la “familia Dei”.
Le famiglie che vivono la sequela di Gesù, pertanto, non sono isolate e chiuse in se stesse. Esse attingono l’energia dell’amore dall’altare: ascoltando assieme le Scritture e nutrendosi dell’unico pane e dell’unico calice. Per questo è urgente un più chiaro legame tra famiglia e comunità partendo proprio dalla “comunità dell’altare”. La pastorale di base dovrebbe sviluppare molto di più, in chiave “famigliare”, la ricchezza di questo legame che “fa la Chiesa”. Dall’unico altare della Domenica ci si disperde poi negli altari delle case, delle strade e delle piazze per comunicare a tutti il Vangelo del Regno e guarendo malattie e infermità. Una Chiesa secondo il Vangelo non può che avere la forma di una casa accogliente, ospitale, larga, senza confini. E questo avverrà realizzandola in una “forma domestica”.
E’ l’utopia di un nuovo modo di vivere, non chiuso in se stesso ma aperto a tutti e particolarmente ai poveri. In un tale orizzonte diviene chiara la responsabilità di accogliere coloro che non hanno famiglia, le persone sole e deboli perché facciano parte della più larga famiglia di Dio. Ed è in questo orizzonte che si deve porre anche il tema dei divorziati risposati o di quelle famiglie imperfette e in fieri. Verso costoro deve affrettarsi il nostro passo, irrobustirsi il nostro ascolto, intensificarsi la nostra compagnia. C’è una responsabilità particolare dei “movimenti ecclesiali” che già vivono una interrelazione tra famiglia e comunità. E’ la responsabilità di aiutare la Chiesa a colmare il divario tra famiglie e comunità cristiane. Potremmo dire che normalmente le famiglie sono troppo poco ecclesiali perché facilmente si rinchiudono in se stesse, e le comunità cristiane sono poco famigliari perché appesantite dalla burocratizzazione, o ingrigite dal funzionalismo.
La profezia di una Chiesa famigliare in un mondo di soli
Oggi, purtroppo, vi è come un fossato tra le famiglie e la parrocchia. Si potrebbe dire che le famiglie sono troppo poco ecclesiali (perché facilmente si rinchiudono in se stesse) e le comunità cristiane poco famigliari (perché appesantite dalla burocratizzazione, o ingrigite dal funzionalismo). E’ l’utopia di un nuovo modo di vivere, non chiuso in se stesso ma aperto a tutti e particolarmente ai poveri. In un tale orizzonte diviene chiara la responsabilità di accogliere coloro che non hanno famiglia, le persone sole e deboli perché facciano parte della più larga famiglia di Dio. Ed è in questo orizzonte che si deve porre anche il tema dei divorziati risposati o di quelle famiglie imperfette e in fieri. Verso costoro deve affrettarsi il nostro passo, irrobustirsi il nostro ascolto, intensificarsi la nostra compagnia. Va colmato il divario tra famiglie e comunità cristiane.
Famiglia e comunità cristiana debbono trovare la loro nuova alleanza, non per rinchiudersi nel loro circolo ma per fermentare in maniera “famigliare” l’intera società. Nello scenario di un mondo segnato dalla tecnocrazia economica e dalla subordinazione dell’etica alla logica del profitto, è strategico riproporre il “Vangelo della famiglia” come forza di umanesimo. La famiglia – una profezia di amore in un mondo di soli – decide dell’abitabilità della terra, della trasmissione della vita, dei legami nella società. Il Vaticano II afferma con chiarezza la vocazione della Chiesa, delle comunità cristiane, delle famiglie: essere segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano. E’ questo l’amore che deve abitare nella famiglia e nella Chiesa.
L’amore e la generatività
L’Esortazione Apostolica offre inoltre numerose indicazioni che possiamo chiamare pastorali, soprattutto a partire dai capitoli IV e V. In essi si declinano le due dimensioni che sostanziano il matrimonio e la famiglia: ossia il legame d’amore tra un uomo e una donna e la fecondità generatrice che ne consegue. E qui appare una novità singolare: il Papa non si ferma, come accade nella più diffusa catechesi, a commentare la pur fondamentale lezione del Cantico dei Cantici, che rimane certamente un gioiello della rivelazione biblica dell’amore dell’uomo e della donna. Commenta piuttosto e in maniera del tutto originale la fenomenologia dell’amore ispirato da Dio nello splendido inno paolino 1Corinzi 13. Il Papa parla dell’amore in chiave tutt’altro che mistica e romantica. Appare evidente che l’amore di cui si parla è pieno di concretezza e di dialettica, di bellezza e di sacrificio, di vulnerabilità e di tenacia (l’amore tutto sopporta, tutto spera, tutto crede, tutto perdona, non cede mai…). Insomma, l’amore di Dio è così, sembra affermare il Papa.
