Scienza, tecnica e vita – introduzione all’Assemblea generale dell’Accademia per la vita

Cari amici,

Papa Francesco con il suo intervento ha aperto all’impegno della nostra Accademia un ampio orizzonte. Ed eccoci al lavoro in questo Congresso – il primo per me – che ha per tema l’accompagnamento della vita umana in un tempo in cui la scienza e la tecnica accrescono sempre più le loro capacità di intervento nei processi della vita umana. Le loro straordinarie conquiste, permettono il miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. È un innegabile progresso. Ma non possiamo tacere sulle contraddizioni che questo cammino porta con sé. Come tutte le costruzioni umane, anche la scienza e la tecnica possono produrre risultati opposti a quelli perseguiti. Vorrei richiamare la nostra attenzione su due aspetti.

Il primo riguarda il rischio di un ambiguo riduzionismo dell’idea stessa di persona umana, che conduce a un duplice esito. Da una parte, a causa della tendenza a risolvere l’interiorità del soggetto umano nella combinazione dei suoi processi mentali, si tratta la sensibilità del corpo umano vivente come dato materiale e funzione organica. Dall’altra, il corpo vivente non viene più riconosciuto come luogo simbolico della vita e del senso della vita: penso all’esperienza della nascita e della morte, della dipendenza e del limite, del desiderio e della donazione, del mistero e del sublime che ci avvolgono e ci superano. I tratti dell’esperienza e della domanda di senso che marcano la vita umana effettivamente vissuta, sono tutte irriducibili alle funzioni d’organo. Esperienze come queste fanno la differenza irriducibile del corpo vivente che conosciamo come essere-umano. In questo senso, Michel Henry, un noto filosofo contemporaneo, provocatoriamente afferma che nei laboratori di biologia, nonostante il nome, non si studia più la vita umana.

Sono due esiti solo apparentemente contraddittori. La dimensione biologica infatti sembra essere in un primo momento indebitamente sottovalutata, come una sorta di materia prima a disposizione della mente; e in un secondo momento enfatizzata in modo totalizzante, come fosse il codice esplicativo dell’intera qualità umana. Un comune denominatore, però, le ispira: ossia, un approccio ideologicamente riduttivo, che mira ad omologare materialisticamente la vita umana a qualsiasi altra manifestazione della vita organica. È vero che nel passato si è insistito forse in maniera eccessiva sul radicale antropocentrismo di una concezione del mondo della vita, totalmente sacrificato alla supremazia dell’umano. Ma l’attuale riduzione naturalistica della singolare qualità umana, non finisce per determinare una vera e propria fuga dalla responsabilità dell’uomo di essere l’interprete custode dell’intera creazione? Lo sfruttamento dissennato della natura vivente e dello stesso mondo materiale, non appaiono forse oggi perfettamente compatibili con l’atteggiamento rinunciatario dell’essere umano nei confronti del proprio ruolo di custode del creato?

Questa contraddizione è stata evidenziata nella riflessione sulla metamorfosi subita dalla scienza e dalla tecnica. Già Heidegger lo affermava: la tecnica è diventata Gestell, infrastruttura, dispositivo, sistema mentale e pratico che domina il mondo e cambia la mente. Da allora le cose sono andate molto avanti. E forse non si riflette ancora a sufficienza su questo punto. La scienza e la tecnica (di cui il sistema economico è a pieno titolo parte) vengono iscritte in un dispositivo ideologico che attribuisce loro il monopolio della conoscenza razionale e anche il diritto di guidare normativamente i comportamenti e le decisioni dell’intera vita quotidiana. Non sono la scienza e la tecnica in se stesse, ovviamente, il problema, bensì la forma storica che stanno assumendo nel contesto culturale odierno, ossia la loro organizzazione totale nella linea di una logica totalmente autoreferenziale del loro procedere. Una logica esclusivamente funzionale all’accrescimento della pura potenza strumentale, ultimamente indifferente – e potenzialmente distruttiva – nei confronti della soggettività umana.

