Quarta Domenica di Pasqua

Dal vangelo di Giovanni (10,27-30)

Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola”.

In quel giorno di sabato, nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, antica città situata nel cuore dell’Asia Minore (l’attuale Turchia), avvenne un fatto che non appartiene solo alle origini della storia della comunità cristiana: è l’uscita della Chiesa dall’ebraismo.

C’erano in quella sinagoga donne pie di alto rango e uomini abituati a incontrarsi tra di loro; era un gruppo ben formato e amalgamato, tutti credenti nell’unico Dio; cosa, ovviamente, bella e singolare in una terra di increduli e di pagani. In quella riunione di gente religiosa e credente entrarono Paolo e Barnaba e con loro “quasi tutta la città”, desiderosa di ascoltare l’annuncio evangelico. “Quando videro quella moltitudine”, scrive l’autore degli Atti degli apostoli (13,14.43-52), i giudei furono presi da gelosia e cominciarono a contraddire le parole di Paolo, bestemmiando.

Questa vicenda, apparentemente lontana, si ripete in verità lungo le generazioni, anche se con modalità diverse. Infatti, i credenti della sinagoga di Antiochia sono quei credenti di ogni ora, di ogni generazione, per i quali la parola evangelica è qualcosa di già posseduto, di già conosciuto, al punto che non solo non sentono più il bisogno di ascoltare ma, qualora lo fanno, non ascoltano con il cuore e con la disponibilità a cambiare. Quando la Parola li strappa dalla sapienza della loro legge o della concentrazione su loro stessi; oppure quando il Vangelo rompe i confini del gruppo, del clan, della razza, della nazione, costoro reagiscono contraddicendo. La vicenda accaduta ad Antiochia è un’ammonizione per ogni singolo credente, per ogni comunità ecclesiale, e perché no, anche per quella mentalità individualista che sottolinea il proprio particolare, che sempre più si sta affermando. Credere di conoscere già il Signore e di possederlo, bloccando così la continua chiamata alla conversione del cuore che ogni giorno ci invita a superare i nostri confini, è contraddire il Vangelo, e al fondo, bestemmiarlo. La vita alla sequela di Gesù e al suo Vangelo non è la sicurezza di un’appartenenza e neppure la tranquilla acquisizione di una predilezione antica. C’è una fatica nell’ascolto e un’urgenza di cambiamento del nostro cuore nella sequela. Nel Vangelo Gesù dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27-30). Essere fedeli al Signore vuol dire ascoltare la sua voce e seguirlo ogni giorno, ovunque Egli ci conduce. È l’esatto contrario dello stare seduti pigramente e orgogliosamente nella sinagoga di Antiochia. A chi lo ascolta e a chi lo segue (l’unico modo per seguirlo è ascoltarlo mentre parla e cammina per le vie del mondo) promette la vita eterna: nessuno dei suoi andrà perduto, dice Gesù con la sicurezza di chi sa di avere un potere più forte persino della morte. E aggiunge: “Nessuno le rapirà dalla mia mano”. Si tratta di un pastore buono, forte e geloso delle sue pecore. La vita di quelli che lo ascoltano è nelle mani di Dio; mani che non dimenticano e che sanno sostenere sempre.

L’Apocalisse (7,9.14-17) apre davanti ai nostri occhi la visione di “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’ Agnello, avvolti in vesti candide” (v. 9). È l’immagine della fine della storia, ma anche del fine di essa: quella moltitudine è ciò verso cui ci conduce il Buon Pastore. Ed è proprio questa visione che i credenti e gli uomini di buona volontà sono chiamati a realizzare già oggi, in particolare in questo momento storico, nel quale assistiamo a un mondo in cui i singoli e le nazioni (compresi i gruppi etnici) sono tesi più che alla comunione, alla rivendicazione dei propri diritti. Tuttavia, quello che resta spesso sottaciuto è proprio questa visione dell’unità del genere umano che è, al fine, “la missione storica” di Gesù. L’Apocalisse rappresenta il contrario di quello che accadde ai giudei di Antiochia di Pisidia; la predicazione ruppe i confini angusti di quelle persone religiose e si proiettò verso il vasto mondo degli uomini. Il Vangelo allarga il cuore di ogni credente, perché scardina radicalmente la radice amara dell’individualismo egoista e violento. Nel cuore di ogni singolo membro di quella “moltitudine” di cui parla l’Apocalisse (ne fanno parte anche coloro che, senza saperlo, sono animati dallo spirito di Dio), si coglie il respiro universale che sorregge il cuore stesso del Buon Pastore. In questa domenica la Chiesa invita a pregare per i sacerdoti e per il loro compito pastorale. E una preghiera che ci coinvolge ben sapendo che tutti, ma loro in particolare, debbono vivere il respiro di quella carità universale caratteristica del Vangelo cristiano.