Quarta Domenica del Tempo Ordinario

Dal vangelo di Matteo (5,1-12)

Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:

“Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.

Con il Vangelo della quarta domenica del tempo ordinario inizia la lettura della grande composizione di Matteo che abbraccia tre interi capitoli, dal quinto al settimo. Si tratta del noto “Discorso della montagna”, la magna charta del discepolo. Matteo vuol dare a questo messaggio un rilievo tutto particolare: fa salire Gesù su di un monte, il luogo per eccellenza da cui Dio ammaestra, come per suggerire un parallelo tra l’antica e la nuova alleanza tra Dio e il suo popolo. La prima fu sancita con la legge data a Mosè sul Sinai; la seconda riceve il suo sigillo con questa nuova legge proclamata sul monte delle beatitudini. Nel Vangelo ascoltato domenica scorsa abbiamo visto i primi discepoli e le prime folle raccogliersi attorno a Gesù. Erano uomini e donne conquistati da parole diverse da quelle che normalmente sentivano. Gesù, infatti, non insegnava come facevano abitualmente tutti gli altri maestri del tempo (e ce n’erano sparsi ovunque): egli parlava con «autorità», nota l’evangelista al termine del discorso dal monte. Era l’autorità di chi veniva tra gli uomini per servire e non per essere servito, di chi era pronto ad amare il Vangelo anche più della propria vita. E la gente che lo andava ad ascoltare percepiva queste cose, toccava con mano la verità e la concretezza di quelle parole. Era gente spesso stanca e malata, povera e mendicante, talvolta violenta e orgogliosa, altre volte disperata.
Gesù l’aveva davanti agli occhi ormai da più giorni; possiamo immaginarlo mentre guarda quegli uomini e quelle donne che lo seguono anche a costo di sacrifici: li interroga, li ascolta, ha imparato a conoscere alcuni anche per nome, ma soprattutto conosce se non le loro storie, certamente le loro domande, i loro bisogni. Ne ha compassione. Proprio in questo sentimento forte di compassione si trova la ragione di questa scena evangelica. Vedendo quella gente stanca e sfinita sale sul monte, così come oggi, come ogni domenica, il Vangelo sale sul pulpito e ci parla. E inizia a parlare della felicità. Chi è felice? Chi è davvero beato? Il profeta di Nazareth vuole proporre la sua idea di felicità e di beatitudine. Già i salmi avevano abituato i credenti di Israele al senso della beatitudine: «Beato l’uomo che spera nel Signore, beato l’uomo che ha cura del debole, beato l’uomo che confida nel Signore». Costui può dirsi felice.
Gesù continua in questa linea e definisce beati gli uomini e le donne poveri di spirito (che non vuol dire ricchi di fatto, ma poveri spiritualmente) e poi beati i misericordiosi, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i puri di cuore, i perseguitati a causa della giustizia e anche coloro che sono insultati e perseguitati a causa del suo nome. Quei discepoli non avevano mai udito parole così. E a noi che le ascoltiamo oggi paiono molto lontane da noi e dal nostro mondo. Sembrano davvero parole irreali. Sì, potremmo anche dire che sono belle, ma certamente impossibili. Eppure, non è così, per Gesù. Egli vuole per noi una felicità vera, piena, robusta, che resiste agli sbalzi di umore e che non soggiace ai ritmi della moda o delle esigenze dei consumi. In verità, quel che a noi sta più a cuore è vivere un po’ meglio, un po’ più tranquilli e nulla più. Non ci va di essere “beati” davvero. La beatitudine perciò è diventata una parola estranea, troppo piena, eccessiva; è una parola così forte e così carica da essere troppo diversa dalle nostre soddisfazioni spesso insignificanti. La pagina evangelica delle beatitudini ci strappa da una vita banale per spingerci verso una vita piena, una gioia molto più profonda. Le beatitudini non sono troppo alte per noi, come non lo erano per quella folla che le ascoltò la prima volta. Esse hanno un volto davvero umano: il volto di Gesù. È lui l’uomo delle beatitudini, l’uomo povero, mansueto e affamato di giustizia, l’uomo appassionato e misericordioso, l’uomo perseguitato e messo a morte. Guardiamo quest’uomo e seguiamolo: saremo beati.