Accompagnarsi sempre: la dignità del vivere e del morire

Ringrazio per l’invito a rivolgervi qualche riflessione in questa giornata che dedicate a “Il rapporto medico-paziente nel fine vita”. Il titolo propostomi è quello del volume che recentemente ho scritto: “Sorella morte. La dignità del vivere e del morire”. Vorrei sottolineare di questo tema quell’orizzonte umanistico indispensabile al cui interno si colloca anche quel singolarissimo e preziosissimo rapporto che lega il medico a colui che sta vivendo l’ultima tappa della sua esistenza. Mi riferisco a quella che chiamerei cultura dell’accompagnamento che, in verità, è per me il paradigma dell’intera convivenza umana. E quindi anche della sua fine. Ma deve innervare i rapporti umani dall’inizio sino alla fine. Queste mie brevi riflessioni assumono inoltre il tono di una testimonianza di questo accompagnamento.

Inizio con un’amara constatazione che sale anche dalla mia personale esperienza, ma non solo: tante persone, troppe, muoiono sole, senza una compagnia. E molte persone, troppe, non sanno più stare accanto a chi muore. Viviamo in una società che rischia di non avere più parole per comprendere e vivere il tempo ultimo della vita. Credo sia urgente riflettere sulla indispensabilità dell’accompagnamento se vogliamo dare dignità al vivere e al morire. Paul Ricoeur avverte con saggezza: “accompagnare è forse il termine più adeguato per designare l’attitudine grazie alla quale lo sguardo sul morente si rivolge verso un agonizzante che lotta per la vita fino alla morte, e non verso un moribondo che presto sarà morto”.

L’accompagnamento, per il filosofo francese, è un insieme amalgamato di attenzione, di comprensione, di amicizia, di fedeltà, che crea uno straordinario circolo virtuoso di amore tra chi muore e chi lo accompagna. Tale prospettiva – seppure in maniera diversa – è presente in tutte le religioni. Certo, la fede aiuta a vivere il mistero della morte. Il cardinale Martini diceva: “E’ soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l’insieme della nostra esistenza a giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna”. Una prospettiva analoga è quella di alcuni non credenti che auspicano un orizzonte spirituale, sebbene intramondano, per poter accogliere la morte come parte dell’esistenza umana.

L’accompagnamento nell’orizzonte della fede tocca le profondità del cuore di chi muore e di chi gli sta accanto. Madre Teresa di Calcutta racconta: “Un giorno ho raccolto un uomo che giaceva nel canale di scolo. Il suo corpo era coperto di vermi…Non ha proferito maledizioni, non ha biasimato nessuno. Ha detto semplicemente: ‘Ho vissuto come un animale, ma morirò come un angelo, come qualcuno che è stato amato e di cui ci si è presi cura’. Furono necessarie tre ore per lavarlo. Infine l’uomo sollevò gli occhi alla suora e disse: ‘Sorella, me ne torno a casa, da Dio’, e morì. Non ho mai visto un sorriso luminoso quanto quello che vidi allora sul volto di quell’uomo…”.

Sino a pochi decenni fa la morte – e quindi anche l’opera del medico – avveniva in un contesto comunitario. L’accompagnamento ha trovato nel corso dei secoli, di volta in volta, le sue manifestazioni. Non solo ha sollevato da angosce i più diretti interessati ma ha scandito l’organizzazione stessa della società. E’ un enorme capitolo di sapienza religiosa ed umana che ha segnato generazioni e generazioni di credenti. Dovremmo trarne insegnamento. Faccio fatica a immaginare una società che non sappia dire nulla sulla morte, su quella dei propri cari, dei piccoli, degli innocenti e sulla esistenza di chi resta.

