La famiglia: tra sfide culturali e istanze pastorali

Verso una società a basso tasso di famigliarità

La situazione contemporanea della famiglia è paradossale: da un lato si attribuisce un grande valore ai legami familiari, sino a farne la chiave della felicità. I dati statistici rilevano che la famiglia è sentita dalla maggioranza delle popolazioni di tutti i paesi come il luogo della sicurezza, del rifugio, del sostegno per la propria vita. Dall’altro, la famiglia è divenuta il crocevia di tutte le fragilità: i legami vanno a pezzi, le rotture coniugali sono sempre più frequenti e, con esse, l’assenza di uno dei due genitori. Le famiglie si disperdono, si dividono, si ricompongono, se ne moltiplicano le forme. Gli individui possono “fare famiglia” nelle maniere più diverse: qualsiasi forma di “vivere insieme” può essere reclamata come famiglia, l’importante – si sottolinea – è l’amore. La famiglia non è negata, ma viene posta accanto a nuove forme di vita e di esperienza relazionale che sono apparentemente compatibili con essa, anche se in verità finiscono per scardinarla. I dati mostrano l’affermarsi di una sorta di circuito disincentivante verso il “fare famiglia”.

L’orizzonte culturale e sociale nel quale si iscrive la crisi della famiglia è quel processo di “individualizzazione” che sta caratterizzando le nostre società. La spinta alla affermazione di sé, alla realizzazione di sé, al benessere individuale, sino al culto di sé, ha invaso la sensibilità della maggioranza. Ne emerge un mondo ove l’io prevale sul noi e l’individuo sulla società. E’ quasi scontato che in tale contesto si preferisca la coabitazione al matrimonio, l’indipendenza individuale alla dipendenza reciproca. La famiglia, in una sorta di ribaltamento sociale, più che “cellula base della società” viene concepita come “cellula per la realizzazione di sé”.  La coppia matrimoniale è pensata solo in funzione di sé: ciascuno cerca la propria singolare individualizzazione e non la creazione di un “noi”, di un “soggetto plurale” che trascende le individualità senza ovviamente annullarle, anzi rendendole più autentiche, libere e re-sponsabili. L’io, nuovo padrone della realtà, lo è anche della famiglia. In un contesto come questo, la famiglia così come è stata concepita per secoli, fa fatica a resistere. E fanno riflettere le conclusioni che alcuni studiosi ricavano dalle loro rilevazioni statistiche sull’andamento dei matrimoni e delle famiglie. Le loro ricerche fanno emergere una singolare crescita in questi ultimi anni delle cosiddette famiglie “unipersonali”; un fenomeno che appare chiaro in Europa. Se da una parte c’è il crollo dei matrimoni e delle famiglie “normo-costituite”, ossia composte da padre-madre-figli, dall’altra crescono quelle formate da una sola persona, uni-personali. La diminuzione dei matrimoni religiosi e di quelli civili non si trasferisce nella formazione di altre forme di convivenza, ma nella crescita di persone che scelgono di stare da sole. E’ una cultura il cui esito è l’insopportabilità di ogni legame stabile.

Il crollo della famiglia, pertanto, non si sta traducendo nella crescita di altre nuove e diverse modalità di famiglia, bensì semplicemente in meno famiglia e di minore tenuta e consistenza e nell’aumento delle persone che scelgono di vivere da sole. Si potrebbe dire che l’affermazione biblica “Non è bene che l’uomo sia solo” (da cui è originata la famiglia e la stessa società) stia cedendo il passo al suo opposto, ossia “è bene che l’individuo sia solo” (da cui deriva l’individualismo sociale ed economico). L’io, l’individuo, sciolto da qualsiasi vincolo, viene contrapposto al noi. E la famiglia, fondamento del disegno di Dio sull’umanità, è divenuta la pietra d’inciampo di un individualismo senza freno.

Una crisi di crescita?

