Che cos’è la pena? Vendetta a rilascio lento. Senza misericordia non serve.

Caro Monsignore, ricopio un piccolo brano del Vangelo che tu, naturalmente, conosci benissimo. Io lo ricordo perché mi colpì molto quando, da ragazzino, andavo ancora a messa, ascoltavo le prediche di don Anella e studiavo anche un po’ di religione (prima di perdermi nel più cupo ateismo…). È il brano dell’adultera: “Gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè,nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo permetterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’ io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.

Ti chiedo, caro amico, tre cose. Primo: ma allora Gesù metteva in discussione la stessa possibilità di giudicare?
Non credeva cioè all’autorevolezza dei giudici e faceva discendere da questo la non legittimità del giudizio? Mi
sbaglio? Secondo. Non solo mette in discussione il diritto dei giudici a condannare ma mette in discussione la stessa condanna. Perché anche lui, che pure – a occhio – è senza peccato,neppure lui la condanna. Terzo. Gesù esclude la pena. L’unica pena è l’esortazione: non peccare più. A me piace molto questo Gesù, così moderno. Lo vedo isolato, isolatissimo, nel senso comune di oggi.Penso a quante volte ho sentito gridare: certezza della pena, “certezza della pena!” E mi pare molto dolce, persuasiva, quella frase detta quasi sottovoce: “non peccare più”.
Dimmi un po’, Monsignore: forse non ho capito niente?

Piero Sansonetti

Caro Direttore, il tema della giustizia è sempre attuale. Lo vediamo ogni giorno, in tutti i fatti di cronaca e nei dibattiti accesi che si aprono. La giustizia rappresenta forse uno dei più grandi desideri che abbiamo, continuamente disatteso di fronte alle mancanze delle persone, delle istituzioni nazionali e internazionali, e di fronte agli interessi economici, politici, sociali, e di fronte alle discrezionalità che inevitabilmente si riflettono sull’esercizio e sull’applicazione delle leggi.
Giustizia e legge: quale è il rapporto che lega due elementi centrali di ogni ordinamento statale? La legge è «giusta»?
A mio avviso le leggi che abbiamo, nell’Italia del XXI secolo, raccontano della dimensione storica del nostro ordinamento. Pensiamo al 29 gennaio 1945, tanto ma non tantissimo tempo fa. Fino a quella datale donne non
avevano diritto di voto e ne erano impedite da una legge. Superata dal 30 gennaio 1945,con l’avvio di una norma civile e moderna. Un piccolo esempio, per dire che la legge è sempre perfettibile, migliorabile, è in evoluzione con il sentire dei tempi. Pensiamo ancora alla normativa italiana cosiddetta legge Gozzini, che introduce l’idea che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. E vediamo quanta fatica continuiamo a fare dal 1975, anno di introduzione della legge, a superare l’idea che la pena sia semplicemente una «punizione» la cui durata identifica, come tale, una sorta di«risarcimento» permanente per le vittime e i loro familiari.

La giustizia è il grande sfondo ideale in cui si collocano le leggi: è il nome che diamo al nostro desiderio di una società «giusta». Ma cosa vuol dire «giusta»? Sarà giusta una società dove le leggi vengono applicate a prescindere dal potere, dal rango, dal denaro degli imputati. Sarà giusta una società dove i procedimenti siano rigorosamente solleciti ed equi, inclusivi di procedure e di monitoraggio della rieducazione delle persone giudicate colpevoli. In una parola sarà giusta una società in cui la legge sia «uguale per tutti» e riabilitante per ciascuno. In altri termini, si tratta di dare all’applicazione della «giustizia» la forza, non solo la forma, di una «ricerca» della giustizia stessa: che fa i conti con la fallibilità umana e con la capacità di riscatto, accettando la complessità delle situazioni da verificare e da affrontare per stabilire la prima e ristabilire la seconda.

In questo ragionamento forse ci aiutano due elementi dell’alto magistero ecclesiale moderno. Il primo viene da quel
grande papa che è stato Giovanni XXIII quando, nella Enciclica Mater et Magistra, mise a punto la celebre distinzione tra l’errore e l’errante. L’errore è da rilevare (lui aveva in mente il comunismo, a quell’epoca, ma si può certamente applicare in modo più vasto) e da far notare. Ma dobbiamo sempre salvare la persona concreta che sbaglia: può comprendere l’errore, può redimersi – se vogliamo esprimerci in termini religiosi. Ovvero le persone possono cambiare e rivedere la loro vita.

Fai riferimento a Gesù, alle sue parole ed azioni tramandate nei Vangeli, considerando con piacevole sorpresa la
sintonia che ti procura. Diciamo anzitutto che nel Vangelo c’è qualcosa di così vivo e di così vitale, che anche per i
credenti – per la Chiesa stessa – rimane gioiosa fonte di sorpresa, di apprendimento, di ammirazione, che sempre si
rinnova. Per quanti sforzi sono stati fatti in passato,Gesù non è mai riconducibile a una «etichettatura». Gesù non è
mai «moderno» nel senso di adeguamento all’oggi. Il Vangelo è sempre «oltre»; il suo messaggio invita ad andare aldilà dei pregiudizi, dei preconcetti, delle nostre certezze. Il Vangelo indica un orizzonte di senso più ampio ed è
nostro compito «utilizzare» le parole di Gesù per andare oltre le certezze.