Il dono di accompagnarsi a vicenda, legandosi l’un l’altro, il malato e il sano, il medico e il paziente, delinea il paradigma stesso della esistenza umana, come ho accennato all’inizio. E’ il modo umano di vivere e di morire. In questo orizzonte – lo ripeto – va compreso anche il tema della relazione medico-paziente. E lo stesso dibattito sul fine vita. Personalmente credo che si debba accompagnare la vita umana sin dal suo sorgere nel senso materno, e continuare lungo tutto l’arco degli anni nella quale si sviluppa. Di qui la mia battaglia contro l’aborto, la violenza sui piccoli, sugli adolescenti, sui giovani perché abbiano un futuro, contro la violenza sulle donne, contro la guerra, contro la fame nel mondo, contro la pena di morte, contro l’eutanasia. E’ una visione forse utopica, ma per me pienamente umanistica.

Anche le questioni ultime rientrano in questa visione. E vorrei che la polarizzazione ideologica non costringesse a rinchiudere tali tematiche solo nelle strette maglie legislative. Un giurista come Zagrebelsky avverte: “Stiamo attenti, perché sulle questioni ultime, siamo sempre penultimi”. Il mistero della vita e della morte sfugge nella sua complessità alle sole maglie legislative, quale che sia il modo in cui esse possano essere pensate, approvate e introdotte nell’ordinamento giuridico. Oggi una legge sul “fine vita” può rivelarsi necessaria, per evitare la burocratizzazione della morte, per prevenire soprusi e violenze, anche inconsapevoli,  da parte dei medici sui malati e a volte – ahimè – anche da parte dei malati sui medici (in quei casi estremi in cui la legittima autodeterminazione del paziente, attraverso il c.d. “testamento biologico”, può arrivare alla pretesa di paralizzare l’intervento di un medico).  Ritengo però illusorio affidare solo ad una norma la soluzione delle grandi domande sulla vita e sulla morte: non potrà mai essere solo una legge – anche se dovesse rivelarsi necessaria per evitare soprusi – a poter sciogliere il mistero profondo del passaggio finale dell’esistenza umana e dell’aiuto di cui chi muore ha bisogno. E’, invece, indispensabile una riflessione ampia, profonda – anche accesa – per attuare un giusto accompagnamento che coinvolga anche il piano legislativo. L’obbligo della legge (ob-ligatio) se non è suscitato dal legame (ligatio) tra le persone, resta inevitabilmente formale ed esteriore e priva le persone coinvolte della indispensabile fatica della responsabilità.

Si parla spesso di eutanasia per motivi di pietà, di dignità, di libertà. Aggiungerei anche il termine “fraternità” a questo elenco. Ebbene, come non comprendere che affidare ad una fredda norma la vita di una persona rischia di essere una fuga dalla responsabilità che tutti abbiamo di aiutare e salvare chi è nel dolore? Una fredda norma non rende ancor più semplice quel “lavarsi le mani” che contrasta con l’accompagnare chi intraprende un viaggio così “sacro” come quello della morte? Se si attenua il primato della responsabilità è più facile seguire l’antica via di Pilato di lasciare ad altri – alla freddezza di una fredda disposizione  normativa – quel che spetta primariamente all’uomo. Ciascuno ha bisogno dell’altro, soprattutto nei momenti più difficili. Il malato ha bisogno del medico e viceversa. E ciascuno con le sue responsabilità. Accomunati da una fraternità sostanziale. Credo che debba essere la circolarità e la reciprocità delle relazioni che deve presiedere la vita dei singoli e delle società, soprattutto nei momenti più alti e più difficili della vita.

C’è un “oltre” nella relazione con i malati che coinvolge tutti, anche il medico. Il malato che si avvia alla morte ha bisogno della vicinanza dell’uomo che sta in salute per sentirsi parte dei vivi. Chi resta solo, soprattutto nel momento drammatico del dolore, facilmente chiede di essere affrancato in fretta dalla vita da cui si sente, appunto, già escluso. Vale l’amaro avvertimento di Georges Bernanos: “Non sottraete un infelice al suicidio dandogli dimostrazione che il suicidio è un atto antisociale, perché il poveretto sta proprio pensando di disertare con la morte una società che lo disgusta”.  Non è doveroso far ritrovare a chi sta morendo la sua posizione di onore nel seno della famiglia e della società? Eppure siamo lontani da una cultura solidale che lo aiuti a non sentirsi un peso. Dobbiamo avere la forza morale di favorire in lui il senso della sua dignità, anche in quella condizione. Ma questa scelta scaturisce se si afferma una cultura del convivere.