Ma la famiglia, nonostante tutti gli attacchi, resta salda, per sua forza interna: non esistono sostituti o equivalenti funzionalità della famiglia. E’ un ideale che chiede stabilità: è uno dei cardini di quel nuovo umanesimo di questo nuovo millennio. La prova la stiamo vedendo in questo tempo di pandemia: di fronte all’assalto del Covid-19 è la famiglia, con tutte le sue debolezze, ad essere il luogo del rifugio e della stabilità. Questo tempo di pandemia mostra con evidenza che la famiglia è una forma sociale unica. La famiglia consente di articolare in maniera stabile due tipi di relazione – quella sessuale (maschio-femmina) e quella generazionale (genitore-figlio) – che sono segnate da una irriducibile differenza accompagnata e custodita nel legame e nella reciprocità. La famiglia, in un mondo in cui la scelta è sempre e solo provvisoria, è comunque il luogo di relazioni forti che incidono in maniera profonda nella vita dei singoli membri. L’altro, nella famiglia, perde la sua connotazione di instabilità, come invece ormai accade nella maggior parte degli ambienti sociali, e non solo quelli digitali: basta cambiare canale, amicizia, partito… Quando si cerca solo chi ci somiglia si tende a evitare il confronto con l’alterità e la vita si trasforma in una grande stanza degli specchi, o degli echi. Nella famiglia l’altro non può essere annullato. La famiglia – eterosessuale e riproduttiva – in quanto forma sociale unica è anche una scuola particolarissima di educazione all’alterità. Non è solo una risorsa ma anche una sorgente viva che alimenta la socialità tra diversi senza fagocitare le differenze. La stessa genitorialità – intesa come apertura alla trascendenza del figlio – implica alterità e amore senza preferenza. Il figlio, per fortuna e almeno fino ad oggi, non si sceglie. Né il figlio sceglie il genitore.

Certo, la forma della famiglia, nel corso del tempo, si è organizzata secondo forme diverse, sempre però all’interno delle sue due dimensioni costitutive, quella generazionale e quella sessuale, anche se ognuna delle quali ha avuto i suoi limiti e i suoi problemi. Ma nel corso dei secoli, la famiglia ha imparato a rispettare la libertà individuale e a creare condizioni di un più effettivo rispetto reciproco. In particolare, i rapporti  famigliari si sono man mano liberati dall’idea del possesso o dall’assunzione acritica dei modelli di disuguaglianza dati per scontati nel contesto sociale circostante. Basti pensare, ad esempio, al rapporto maschile/femminile o padre/figlio, che hanno subito profonde rielaborazioni, rendendo la famiglia più consona all’avanzare  dello sviluppo.

Non si deve però dimenticare il rischio del ‘familismo’: ossia la tendenza a favorire in ogni modo, anche fuori dal contesto familiare, i membri del proprio nucleo. Questa tendenza è stata causa di molteplici derive ‘amorali’, come la contrapposizione tra il bene interno al gruppo familiare e il bene della comunità più allargata. Riuscire a conservare il calore e l’affetto all’interno della famiglia, senza compromettere la sfera pubblica e le condizioni dell’universalismo, è stata e ancora oggi è una sfida difficile. Lo dimostra l’oscillazione tra la permanenza di forme di familismo regressivo, da un lato, e l’affermazione di un individualismo radicale, dall’altro.

Ma la crisi che sta vivendo l’istituto familiare può essere però anche una crisi di crescita. E quindi una grande sfida da raccogliere. Certamente dobbiamo essere molto più attenti al desiderio profondo degli uomini e delle donne di oggi che è appunto quello di avere una famiglia come il luogo centrale per la propria vita. Il contesto culturale è ostile a questo desiderio. Ma è illusorio pensare di sradicarlo. La sfida che abbiamo davanti è quella di favorire modelli rinnovati di famiglia: una famiglia più consapevole di sé, più rispettosa del suo legame con l’ambiente, più attenta alla qualità dei rapporti interni, più interessata e capace di vivere con altre famiglie. Potremmo dire: se da una parte c’è meno famiglia, in senso quantitativo, dall’altra vi è più famiglia, in senso qualitativo. Del resto, fino ad oggi, nessuna via è stata trovata dall’umanità per la piena umanizzazione di coloro che nascono alla vita. La famiglia rimane – potremmo dire anche grazie ai suoi difetti e limiti – il luogo della vita, del mistero dell’essere, della prova e della storia. La sua unicità la rende un incredibile e insostituibile “patrimonio dell’umanità”.

Una teologia della famiglia

C’è una responsabilità della teologia in questa sfida che abbiamo davanti. Purtroppo la riflessione teologica sulla famiglia come tale è debole e povera, ancora oggi. Molto si è riflettuto sulla coppia e numerosi sono gli studi sul matrimonio – inteso nella sua realizzazione di coppia – soprattutto sul versante giuridico-canonico, anche se nel Codice di Diritto è praticamente assente il Diritto della famiglia. Ma ancor più rara è una vera e propria teologia della Famiglia, salvo qualche rarissima eccezione. E’ indispensabile e urgente una più approfondita teologia del matrimonio.