Il messaggio di Gesù è: non giudicate. Nel senso, appunto, di non sostituire la chiusura nella condanna all’apertura della salvezza. Il Figlio stesso, dice Gesù, non è venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo. Ovviamente non vuol dire: liberi tutti!
Vuol dire anche – per riprendere un detto evangelico – «dare a Cesare ciò che è di Cesare» e,ovviamente «a Dio quel che è di Dio». Il denaro è nel potere della giustizia di Cesare, ma la dignità dell’uomo rimane ma la dignità dell’uomo rimane affidata alla giustizia di Dio. (E ma la dignità dell’uomo rimane affidata alla giustizia di Dio. (E esonerato alla giustizia nella sua amministrazione del denaro! Anzi, di essa, in rapporto alla dignità dell’uomo, risponderà a Dio!). Ma riprendo il racconto dell’adultera che ti ha colpito molto.In effetti è una perla di Gesù da gustare.

Senza bruciarla con scorciatoie. È sorprendente che Gesù, l’unico senza peccato, l’unico che avrebbe potuto scagliare
una pietra contro di lei, dica parole di perdono e nello stesso tempo di esortazione al cambiamento. È questo il
Vangelo dell’amore che i discepoli debbono accogliere e comunicare al mondo in un secolo così bisognoso di perdono
e anche di cambiamento. Non si tratta assolutamente di accondiscendere al peccato. Tutt’altro. Ciascun discepolo lo
sa per sé stesso. La vicenda dell’adultera riguarda tutti noi: siamo invitati ad ascoltare l’esortazione di Gesù a quella
donna: «Va’ e non peccare più!». La misericordia di Dio non è la facile copertura al male. Essa esige per sua stessa
natura il cambiamento dell’animo, dell’interiorità e anche della società. La misericordia non è un semplice «arredo» del sentimento: accoglierla significa far iniziare la «rivoluzione» della giustizia di Dio dentro di me. E se inizia dentro di me è iniziata anche nel mondo.
Il tema del perdono, della legge, della giustizia, lega insieme diversi aspetti e mostra la «qualità»umana e civile della
nostra società. I cristiani, come dice la Lettera a Diogneto – un documento straordinario della prima comunità cristiana – vivono «nel mondo» ma non sono «del mondo». Rispettano le leggi, le fanno applicare, ma allo stesso tempo sanno che c’è un «di più» dato dalla misericordia di Dio. E sanno che le leggi sono uno strumento storico, da migliorare e da «perfezionare». E a volte uno Stato può legiferare in maniera non rispettosa del sentire dei credenti e dunque sono loro a dover incalzare le autorità in base al principio superiore del rispetto della libertà di coscienza.
È il caso che ha portato in Italia alla normativa civile dell’obiezione di coscienza.
D’altro canto una giustizia degna di questo nome – e le leggi che ne sono strumento applicativo -devono (dovrebbero)
contemplare l’istanza dell’uguaglianza, dell’equità, della fraternità, del cambiamento e anche della riparazione. È
l’evoluzione civile moderna, altrimenti avremmo una versione evoluta della «legge del taglione»: erogata legalmente
dallo Stato, invece che inflitta arbitrariamente dal singolo. E non credo che, per questo, sia meno brutale e incivile.
La giustizia riparativa, di cui si parla sempre di più in anni recenti, mira esattamente a introdurre anche nel diritto penale questa logica. Essa intende promuovere la rinuncia all’idea di una pena subita passivamente dal condannato con il solo fine di rendere manifesta la gravità dell’illecito. In tal modo si recupera la prospettiva di una pena che rappresenti un percorso significativo per la persona cui viene inflitta, con riguardo ai rapporti sociali sui quali la condotta ingiusta ha inciso. In tal modo si valorizza la stessa capacità giuridica della sanzione di esprimere, riaffermandoli, valori antitetici a quelli contraddetti dal fatto criminoso e quindi ricomporre sul terreno dei rapporti inter soggettivi – e non appagando supposti bisogni di ritorsione – la frattura rappresentata dal fatto criminoso. La legge non è cancellata, si compie. Del resto, non esiste una pena giusta in sé, capace di pareggiare il danno e di misurare la colpa. Da sé sola, la pena non ripara il danno e non trasforma l’ingiustizia in giustizia. Questo è il suo enigma e il suo dramma.Anche la pena non si sottrae alla sfida della progettualità, né può esimersi dal giudizio morale circa i suoi contenuti e le sue conseguenze: giudizio, quest’ ultimo, che dipende dalla sua capacità di perseguire il bene comune rispondendo alle esigenze della dignità umana di tutti i soggetti(vittime e agenti) coinvolti nel reato. Una giustizia «spietata», ossia senza la pietas, non aiuta a cambiare. Anzi lascia una ferita nella società. È necessario scendere nelle profondità dell’animo sia del colpevole sia dell’offeso. In modi ovviamente diversi, ambedue sono chiamati ad atteggiamenti nuovi che interrompano il circolo vizioso della vendetta e dell’indurimento. E in questo è chiamata in causa anche la società di cui ambedue gli attori fanno parte. Si tratta di ritessere un tessuto lacerato. È evidente che tendiamo a pensare alla pena come una sorta di vendetta a lento rilascio. Siamo esseri umani! Per questo tuttavia possiamo e dobbiamo cambiare. Lo Stato civile non ricorre alla vendetta:applica le sue leggi e punta al recupero della persona condannata. Il credente ha dalla sua parte il«pungolo» continuo di Gesù e del Vangelo: c’è una giustizia «maggiore» basata sul principio «ama il prossimo tuo come te stesso». Per funzionare, la società ha bisogno di entrambi gli aspetti: una«giustizia» della legge capace di certezza della sua applicazione e una «misericordia» che sappia guardare alle persone e reintegrarle nel consesso civile.