Non è lo Stato che accompagna e non è la legge a far germogliare l’amore

di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO – «Vede, il problema non è anzitutto lo Stato, o la legge. Non è lo Stato che accompagna e non è la legge a far germogliare l’amore. È già molto se una legge regola per evitare disastri».

L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della pontificia Accademia per la vita, ha scritto l’anno scorso il libro «Sorella morte», una riflessione sulla dignità del vivere e del morire. «Il problema siamo noi, è la società civile», dice.

Eccellenza, il Corriere ha raccontato la storia di Elisa, in «stato vegetativo persistente» da dodici anni. Il padre non sa che fare, se staccare la spina, pensa con angoscia a cosa accadrebbe se lui morisse prima. Che gli direbbe?
«Che lo capisco. È profondamente ingiusto e assurdo che un padre o una famiglia siano lasciati da soli. Situazioni simili non possono essere affrontare in solitudine e nel disinteresse della comunità sia credente che civile. Va promossa una cultura dell’accompagnamento che ci porti accanto a chi ha bisogno».
È una cultura che abbiamo perduto?
«Fino a qualche decennio fa era normale che attorno a chi moriva ci fosse la partecipazione di tutti, il paese, il quartiere, gli amici, i vicini. Oggi la morte è stata nascosta, è divenuta un fatto privato.  Così pure la fine della vita. E ci troviamo tutti più soli, senza più parole. E l’allungarsi della vita, come pure delle malattie, crea nuovi problemi».
Quali?
«Si sono moltiplicati i casi di malati terminali per i quali spesso non si sa bene cosa fare. Assistiamo all’abbandono di tanti malati gravi. Su un caso che arriva alle cronache, migliaia restano nella dimenticanza. Non è una bella società, questa. È urgente una dibattito e una riflessione larga non solo del legislatore ma dell’intera società».
La Chiesa che dice?
«Credo che ben prima del dire, c’è l’urgenza del “fare”, ossia dell’accompagnare, del tenersi per mano. E’ questo il messaggio della fede. E si iscrive in tre grandi “no” e altrettanti “sì”. No all’eutanasia,  all’accanimento terapeutico, all’abbandono. E sì all’accompagnamento, allo sviluppo della scienza, alla cura per evitare solitudine e dolore».
Il filosofo cattolico Giovanni Reale diceva che considerare eutanasia  i casi di Englaro e Welby era un errore ermeneutico, «diverso è darsi la morte o invece accettare la morte inevitabile».
«Non entro in quei casi, ogni caso è diverso. Ma il “no” all’accanimento esprime appunto la posizione di chi vuole evitare la divinizzazione della macchina. L’accompagnamento è sempre in favore della vita finché c’è una speranza non illusoria, quindi anche fondata sulla scienza. Nei casi di persone in stato vegetativo “persistente”, c’è ancora una speranza di uscita, infatti i medici non dicono “irreversibile”. Ci sono state persone che si sono svegliate. Non possiamo eliminare la speranza, seppure è minima. Nel caso dell’accanimento – quando l’intervento meccanico o farmacologico è sproporzionato, inutile e invasivo, con un prolungamento penoso della vita – la cura viene interrotta».
Ma una legge sul fine vita ci vuole, no?
«Non entro nel merito dell’iter legislativo. Mi auguro venga approvata una buona legge. Ma è urgente promuovere una cultura dell’accompagnamento e questo richiede piuttosto uno scatto morale e spirituale da parte dell’intera società».

(dal Corriere della Sera)