Ed è quel che il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e la Famiglia si è proposto. Il nuovo piano di studi punta decisamente a riscattare la densità cristiana e umana dell’istituzione famigliare, riconoscendo in essa il luogo effettivo della fecondità stessa del sacramento cristiano.  L’idea che guida il progetto ha una sua chiara finalità: la famiglia, con tutta la costellazione dei suoi rapporti, interni ed esterni, che non è la semplice “conseguenza” del matrimonio, è piuttosto il suo “svolgimento” e la sua prosecuzione nella società, nella Chiesa. La concretezza della storia famigliare, deve perciò essere considerata “materia nobile” della teologia dell’amore umano: è quella teologia “coi piedi per terra” di cui parla Amoris laetitia. La teologia, che ha giustamente riscoperto il carattere fondante dell’amore intimo e fecondo della coppia umana con la sua capacità di rimandare alle profondità cristologiche e trinitarie del mistero dell’amore di Dio, è rimasta decisamente povera a riguardo alla famiglia nella complessità dei suoi rapporti. E’ un vuoto che deve essere colmato.

Non è questa la sede per esporre in maniera adeguata tale prospettiva. Mi permetto di dire la disponibilità dell’Istituto Teologico Giovanni Paolo II per realizzare anche qui in Colombia un legame stabile con una Università Cattolica che l’episcopato ritiene adatta. Lo abbiamo realizzato già in altri Paesi dell’America Latina, come il Cile, Porto Rico, Santo Domingo. E’ comunque indispensabile avviare una nuova riflessione teologica se vogliamo che anche la pastorale ritrovi un nuovo vigore. Ripetere quanto sino ad ora abbiamo ripetuto non serva, tutto resterà come prima.

Sento vero anche per noi oggi l’invito di Gesù a quei farisei che gli chiedevano se fosse lecito ripudiare la propria moglie. E Gesù li rimandò al momento della creazione, secondo la narrazione di Marco 10, 2-9. Dobbiamo anche noi tornare a riflettere sulle origini per comprendere il disegno di Dio sulla famiglia. Mi permetto qualche spunto che illumina la vocazione e la missione della famiglia. Va compresa in tutta la sua forza la decisione di Dio di affidare all’alleanza dell’uomo e della donna sia la “terra” (perché diventi il loro “habitat”), sia la responsabilità delle generazioni (ossia dei legami che fanno la storia umana). Le prime pagine della Genesi ci dicono che la storia del mondo e la storia della sua salvezza, camminano sulle gambe di questa alleanza di Dio con l’uomo e la donna. Dove essa è attiva e feconda, l’umanesimo cresce e la promessa custodita dalla fede viene sostenuta e onorata. Dove quell’alleanza si sfalda, l’umanesimo si arresta e la promessa della fede viene mortificata.

Come si vede bene siamo ben lontani dalla famiglia romantica che la cultura contemporanea promuove: un amore della coppia come il cuore, come la sostanza del matrimonio.  Il testo biblico parla di un’alleanza che ha il sapore cosmico, storico, di una potenza e responsabilità straordinarie. A quell’alleanza Dio affida l’intera creazione e l’intera storia delle generazioni.

L’alleanza dell’uomo e della donna alla guida della storia

Permettetemi ora una breve narrazione di sapore teologico circa il primo racconto biblico della creazione quando Dio decide di creare l’umano. L’autore biblico per ben tre volte, in due versetti, ripete che Dio fece Adam “a sua immagine: maschio e femmina lo creò”. Quella umana non è l’unica forma di vita contrassegnata dalla differenza sessuale, ma è l’unica forma di differenza sessuale contrassegnata dall’immagine e dalla somiglianza di Dio. Il maschio, nel racconto biblico, è realmente “signore”, e la femmina è realmente “signora”. Essere a “immagine di Dio” non significa essere semplicemente “copia” e “riproduzione”, quanto piuttosto essere costituiti nella forma propria della differenza, di una propria libertà, di una propria signoria, di un proprio spirito. L’uomo e la donna, in tale prospettiva, sono interlocutori di Dio: che vuole essere amato e non subìto. E’ qui la radice della libertà e della dignità “signorile” che Dio ha donato all’uomo e alla donna. Essi sono interlocutori veri di Dio.

