L’anno della fede e la bioetica

Tra le molte suggestioni che suscita il titolo di questa relazione – “l’anno della fede e la bioetica” – la più significativa per iniziare la nostra riflessione rinvia a quell’evento straordinario, nella storia del XX secolo, che è il concilio Vaticano II. Una riflessione necessaria sia perché l’anno della fede, indetto solennemente da Benedetto XVI con la lettera apostolica Porta fidei, è simbolicamente iniziato lo scorso 11 ottobre 2012, in concomitanza con il cinquantesimo anniversario dell’apertura dei lavori del concilio Vaticano II, sia perché, al di là di tutte le letture ermeneutiche elaborate nel corso degli ultimi decenni, quella straordinaria assise continua ad essere uno strumento prezioso – una sorta di “bussola” per il nuovo millennio come la definì giovanni Paolo II – non solo per la chiesa ma anche per la società attuale. Per il cosiddetto mondo “post-secolare”, che è costantemente caratterizzato dal dibattito bioetico che sovente si trasforma, secondo l’arguta interpretazione di Michel Foucault, in uno scontro biopolitico[i].

Ovviamente, com’è ampiamente risaputo, la codificazione disciplinare della bioetica è successiva allo svolgimento del concilio – risale, infatti, ai primi anni Settanta – e non si può certo affermare, almeno da un punto di vista meramente nominale, che in quella straordinaria assise i padri conciliari elaborarono una teorizzazione compiutamente bioeticista. Tuttavia, è altrettanto certo che il discorso etico intorno alla vita è ben anteriore all’utilizzo moderno del neologismo “bioethics” adoperato da Van Rensselaer Potter nel 1970 e ha attraversato, in modo importante, tutto il ’900, con alcune importanti radici anche nei secoli precedenti[ii]. Gli eccezionali progressi della scienza sia nel campo della medicina che in quello della biologia – dalla scoperta dei sulfamidici negli anni trenta e degli antibiotici negli anni Quaranta fino alla definizione della struttura del dna e alla fecondazione artificiale – mettono progressivamente in crisi la tradizionale impostazione della morale medica legata alla formulazione ippocratica e fanno emergere una serie di questioni etiche che necessitano, improvvisamente ed urgentemente, di una nuova tematizzazione concettuale.

In particolare, l’emergere del dibattito bioetico trova le sue radici negli anni Sessanta del XX secolo in un orizzonte sociale caratterizzato sia da “aspettative crescenti” sul piano economico che da una serie di processi internazionali ormai sempre più globali – come, ad esempio, l’imponente processo di crescita materiale in tutto il mondo – che contribuirono a modificare i costumi e gli stili di vita, oltre che i rapporti tra gli Stati. Le conseguenze di questa fase di intenso sviluppo economico, che, in quel contesto storico, pareva inarrestabile, si manifestarono, in forme diverse, sia sul piano sociale – connettendosi alla formazione della società dell’abbondanza e del consumismo – che su quello delle relazioni internazionali. La fine del “lungo dopo-guerra” contraddistinto, dunque, da una sorta di “ottimismo vigile” sul futuro del mondo e dalla consapevolezza che il mondo stesse vivendo un’imperiosa fase di crescita, caratterizzò lo sfondo storicosociale nel quale si sviluppò il concilio Vaticano II, e sul quale i padri conciliari, con la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et Spes, cercarono di fornire una risposta complessiva ai “segni dei tempi” elaborando una prima formulazione di quella che sarebbe divenuta, in tempi recenti, la cosiddetta “questione antropologica”[iii].

Quella costituzione pastorale, infatti, non espose soltanto principi generali di fede, ma si espresse anche in merito alle questioni più importanti del mondo contemporaneo: dalla scienza alla cultura, dal matrimonio alla famiglia, dall’ordine sociale all’economia, dalla pace alla guerra. La Gaudium et spes, certamente uno dei più importanti e originali documenti conciliari, mise indubitabilmente l’uomo al centro della sua tematizzazione. «È l’uomo dunque», si legge nel Proemio della costituzione pastorale, «considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l’uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà» che è «il cardine» su cui si basa tutta «la nostra esposizione»[iv]. In quel documento, dunque, da un lato l’uomo costituisce il legame che sussiste tra la Chiesa e il mondo; dall’altro lato, la Chiesa riesce ad annunciare pienamente Cristo, solo se è in grado di rivelare all’uomo la sublimità e la magnificenza della sua dignità personale.

La Gaudium et spes, pur pagando in alcuni passaggi la desuetudine impressagli dal tempo, assume, ancora oggi, un significato particolare. Essa, infatti, al netto di ogni sedimento storico, continua ad apparire, agli occhi degli osservatori più attenti, come un documento che conserva una sua incontrovertibile attualità. Un’attualità che risalta nella sua capacità di anticipare, profeticamente, la svolta antropologica degli ultimi decenni. in quel documento, in cui la dignità dell’uomo viene vista e interpretata come derivante da Dio e fondata in Gesù Cristo, viene infatti sviluppata “un’antropologia unitaria” che vede l’uomo non certo come una “monade isolata” ma come “un essere dialogico”, in costante relazione con Dio e con le altre creature. Un concetto ampiamente ripreso nella dichiarazione Dignitatis Humanae – pubblicata lo stesso giorno della Gaudium et spes, il 7 dicembre 1965 – la quale ammette che non esiste più solamente un diritto alla verità ma anche un diritto alla persona e che la verità può essere riconosciuta soltanto nella libertà.

