Il ministro del Papa: “Quella legge serve il governo voli più alto”

PAOLO RODARI
CITTÀ DEL VATICANO

«Sono ormai diversi anni che sono convinto non solo della urgenza ma anche della necessità di una legge come questa, una legge sullo ius soli, perché è totalmente a vantaggio del Paese. Peraltro una legislazione in merito trova una consonanza in tantissimi altri Paesi avanzati, come ad esempio gli Stati Uniti, non vedo perché dovremmo restare indietro».

Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del Matrimonio e della Famiglia, fra i capi dicastero della curia romana più vicini a Francesco, parla del riaprirsi nel Paese del dibattito sullo ius soli dopo le polemiche provocate dalle parole del vicepremier Matteo Salvini su Rami, il ragazzino che ha salvato i compagni sul bus.

Cosa pensa di quanto accaduto a San Donato Milanese?

«Quello che è accaduto a un bambino che ancora non è cittadino mostra quanto la fraternità di base abbia più valore delle stesse leggi che talora sono fredde. Non  dimentichiamo l’antico adagio summum ius, summa iniuria».

Matteo Salvini ha detto a Rami di farsi eleggere se vuole cambiare la legislazione.

«Dico solo che i fatti di questi giorni possono essere una opportunità per tutte le istituzioni e per coloro che le rappresentano per spiccare il volo, per volare più alto. Chi vuole il bene del Paese ha il dovere di farlo».

Papa Francesco non è mai intervenuto sullo ius soli, ma il tema dell’accoglienza è al centro del suo magistero.

«Se c’è una continuità in questi sei anni di pontificato, un filo che tiene insieme tutto,  senz’altro l’insistenza sul dovere dell’accoglienza, ovviamente non ingenua».

In tanti rifiutano i migranti. Perché?

«È un paradosso: è evidente che i nostri Paesi, soprattutto l’Europa, ha bisogno di forze nuove, diaprirsi senza paura a nuove generazioni anche che vengono da fuori. E invece si ha paura. Si parla di ius soli e ius sanguinis, anche se per me la parola più giusta sarebbe ius migrandi, il diritto di tutti di abitare la Terra pensata come casa comune di tutti e non esclusivo diritto di qualcuno. Così, del resto, parlavano i padri della Chiesa».

Spesso le politiche di alcuni Paesi sono volte più a bloccare i flussi migratori che a favorirli. Cosa pensa?

«Da che mondo è mondo le migrazioni sono parte della storia, di tutti i paesi, nessuno escluso. E lo sviluppo civile dei paesi è avvenuto sempre in corrispondenza della  capacità di accogliere, di integrare, e quindi di intraprendere una nuova tappa di crescita del paese. In questo senso è del tutto antistorico, oltre che anti evangelico, pensare di bloccare i flussi migratori. E soprattutto vuol dire farsi male, magari inconsapevolmente. È chiaro che il fenomeno non va né subito, né sottovalutato. Va governato, quindi c’è bisogno di grandi visioni e non di pensieri corti».

Il “no” di molte persone all’accoglienza di cosa è sintomo?

«Di un grande individualismo. Le paure ci sono eccome, ma vanno interpretate sul serio. Guai a scaricarle tutti sugli immigrati. L’uomo non è fatto per la solitudine: così, del resto, inizia anche il racconto delle Genesi. Egli è un essere sociale, un essere di linguaggio, d’incontro. Ma oggi viviamo nell’era di un nuovo individualismo che si avvita su sé stesso, slegato da vincoli e doveri che non siamo quelli attinenti all’io. Narciso è il primo santo del calendario. Ma tanti io non producono un noi, anzi si trovano davanti l’immensità del vuoto».

Cosa serve per fare il passo in avanti che ancora l’Italia non riesce a fare?

«Serve un cambiamento di mentalità altrimenti siamo tutti a rischio. Che futuro possono avere Stati, città, famiglie nelle quali al centro non c’è il bene comune? Credo che contro disparità e diseguaglianze sia necessario riscoprire il valore della prossimità ossia il bisogno di essere legati gli uni agli altri. La fraternità è sempre stata una frontiera difficile, ma è la chiave che ci apre al mondo del noi. Nessuno può vivere da solo».