Certo, il gesto creatore di Dio è un insostituibile principio ispiratore per la signoria consegnata all’uomo e alla donna. E’ difficile capire su quali basi questa signoria biblica abbia potuto essere equivocata, come accade in qualche voce della cultura recente, nel senso di una indiscriminata autorizzazione ad un atteggiamento prevaricatore, predatorio, distruttivo, della specie umana. E’ come attribuire alla parola biblica di Dio gli orrori che essa chiaramente condanna, proprio nella rivelazione dell’inizio del mondo. E’ proprio quando l’umano si sottrae all’amabile e giusta consegna della signoria di Dio, che egli diventa prevaricatore, violento e distruttore. E non solo verso la natura e la terra, ma anche al suo interno: a cominciare dal rapporto fra maschio e femmina.

Anche in conseguenza di ciò, il modo in cui la differenza è stata vissuta, ha conosciuto molte mutazioni e trasformazioni. Le domande a riguardo del senso e dei limiti di questi mutamenti si sono fatte radicali. Di certo, possiamo dire siamo diventati tutti più sensibili alla necessità di ripensare la dignità umana di questa differenza, con speciale riguardo per la condizione femminile. Su questo registro, infatti, lo status sociale e culturale della donna (anche quello ecclesiale), chiede di essere pensato in termini più coerenti. Questo approfondimento, certamente, non può avvenire senza una corrispondente riformulazione della qualità maschile dell’umano. La differenza si lascia comprendere soltanto in riferimento alla relazione, viceversa.

Lo stretto legame dell’immagine creaturale di Dio con la differenza sessuale dell’umano, che fa tutt’uno col pensiero e con l’azione creatrice di Dio, ci ricorda che si tratta di una differenza oltre la quale non possiamo risalire, per comprendere l’umano. Ciò significa che gli uomini, da soli, e tra loro, non possono capire l’umano compiutamente e sino in fondo. E neppure le donne, da sole, e tra loro, possono farlo. E se cercano per questa via, gli uni e le altre, non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere umano in quanto maschio e in quanto femmina. Insomma, l’umano non è una proprietà esclusiva, bensì condivisa fra i due. Per venirne a capo, devono parlarsi, ascoltarsi, interrogarsi. E considerarsi con benevolenza, trattarsi con rispetto, cooperare con amicizia nel compito di addomesticare l’habitat mondano e di migliorare l’umana generazione. Non c’è altra via. E infatti, quando abbiamo percorso, e percorriamo, altre vie, cresce la confusione e l’incomprensione dell’umano di tutti. E anche l’infelicità dell’uomo e della donna.

“Non è bene che l’uomo sia solo”

L’umano dunque, va cercato insieme, dall’uomo e dalla donna, e senza mortificare la dignità umana della loro differenza: altrimenti l’umano di tutti non sarà mai veramente trovato. Nella narrazione biblica si parla di un “ripensamento” di Dio. E da questo ripensamento sgorga una meraviglia del tutto inimmaginabile: la creazione della donna! Dio ha appena creato l’uomo, potremmo dire il suo capolavoro, dopo aver creato l’intera natura. Tutti abbiamo in mente il dipinto emozionante di Michelangelo, che si trova nella Cappella Sistina, dove si vede un Adamo bellissimo, adagiato come un principe, che tende il dito verso Dio. E Dio che gli corre incontro, in una nuvola di angeli, con il dito puntato verso di lui, per comunicargli la scossa della vita dell’anima, che appunto solo Dio può dare. Ma Dio – così continua il racconto biblico – guardando Adamo ha un forte ripensamento, tanto che dice: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (Gn 2, 18).

La prima curiosità è proprio questa: come mai Dio non ci ha pensato prima? La bellezza del racconto sta proprio nella tenerezza che sta dietro a questo ripensamento, che non è dovuto al fatto che la persona creata era difettosa. Dio, guardando Adamo, restò commosso dalla sua solitudine. “Non è bene” per l’uomo questa solitudine. Bisogna fare qualcosa. Dio, inizialmente, presenta ad Adamo una quantità inimmaginabile di esseri viventi, per vedere come li chiama, e se qualcosa si illumina in lui. L’uomo dà a tutti i viventi un nome – un’altra grande immagine della signoria accordata alla creatura umana! – ma nessuno gli tocca il cuore. Quando Dio finalmente crea la donna, l’uomo riconosce con entusiasmo, in quella diversità, la reciprocità perfetta. La donna arriva come perfetto interlocutore, come incarnazione della dignità spirituale umana al femminile: ecco ciò che Dio inventa, nel suo “ripensamento”!

