Prendersi cura del malato nella sua fase terminale

di Luca Collodi

Si svolge giovedì 24 agosto a Roma un seminario sulla cura della persona morente. Si tratta di un gruppo di lavoro promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita che riunisce i massimi esperti sullo sviluppo delle cure palliative nel mondo. L’obiettivo dell’organismo vaticano è quello di studiare, accanto alla situazione di sviluppo attuale, gli ostacoli all’attuazione delle cure palliative nella cura, anche spirituale, della persona malata. Nel mondo, solo l’8% dei malati terminali, il 30% in Italia, può oggi contare su cure palliative in grado di alleviare i sintomi clinici ed umani di malattie terminali. Sul seminario promosso a Roma, abbiamo intervistato mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita:

La Pontificia Accademia per la Vita ha iniziato un programma chiamato “PAL-LIFE” per promuovere lo sviluppo delle cure palliative e farle conoscere, perché rispondono ad una delle domande centrali della nostra società contemporanea. E cioè come accompagnare la fine della vita, poiché ci sono scorciatoie drammatiche, assurde – lo sappiamo bene in Italia ma anche altrove – come l’eutanasia, il suicidio assistito e così via. In realtà, la dimensione della cura palliativa risponde in maniera molto accorta alle domande, ai problemi e anche alle paure che ognuno di noi ha di fronte alla morte e al dolore. Ma non c’è altrettanta attenzione sia allo sviluppo della medicina palliativa sia nella sua conoscenza. Qual è il nodo centrale delle cure palliative? Non è semplicemente quello della cura del dolore. E’ molto di più: è prendersi cura del malato nella sua fase terminale. Il seminario del 24 agosto a Roma si iscrive in questo contesto e riguarda un aspetto: la presenza di una professoressa polacca, Christina M. Puchalski, esperta del settore, che rifletterà insieme a noi sull’accompagnamento spirituale di questi momenti”.

L’Accademia pone quindi l’accento sui diritti del morente, in una medicina moderna che sembra trascurare la pratica delle cure palliative…

Purtroppo c’è una cultura favorita anche dall’eccessiva presenza della tecnica, non perché essa non sia importante, che porta a dimenticare il malato per concentrarsi sulla malattia o su un suo aspetto. Ciò in qualche modo è una sorta di ideale vivisezione che non porta da nessuna parte se non a dimenticare la dimensione umanistica di un evento come quello della morte che è legato alla vita e alla persona. In questo senso, ad esempio, l’attenzione spirituale, che non è una questione di tecnica,  quando è compiuta, quando è fatta, porta dei giovamenti, delle consolazioni enormi al malato, ai familiari e a chi è amico ed è presente in questi ultimi momenti”.

Mons. Paglia, si può parlare delle cure palliative come atto di carità e di umanità verso l’altro?

“Assolutamente sì. Direi che è l’espressione più alta, per certi versi, del prendersi cura. Nel momento di maggiore debolezza, il malato viene circondato dall’amore di tutti. I nostri amici malati, soprattutto gravi o terminali, hanno bisogno di essere coperti dall’amore di tutti”.

(da Radio Vaticana)