Mi paiono molto sagge le riflessioni che Marie de Hennezel trae dalle lunghe ore passate accanto ai malati terminali di diverse età, di diverse condizioni, di diverse fedi, ma tutti accomunati da un’unica sorte di sofferenza alle soglie della morte. Scrive: “Nel momento in cui la morte è vicina, in cui predominano tristezza e sofferenza, ci possono essere ancora vita, gioia, moti dell’animo di una profondità e di una intensità talvolta mai vissuta prima”. E continua: “In un mondo che ritiene che la ‘buona morte’ sia la morte improvvisa e repentina – preferibilmente in stato di incoscienza, o perlomeno rapida, per disturbare il meno possibile la vita di chi resta – una testimonianza sul valore degli ultimi istanti della vita, sull’incredibile privilegio di esserne testimoni, non mi sembra superflua. Anzi, spero di contribuire a un’evoluzione della società, una società che, invece di negare la morte, impari ad integrarla nella vita, una società più umana, in cui, consapevoli della nostra condizione di esseri mortali, avremo più rispetto per il valore dell’esistenza”.

Stringere la mano di chi sta morendo diviene tra le più urgenti e più profonde pratiche umane da riprendere. Purtroppo, di fronte alla morte, oggi facilmente si fugge, come in una fuga generale, “ciascuno-per-sé”, per non sentire e soprattutto per non vivere nell’imbarazzo di una situazione per la quale non si hanno più parole. Mi impressionò, tanti anni fa, leggere una testimonianza di una giovane infermiera che cadde malata e si trovava in fin di vita. Scrisse queste parole alle sue colleghe ospedaliere che entravano ed uscivano dalla sua stanza un po’ imbarazzate: “Voi entrate e uscite dalla mia camera, mi portate le medicine, misurate la pressione. E’ forse perché sono infermiera io stessa o, semplicemente, un essere umano, che avverto la vostra paura? Questa paura mi si comunica. Di che cosa avete paura? Sono io che muoio. Lo so, siete impacciate, non sapete che cosa dire, che cosa fare. Ma, credetemi, se voi partecipate alla mia morte non commettereste un errore. Riconoscete per un momento che vi importa di me (è ciò che noi, tutti i moribondi, cerchiamo): restate, non andatevene, aspettate. Tutto ciò che io voglio è che ci sia qualcuno che mi tenga la mano quando ne avrò bisogno. Ho paura”.

E’ facile, purtroppo, preferire anche in questi casi la concentrazione su di sé alla vicinanza a chi ha bisogno. L’individualismo conduce a pensarci soli, anche dinanzi al destino personale. Non credo che ne abbiamo guadagnato in libertà. Al contrario, ci siamo impoveriti ancor più. Nessuno vuole morire da solo. Tutti desideriamo di essere accompagnati nei momenti difficili, soprattutto in quello della morte. Olivier Clément, con grande sapienza religiosa ed umana, diceva: “Lo sappiamo bene, quando un nostro caro è prossimo alla morte, ogni parola, ogni gesto potrebbe essere l’ultimo. Il più piccolo segno di attenzione si carica allora di tutto il peso della comunione umana, quella comunione di cui abbiamo nostalgia ma che quasi quotidianamente evitiamo”.