Eva non è una creatura di Adamo, e neppure il frutto della sua immaginazione, e tanto meno un sottoprodotto del maschio. Eva è creatura di Dio, esattamente come Adamo. L’estraneità di Adamo – che dorme! – alla creazione della donna, è proprio il simbolo del fatto che lei non è in alcun modo una creatura dell’uomo. La famosa costola, qui, è per far capire che l’umanità di “lei” non è affatto estranea all’umanità di “lui”. Esiste un pensiero dell’antica sapienza ebraica, raccolta nel Talmud, la cui eleganza poetica restituisce anche la migliore esattezza dell’interpretazione teologica: “La donna è uscita dalla costola dell’uomo: non dai piedi perché dovesse essere calpestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale, un po’ più in basso del braccio per essere protetta, e dal lato del cuore per essere amata”.

E’ un errore grave rimuovere la differenza tra l’uomo e la donna. Questa rimozione, quale che sia il progetto di vita di ciascuno, è una perdita per tutti. Non si tratta di negare, naturalmente, il fatto che l’interpretazione di questa differenza e delle sue figure sociali e culturali, rimanga assegnata alla nostra libertà e responsabilità. Ma i tratti fondamentali di questa differenza e dell’alleanza alla quale è in primo luogo destinata, devono essere apprezzati come un dono, non concepiti come un ostacolo.

La differenza è una benedizione per la storia. La custodia di questa alleanza dell’uomo e della donna, anche peccatori e feriti, confusi e umiliati, sfiduciati e incerti, è dunque per noi credenti una vocazione appassionante, nella condizione odierna. La Genesi mostra la dimensione fondamentale della relazione tra le persone. Anzi, tra le persone e l’intera creazione. Il messaggio biblico è chiaro: l’uomo e la donna vengono da Dio e sono indissolubilmente legati l’uno all’altra. Per ambedue è impossibile vivere senza l’altro. La polarità creaturale uomo-donna è costitutiva per l’umanesimo biblico. L’immagine di Dio sulla terra, pertanto, è la fraternità tra tutti. Ci si completa a vicenda. Secondo la narrazione biblica, l’alleato di Dio sono l’uomo e la donna insieme. Il termine del processo creativo è l’umanità: uomo e donna come custodi della creazione, intesa come casa comune. Nessun individuo può dirsi perciò assoluto (ab-solutus, ossia sciolto dagli altri). L’uomo è strutturato per stare in comunione con gli altri. Da solo, sta male. Anche Dio è così, sembra dire in tutte le sue pagine la Bibbia. Egli non è una solitudine, non è un singolo per quanto potente. E’ una comunione di tre Persone, diverse l’una dall’altra ma ciascuna bisognosa dell’altra. E’ il mistero cristiano della Trinità alla cui immagine l’uomo e la donna sono stati creati. Il Dio cristiano non è monoteismo assoluto, è un monoteismo generativo. Così è della famiglia.

La questione femminile già all’inizio della storia umana

Il Creatore affida alla loro alleanza l’intera creazione. Li mette però in guardia da un pericolo mortale: se avessero ceduto alla tentazione di fare di loro stessi i padroni assoluti del bene e del male – “mangiando” il frutto dell’albero, che arricchisce comunque il “suo” giardino – si sarebbero autodistrutti. Avevano tutto a loro disposizione, salvo il frutto di quell’albero. I due scelsero di ascoltare la voce del serpente, disobbedendo a quella di Dio. E sentirono la loro nudità.