Il rischio è di scivolare progressivamente – e in certa misura inconsapevolmente, ma non per questo meno pericolosamente – verso una condizione in cui gli esseri umani risultano estranei all’esercizio della loro stessa responsabilità. Sono gli uomini e le donne a essere considerati di fatto un freno allo sviluppo di un mondo ostile all’umano. C’è chi prospetta anche una strategia di puro adattamento alla rimozione dell’umano che scaturisce dalla logica immanente della tecnica: si tratta di lasciarsi portare oltre l’umano, nel post-umano, nel trans-umano. In verità, le trasformazioni degli ultimi decenni portano conseguenze gravi sia a livello planetario (penso ai grandi rischi di distruzione dell’ambiente, alla pandemia della solitudine, all’inverno demografico, allo sfaldamento del senso civile e al ritorno della violenza primitiva), sia nella vita quotidiana e nell’esperienza personale (penso all’offuscamento della stessa capacità di giudizio per cui tutto è divenuto indistinto e neutro). Ma una ragione ridotta al calcolo degli automatismi e delle funzioni – lo ripeteva spesso papa Benedetto – è pericolosamente deprivata della sua capacità di reazione al carattere distruttivo del naturalismo e del relativismo della vita. Non mi dilungo su questo anche perché credo sarà tema di confronto in questi giorni.

Papa Francesco ha richiamato la nostra Accademia a prendersi la responsabilità in questo momento storico di aiutare – per la sua parte – gli uomini e le donne di oggi a recuperare una dimensione più ampia della vita contro ogni riduzionismo. Questa prospettiva ci spinge a confrontarci con una domanda ancor più radicale: ossia, cosa possiamo – o meglio, dobbiamo – chiamare vita umana. Chiedo a me stesso e a tutti noi: un’Accademia intestata e finalizzata alla produzione di pensiero e di orientamento “per la Vita” non dovrebbe riproporsi, nel mutato contesto culturale, la domanda sull’orizzonte semantico di questo termine, così denso nelle sue implicazioni esistenziali e così difforme nelle sue interpretazioni teoriche?

Gli interrogativi che oggi ci pongono le scienze della vita sono molto seri. L’emergenza di discipline scientifiche nuove, o in versioni rinnovate, e le convergenze che esse mostrano nell’elaborare un paradigma conoscitivo basato sullo scambio di informazioni e su procedimenti di calcolo, trasforma anche la nostra concezione degli organismi viventi. Lo studio delle affinità dei processi della vita con le strutture della realtà inorganica, artificiale, virtuale, si mostra sensibile all’assimilazione dei processi deterministici e probabilistici che identificano gli eventi suscettibili di regolazione calcolabile e di manipolazione tecnica. Sotto la spinta di questo spostamento della razionalità, anche il sapere socialmente diffuso che plasma il senso comune e la mentalità corrente, forma i suoi luoghi comuni.

L’esperienza spirituale, come forma della vita, in questa cornice, è destinata a perdere non soltanto la centralità della sua irriducibile differenza qualitativa, ma anche la sua pura e semplice legittimazione quale tema di conoscenza. La rapida evoluzione della cosiddetta “intelligenza artificiale” è già in vista della “simulazione affettiva” delle macchine antropomorfe.

Di fronte a questa tendenza, che spinge verso la marginalizzazione e l’impoverimento dei potenziali spirituali della vita umana, è importante dedicare una più approfondita riflessione al tema della trasmissione della vita e del senso della vita umana. In questa prospettiva, merita un’attenzione del tutto particolare la riflessione sull’esperienza originaria della generazione. La vita umana non è la consegna di un codice di assemblaggio delle parti organiche, è la trasmissione dell’attitudine ad abitare relazioni personali: con significativi riscontri negli stessi processi biologici e psichici che anticipano la venuta alla luce. Essa, infine, è intenzionalità d’amore ed esperienza d’amore, indisgiungibilmente. L’uomo e la donna, nella loro alleanza affettiva e generativa, sono parte integrante della definizione della vita umana: in senso reale e in senso cognitivo. Non ne sono il fondamento, ma i mediatori, non i proprietari, ma gli affidatari: e sono come tali, nel punto più alto del ministero e della signoria che Dio ha consegnato all’umana creatura. Il Papa ce lo ha ricordato nel suo intervento offrendoci una preziosa indicazione quando ha mostrato nell’alleanza tra l’uomo e la donna la guida della storia.