E’ bene perciò abituarsi a stare vicini gli uni gli altri, già nel corso della vita. E a stare vicino alle persone fragili e a quelle che si indeboliscono. Se l’accompagnamento diviene una cultura diffusa e praticata sarà certo molto più facile stare accanto a chi muore. Il rarefarsi dei rapporti e il raffreddarsi delle relazioni gratuite, spiegano l’allargarsi della solitudine e dell’abbandono nei momenti della morte. E’ difficile colmare all’improvviso abissi di indifferenza, vuoti di rapporti, assenza di parole. Chi si avvicina alla morte sente venir meno non solo la vita ma anche la presenza degli altri. Gli stessi medici e gli infermieri debbono sentire la responsabilità di educarsi all’ascolto e alla relazione con chi sta per morire. Nelle relazioni umane non è sufficiente una professionalità slegata dalla qualità umana della relazione. Insomma, prima di essere dei professionisti, tutti siamo anzitutto uomini e donne. Per questo è anche forte la responsabilità dei parenti e degli amici nello stare accanto a chi muore, a partire dalla più semplice delle relazioni, come per esempio tenere strette le mani dell’altro. Dinanzi alla vertigine della morte le “mani strette” hanno un valore inimmaginabile: significano legame, amore, sicurezza, continuità. L’amore che trasmettono le mani che carezzano, che detergono, che aiutano, che lottano contro il dolore e l’agonia, in certo modo sconfigge la morte. La morte, in effetti, mette fine alla vita, ma non alla relazione.

Il dono della compagnia è reciproco: permette a chi sta per morire di rimanere vivo fino alla fine e di traversare il momento della morte gustando già – potremmo dire in anticipo (per chi crede) – l’amore che lo attende; e permette a chi lo accompagna di ricevere una lezione dalla debolezza di chi muore. C’è uno scambio di doni: si capisce che ciascuno di noi ha bisogno dell’altro. E’ difficile comprendere la morte senza riconoscere la propria debolezza, senza cogliere i propri limiti, insomma senza essere umili. L’amore è umiltà e accoglienza dell’altro. Accompagnando chi muore mostriamo l’importanza che lui ha per noi: non è un peso, è un dono anche così. E se riesce a leggere nel nostro sguardo, nelle nostre mani, nei nostri gesti, l’affetto che nutriamo per lui, comprenderà quanto sia grande la sua dignità e quanto egli sia importante per noi: non solo ne sarà consolato, ma ci trasferirà una consolazione prima inimmaginabile. Anche chi sta morendo dona a chi gli sta accanto.

Confesso che la lunga compagnia che con gli amici di sant’Egidio abbiamo vissuto accanto agli anziani e ai malati terminali, quest’ultimi anche giovani, soprattutto quando negli anni passati la mortalità per l’Aids era altissima, ci ha obbligato a trovare gesti e parole che potessero scaldare il cuore e portare un po’ di consolazione. Questa lunga esperienza ci ha permesso di maturare un ricco patrimonio di sapienza che aiuta a stare accanto in maniera appassionata – e quindi anche esigente – a coloro che stanno per attraversare la soglia della morte. Questo patrimonio sapienziale – che per me chiaramente affonda le radici nelle pagine evangeliche – è un nutrimento che va ben oltre il terreno dei credenti perché aiuta a far crescere una cultura della vicinanza e dell’accompagnamento che fermenta l’intera società. Mi auguro che si sviluppi un dibattito sulle questioni relative al vivere e al morire iscritto in un orizzonte umanistico. Una società globalizzata ha bisogno di tali prospettive che restituiscono la dignità sia del vivere che del morire. E’ la sfida di questo inizio di millennio.

In questo passaggio della storia che trova le società per lo più prive di visioni è indispensabile impegnarsi con maggiore creatività da parte di tutti al fine di individuare un orizzonte comune, anche rispettando le diversità, ove iscrivere il senso del vivere e del morire. Non si deve dimenticare lo scarto e lo scandalo che, comunque, la vita e la morte gettano nel pensare e nel convivere umano. Potremmo dire che tutti, nessuno escluso, ci troviamo comunque davanti al mistero. Ed è proprio lo spazio del mistero che dobbiamo salvaguardare.