Dio, davanti alla fiducia tradita, si rivolge loro mostrando le conseguenze negative della loro fiducia al serpente: non si trattava solo della fatica del vivere che fa da contraccolpo alla frustrazione dell’illusione di onnipotenza. Il loro stesso rapporto sarebbe stato insidiato dalle mille forme della prevaricazione e dell’inganno reciproco. La storia continua ad illustrare largamente ancora gli effetti di regressione di questo rapporto, quando accumula prepotenza e seduzione che sono in contrasto con l’intenzione originaria di Dio. L’autore sacro si sofferma sul tragico momento dell’uscita dei progenitori dal giardino di Dio. Mentre stanno per lasciare il giardino Dio si commuove e cuce per loro due vestiti perché non soffrano troppo il freddo della storia. E con una durezza sorprendente si rivolge al serpente maledicendolo: “Io porrò inimicizia tra te e la donna…questa ti schiaccerà il capo”(Gn 3,15). C’è una inimicizia originaria tra la donna e il male. E la donna è più forte: lo schiaccerà. Non mi dilungo ma è evidente che c’è una forza propria della donna nel combattere il male. Sappiamo quanto la teologia cattolica abbia sottolineato il rapporto tra la donna della Genesi e quella dell’Apocalisse, vedendo in esse Maria. Ma non c’è comunque una dimensione femminile da riscoprire? Purtroppo questa prospettiva non è mai stata evidenziata in maniera adeguata. Anzi, una certa cultura maschilista ha preso un sopravvento totalizzante.

Pensiamo, per fare solo un cenno, agli eccessi di una cultura patriarcale in cui è persino accaduto – e ancora accade – di dover fare i conti con la riduzione della donna alla soglia della condizione di animale domestico! Pensiamo anche alla recente epidemia di sfiducia, e persino di ostilità, che si diffonde nei confronti di un’alleanza fra uomo e donna che sia, al tempo stesso, capace di custodire la ricchezza della differenza del maschile e del femminile: nel rispetto, nell’amicizia, nell’amore, nel lavoro, nel pensiero e nella vita sociale.

Tra le sfide del presente abbiamo proprio quella che riguarda la posizione della donna nella società e quindi anche nella Chiesa. C’è comunque da riconoscere che sono proprio le donne al centro di quella cultura della cura dell’altro che è alla base di ogni forma di legame familiare. Sono loro le prime a praticarla, con i figli, e sono sempre loro a sostenere il maggior peso del lavoro di cura per i bambini, i malati, gli anziani. È facile vedere gli uomini fuggire più di prima davanti alle responsabilità. Le donne vanno ascoltate di più. Da decenni nel mondo occidentale tante donne si sono ribellate al ruolo esclusivo di madri, credendo però di realizzare se stesse omologandosi al modello maschile, a costo di privarsi delle profonde gratificazioni affettive che dà la famiglia. Oggi le giovani donne, nei paesi più avanzati, incontrano molte difficoltà per avere una famiglia, allevare dei figli: paradossalmente, spesso è più facile per loro affermarsi nel lavoro che avere un figlio in giovane età, e con il passare degli anni il concepimento diventa sempre più difficile. Diventare madri per molte si sta facendo un sogno impossibile, un desiderio ostacolato dalla società e dalla cultura del tempo.

Dobbiamo chiederci: che ne sarà di quelle società che soffocano il desiderio di maternità delle giovani donne, che non aiutano il formarsi di nuove famiglie, ma sembrano preferire la proliferazione di singoli che vivono solo per se stessi? L’ho accennato all’inizio di queste mie riflessioni. Nelle società ricche stiamo assistendo al rischio di società che non riescono ad assicurare neppure il ricambio generazionale. E questo significa non solo che non ci sono più bambini, ma anche che ci sono meno madri, cioè donne abituate a dare tutte se stesse per un altro, capaci di sacrificio per assicurare la cura ai più deboli, in grado di riconoscere da un’inflessione del pianto, da un gemito, di cosa una persona ha bisogno. Le madri costituiscono l’antidoto più forte al dilagare dell’individualismo egoistico: lo dice la parola stessa. Individuo vuol dire indivisibile, che non si può dividere. Le madri invece si dividono, accettano di dividersi in due per dare al mondo un figlio e lo fanno crescere. Le madri, dando la vita, cancellano la chiusura egoistica, e tengono letteralmente in vita il mondo. Sono esse ad odiare di più la guerra, perché questa uccide i loro figli. Sono esse a testimoniare la bellezza della vita. Guai a dimenticarlo.