Siamo lontani da quell’individualismo che chiude l’amore nell’ossessione possessiva “a due” che peraltro mette a rischio la “letizia” del legame coniugale e famigliare. Il lessico famigliare dell’amore, nell’interpretazione del Papa, non è povero di passione, è ricco di generazione. Per questo include serenamente la libertà di pensare e di apprezzare l’intimità sessuale dei coniugi come un grande dono di Dio per l’uomo e la donna. Potremmo dire che – anche in questo – il testo papale porta a pienezza le suggestioni presenti nella Gaudium et Spes che cita esplicitamente: “Il matrimonio è in primo luogo una «intima comunità di vita e di amore coniugale» che costituisce un bene per gli stessi sposi, e la sessualità ‘è ordinata all’amore coniugale dell’uomo e della donna’”(n.80).
Il Papa porta l’attenzione sull’altra dimensione dell’amore coniugale: quella fecondità e della generatività. Si parla in maniera spiritualmente e psicologicamente profonda dell’accogliere una nuova vita, dell’attesa nella gravidanza, dell’amore di madre e di padre, della presenza dei nonni. Ma anche della fecondità allargata, dell’adozione, dell’accoglienza e del contributo delle famiglie a promuovere una “cultura dell’incontro”, della vita nella famiglia in senso ampio, con la presenza di zii, cugini, parenti, amici. Il Papa sottolinea la inevitabile dimensione sociale del sacramento del matrimonio (n.186), al cui interno si declina sia il ruolo specifico del rapporto tra giovani e anziani, sia la relazione tra fratelli e sorelle come tirocinio di crescita nella relazione con gli altri. Il testo chiarisce che il figlio non è un oggetto del desiderio, ma un progetto di consegna della vita.
Di qui segue il tema del rapporto fra le generazioni, che la frammentazione e la liquidità di eros mettono a rischio. Il legame fra le generazioni è il luogo dell’eredità che deve essere fatta fruttare. Questo è il grande compito affidato alla famiglia che deve custodire la tradizione della vita senza imprigionarla, provvedere valore aggiunto al futuro senza mortificarlo. Tale dinamismo è impossibile se la famiglia perde il suo ruolo sociale di stabilità e di propulsività degli affetti.
I ministri ordinati e l’accompagnamento dei fidanzati
Nel capitolo sesto l’Esortazione ribadisce che le famiglie sono soggetto e non solamente oggetto di evangelizzazione. Sono esse, anzitutto, ad essere chiamate a comunicare al mondo il “Vangelo della famiglia” come risposta al profondo bisogno di famigliarità iscritto nel cuore nella persona umana e della stessa società. Certo, hanno bisogno di un grande aiuto in questa loro missione. Il Papa parla, anche in questa prospettiva, della responsabilità dei ministri ordinati. E sottolinea con franchezza che a loro “manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie”(n.202). E chiede una rinnovata attenzione anche alla formazione dei seminaristi. Se da una parte bisogna migliorare la loro formazione psico-affettiva e coinvolgere di più la famiglia nella formazione al ministero (cfr. n.203), dall’altra sostiene che “può essere utile (…) anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati”(n. 202).
Un punto particolare merita l’attenzione: l’accompagnamento dei fidanzati sino alla celebrazione del sacramento e nei primi passi della nuova vita famigliare. Il testo iscrive questa prospettiva all’interno della vita della Comunità ecclesiale: è sempre più evidente che si tratta di aiutare i due giovani fidanzati a vivere la fede nella comunità cristiana alla quale appartengono. Va allontanato ogni “individualismo religioso”, come lo stesso Benedetto XVI osservava nella Enciclica Spe salvi. E’ indispensabile perciò accompagnarli mentre muovono i loro primi passi di vita famigliare (compreso il tema della paternità responsabile). Qui ci troviamo di fronte ad un vasto campo quasi del tutto ignoto alla vita ordinaria delle parrocchie. E’ utile qui l’esperienza dei movimenti famigliari che hanno già individuato dei percorsi efficaci di accompagnamento. Ed è anche in questo orizzonte che vanno promosse le associazioni famigliari sia per aiutare la vita spirituale delle famiglie sia per una più efficace presenza nella vita sociale ed anche politica.
Il Papa esorta quindi all’accompagnamento anche delle persone abbandonate, di quelle separate o divorziate. Sottolinea, tra l’altro, l’importanza della recente riforma dei procedimenti per il riconoscimento dei casi di nullità matrimoniale e della responsabilità affidata ai Vescovi. Il testo richiama la sofferenza dei figli nelle situazioni conflittuali. Si accenna ai matrimoni misti e a quelli con disparità di culto, e alla situazione delle famiglie che hanno al loro interno persone con tendenza omosessuale, ribadendo il rispetto nei loro confronti e il rifiuto di ogni ingiusta discriminazione e di ogni forma di aggressione o violenza.