Il passaggio che oggi stiamo vivendo, ci chiede di pensare nuovamente questa responsabilità. La riflessione sul mistero della generazione dell’essere personale deve oggi confrontarsi con la tendenza ideologica a ridurre l’orientamento naturale della vita e l’inclinazione spontanea della persona alla lotta per la sopravvivenza e alla competizione per il godimento. Il radicalismo di questa visione finisce per produrre e legittimare, al tempo stesso, la rassegnazione al nichilismo e il delirio di onnipotenza. La densità spirituale e il mistero personale della generazione umana rinviano alla dimensione passiva-recettiva che è alla base della vita (e della coscienza) di ogni individuo umano: che riceve se stesso, anzitutto come un dono del quale appropriarsi responsabilmente, e come una promessa di senso che deve essere onorata relazionalmente. L’umana generazione richiama l’evidenza – tanto elementare quanto esistenzialmente trascurata – in cui la vita appare come un’anticipazione della vita personale: consegnata alla libera responsabilità di se stessa attraverso il vincolo personale di un’alleanza che la consegna amorevolmente all’altro, anima e corpo. La legge bella e misteriosa, naturale e spirituale, della trasmissione della vita umana è questa. Una vita personale non si riproduce: si inaugura come un evento irriducibile alle sue cause e si adempie come una responsabilità inseparabile dai suoi affetti.

Questa “legge” non vale soltanto per l’atto fondamentale del nascere, ma anche per ogni età della vita: occorre continuare a vivere assumendo consapevolmente le implicazioni dell’essere nati come un dono di cui l’umano si fa tramite, e dell’essere vissuti come una promessa che noi stessi siamo chiamati ad onorare. Il reciproco sostegno di questo duplice compito, fra gli esseri umani, è il loro modo di essere “per la vita”. L’azione che definisce la qualità totale di questa missione dell’uomo e della donna, non si misura solo sulla potenza (e l’efficienza) dell’essere-soggetto, ma include la passività (e la perdita) del voler-bene, riconoscendole come spazi di accoglienza dell’altro e di condivisione della sua vulnerabilità. Nel solco dell’esperienza di “fraternità” che ne deriva, la dipendenza e il limite, e quindi la differenza e la mancanza che sono iscritte nell’umano che genera l’umano, appaiono nella loro accezione positiva: non soltanto luoghi di inevitabile distanza e conflitto, ma anche di possibile incontro e di alleanza.

L’alleanza della generazione “fa” la vita umana, e quella delle generazioni “fa” la storia umana. La riflessione sulla vita è quindi gravida di una dimensione simbolica che la illumina come fatto sociale totale: non meramente, individuale, privato, aggiuntivo, rispetto alla forma collettiva dell’elaborazione del senso e dei legami fra i popoli. Il contributo appassionato e convergente di molte competenze e di molti saperi riflette, esso stesso, la complessità di questa realtà poliedrica che definisce la vita e il senso della vita: di età in età, di generazione in generazione. Il nostro lavoro accompagna e sostiene l’alleanza degli uomini e delle donne che devono responsabilmente assumersi le fatiche e le gioie dell’umano mestiere di vivere. In ultima analisi, è il senso stesso dell’impegno della nostra rinnovata Pontificia Accademia; è la prospettiva che ispira l’orizzonte tematico di questo nostro primo incontro; ed è anche l’orientamento fondamentale del compito che ci è autorevolmente assegnato per i prossimi anni. Grazie, sin d’ora, per la vostra generosa disponibilità ad accompagnare questo cammino.