Una Chiesa più famigliare

Papa Francesco, con l’Esortazione Apostolica Amoris Laetitia, chiede un rinnovamento profondo nella Chiesa. Oggi, le Chiese, tutte le chiese, non possono svolgere il compito assegnatole da Dio nei confronti della famiglia senza assumere esse stesse i tratti di una comunione famigliare. Insomma è indispensabile una svolta ecclesiologica, un modo nuovo di essere Chiesa, una nuova “forma ecclesiae”; una Chiesa intesa come “famiglia di Dio”. Quando la Chiesa parla delle famiglie, in realtà, parla anzitutto di se stessa. In tal senso quando si parla di pastorale famigliare significa rendere “famigliare tutta la Chiesa”. Il Papa sa bene che non è facile o scontato accogliere questo orizzonte. Può accadere che ci siano coloro che vorrebbero una Chiesa simile ad un pubblico ministero dell’accusa o a un notaio che registra adempimenti e inadempienze senza tener conto delle dolorose circostanze della vita e l’interiore riscatto delle coscienze. Del resto la Chiesa è stata impegnata dal suo Signore ad essere coraggiosa e forte proprio nella protezione dei deboli, nel riscatto dei debiti, nella cura delle ferite dei padri e delle madri, dei figli e dei fratelli; a cominciare da quelli che si riconoscono prigionieri delle loro colpe e disperati per aver fallito la loro vita.

L’Esortazione chiede che le famiglie sentano la responsabilità di comunicare al mondo il “Vangelo della famiglia” come risposta al profondo bisogno di famigliarità iscritto nel cuore nella persona umana e della stessa società. Certo, hanno bisogno di un grande aiuto in questa loro missione. Il Papa parla, anche in questa prospettiva, della responsabilità dei ministri ordinati. E sottolinea con franchezza che a loro “manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie”(n.202). E chiede una rinnovata attenzione anche alla formazione dei seminaristi.

C’è poi una riflessione da fare sul rapporto tra le famiglie e le comunità parrocchiali. Oggi, purtroppo, assistiamo ad un divario spesso profondo che separa le famiglie dalla comunità cristiana. In maniera sintetica potremmo dire che le famiglie sono poco ecclesiali (perché spesso rinchiuse in se stesse), e le comunità parrocchiali sono poco famigliari (perché spesso prese da una burocrazia esasperante). E’ un punto cruciale che ci porterebbe a dire: non si tratta di rivedere la pastorale famigliare, quanto piuttosto di trasformare tutta la pastorale in una prospettiva famigliare. E’ pertanto necessario un nuovo orizzonte che ridisegni la stessa parrocchia come una comunità che sia essa stessa famiglia. E qui sono interrogate tutti gli aspetti della vita pastorale, dalla iniziazione cristiana alla pastorale giovanile, dalla Liturgia della Domenica alle celebrazioni dei Sacramenti.

E se è vero che il matrimonio è indissolubile, è ancor più vera l’indissolubilità del legame della Chiesa con i suoi figli e figlie: perché è come quello che Cristo ha stabilito con la Chiesa, piena di peccatori che sono stati amati quando ancora erano tali. E non sono mai abbandonati, neppure quando ci ricascano. Questo, come dice l’apostolo Paolo, è proprio un mistero grande, che va decisamente oltre ogni romantica metafora di un amore che rimane in vita soltanto nell’idillio di “due cuori e una capanna”.

Questa più essenziale ecclesiologia della famiglia è l’orizzonte verso il quale il Papa vuole condurre il sentire cristiano per questa nuova epoca. Tale trasformazione richiede un modo nuovo, famigliare, di concepire e vivere la Chiesa in questo passaggio d’epoca.

Credo sia decisivo per la pastorale inventare quella che chiamerei “fraternità tra le famiglie”. Nel Nuovo Testamento è chiara questa prospettiva che chiamiamo “chiesa domestica”, ossia quel gruppo di famiglie che si riunivano assieme una casa più grande. Così fu all’inizio del cristianesimo. Oggi è i9ndispensabile riprendere tale ispirazione. Non si tratta perciò solo di ripensare la pastorale famigliare, quanto di rendere l’intera pastorale in una prospettiva famigliare. Va promossa in ogni modo una prospettiva di “fraternità tra famiglie”. La troviamo già presente nei movimenti e nelle associazioni. Ma va promossa a livello generale coinvolgendo tutte le parrocchie e le associazioni.

Si tratta non solo di essere dentro la vita della parrocchia, ma anche all’interno della vita cittadina, dell’intera società ove le famiglie sono chiamate a dare il loro contributo come lievito di “familiarità” nella società.

(Intervento all’Incontro virtuale degli Agenti di pastorale familiare organizzato dalla Conferenza Episcopale della Colombia, 21 ottobre 2020)