La cura delle famiglie ferite: accompagnare, discernere e integrare
Il capitolo ottavo – tra le parti più attese della Esortazione papale – costituisce un invito alla misericordia e al discernimento pastorale davanti a situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore propone. Il Papa ribadisce che non si deve affatto rinunciare ad illuminare la verità del cammino della fede e le forti esigenze della sequela del Signore. Esorta però ad assumere lo sguardo di Gesù e lo stile di Dio che ha chiaramente espresso nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi incontri. Richiama il fatto che ci sono anche “altre forme di unione che contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo” e in queste ultime il Papa colloca i credenti conviventi o quelli uniti solo con matrimonio civile. In ogni caso, la Chiesa “non manca di valorizzare gli ‘elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più’ al suo insegnamento sul matrimonio”(n.292). C’è qui l’ansia evangelica di non spegnere il lucignolo fumigante (cfr. Mt.12,20). Ogni “seme di famiglia” – si potrebbe dire – ovunque ci sia, va accompagnato e fatto crescere.
Il Papa iscrive l’intera Esortazione nell’orizzonte della Misericordia. E consegna tre verbi tra loro legati: accompagnare, discernere, integrare. Tale itinerario è possibile solo se c’è una comunità cristiana che, appunto, accompagna, discerne e integrare chi deve guarire e crescere nell’amore di Cristo. Il discernimento nella Chiesa, va certamente fatto con un giusto giudizio, ossia che sia aderente alla concretezza degli atti e degli avvenimenti che hanno prodotto una situazione critica dal punto di vista della coerenza cristiana e della coscienza morale. Ma non deve essere, però, un atto liquidatorio di condanna che non tiene conto della qualità morale degli atti e delle intenzioni, dei fatti e delle circostanze. E soprattutto il giudizio è teso ad aprire la strada per la conversione. Un giudizio che registra il peccato e non attiva la salvezza è pre-cristiano.
E’ questo il significato dell’ammonimento del Papa, quando dice che vanno evitati i “giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione”(n.296). Le situazioni sono molto diverse tra loro e “non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale”(n.298). In ogni caso, per quanto riguarda il cristiano, e la stessa Chiesa, “nessuno può essere condannato per sempre”(297).
In tale prospettiva “è comprensibile – continua il Papa – che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi”(n.300). La dottrina cattolica e la norma morale del matrimonio è già chiaramente espressa, per tutti, nella sua inderogabile trasparenza. La domanda che dobbiamo farci non è sulla dottrina, ma sulla realtà che abbiamo di fronte: cosa fare nella complessità delle storie di vita che, in diverso modo, entrano in contraddizione con essa? La serietà della dottrina cattolica circa il giudizio morale, forse un po’ trascurata dal prevalere della sua semplificazione legale, viene rimessa in onore dalla Esortazione Apostolica. La qualità dei processi di conversione non coincide automaticamente con la definizione giuridica-istituzionale degli stati di vita. Per questo il testo scrive che “non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta ‘irregolare’ vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante”(301). Il compito dei sacerdoti è accompagnare in questo percorso ecclesiale di conversione e di integrazione. Quindi niente “fai-da-te”, per nessuno. E, secondo una retta ecclesiologia della comunione, anche il Vescovo non viene lasciato solo nell’esercizio del suo specifico ministero di unità, che deve sostenere il ministero sacerdotale e la comunità cristiana. L’ampiezza di questo coinvolgimento ecclesiale, e la ricerca della sua armonia dottrinale e pastorale, è indispensabile. Infatti, non vi è qui soltanto un calcolo legale da applicare, codici alla mano. Né del resto, si tratta di una complessità da semplificare ad arbitrio, stabilendo eccezioni o concedendo privilegi dettate dalle ragioni e dalle convenienze del mondo, invece che dalla giustizia e con la misericordia del vangelo (300). E’ un processo delicato, che si iscrive in un cammino spesso intricato e non subito decifrabile, del rapporto fra la coscienza del peccato e la grazia della riconciliazione. E questo rende perfettamente comprensibile il suo legame con l’inviolabile intimità del “foro interno” (che attiene per un verso alla delicata mediazione della direzione spirituale, e per altro aspetto alla dottrina del sacramento della Riconciliazione). D’altra parte, la ricomposizione dei legami di fede fra storie difficili della vita familiare e la trasparenza testimoniale della comunione ecclesiale, non può prescindere dal discernimento delle condizioni visibili e pubbliche della riconciliazione possibile.
(Intervento ad Assisi al convegno dell’Associazione nazionale parroci e vicari parrocchiali di Italia e Albania dell’Ordine dei frati minori)