La Gaudium et spes risente, indubbiamente, del contesto storico in cui viene redatta e si colloca sul solco delle due grandi encicliche redatta da papa giovanni XXIII che avevano avuto, precedentemente, una grandissima accoglienza in tutto il mondo: la Mater et magistra e la Pacem in terris. Nel volgere di pochissimi anni, però, questa “luna di miele” tra la chiesa e il mondo contemporaneo – perlomeno nella sua percezione pubblica – fa segnare una imprevista inversione di tendenza. Una frattura profondissima che, per molti aspetti, perdura ancora oggi[v]. Questa frattura avviene, non casualmente, proprio sui temi bioetici con la pubblicazione nel 1968 dell’enciclica Humanae Vitae, la quale, ribadendo l’illeceità del birth control attraverso la contraccezione artificiale, segna non solo la “fine dell’idillio” che la stampa aveva decretato nei confronti di Paolo VI nei primi anni del suo pontificato, ma apre due gravissime fratture nella storia della chiesa: una di “tipo istituzionale”, che riguarda direttamente l’autorità del Papa; e una di “tipo morale”, che riguarda esplicitamente «il matrimonio cristiano e la possibilità di utilizzare i contraccettivi»[vi].

La pubblicazione della cosiddetta “enciclica della pillola” fa emergere, d’improvviso e violentemente, tutti i profondi mutamenti dei codici simbolici e di condotta morale che erano ormai intervenuti, negli ultimi due decenni, in tutte le società occidentali.

I mutamenti nel costume e nello stile di vita, nella morale e nell’ethos pubblico, nel modo di stare-nel-mondo e di rapportarsi con esso contraddistinguevano, soprattutto, ma non solo, le giovani generazioni, istruite e inurbate, che si fecero portavoce, al di là della patina panpoliticista e dell’aspetto ideologico ribellistico-sovversivo, di istanze essenzialmente anti-gerarchiche, anti-istituzionali e libertarie. In quel singolare contesto storico emersero due importanti processi socio-culturali che, seppur declinati in forme nuove, sono ancora oggi attualissimi. In primo luogo, emerse un processo di carattere socio-antropologico: ovvero l’affermazione della “società dei consumi” all’interno della cosiddetta “città secolare”. La secolarizzazione investì, progressivamente, non solo la sfera religiosa ma, anche la morale pubblica e tutte le più importanti culture politiche otto-novecentesche. Questo processo di “disincanto del mondo” fu il prodotto di una “drammatica accelerazione” della secolarizzazione dei “comportamenti” religiosi e delle “appartenenze” socio-culturali[vii]. Questa “accelerazione” secolarizzante fu determinata sia dal boom economico – che diffuse il consumismo e allontanò la popolazione dalle chiese – e anche dall’incontro/scontro tra le nuove esigenze socio-economiche della “società dei consumi” e l’affermazione egemonica di una cultura libertaria e radicale che, combinata con lo sviluppo della contraccezione di massa e il successivo consenso sociale sul divorzio e sull’aborto, iniziò lentamente destrutturare le basi tradizionali della società.

Sin dalla fine del XVIII secolo, infatti, le società occidentali hanno vissuto una rivoluzione demografica che le ha profondamente trasformate: si è abbassato il tasso di mortalità, molto elevato per partorienti e neonati, e si è prolungata la vita umana. Questa importantissima rivoluzione demografica ha permesso che la pratica del controllo delle nascite si sia ideologicamente collegata all’idea della liceità del controllo del momento della morte. Da questo punto di vista, dunque, la pianificazione della nascita e della morte, fanno entrambe parte di quella grande e articolata corrente ideologica che si va progressivamente affermando nella modernità consumistica e secolarizzata e che vuole trasformare l’essere umano “da creatura a creatore”[viii].

L’utopia della liberazione sessuale, in particolare, è riuscita a mettere insieme, sullo stesso piano, antropologi e psicoanalisti, medici e scienziati. Quest’utopia, scindendo il comportamento sessuale dalla sfera emotiva e da quello morale, ha permesso di dare una nuova linfa vitale all’archetipo letterario della “pubblica felicità”. Una “pubblica felicità” che in quel tornante storico, legittimandosi attraverso la liberazione sessuale, produce, inizialmente, il desiderio/diritto di una maternità consapevole, quindi, l’autodeterminazione del soggetto individuale e, infine, l’affermazione di una cultura sempre più incentrata sulla realizzazione individualistica. Una cultura, che di conseguenza, pone una scarsissima attenzione alla difesa della famiglia[ix].

Il secondo processo, oltre a quello socio-antropologico che ho appena descritto, è, invece, di carattere eminentemente ideologico, e riguarda la progressiva affermazione di una ideologia tecno-scientista che presenta, a tratti, anche forti inclinazioni nichiliste. Un esempio paradigmatico di questo processo è ben rappresentato dall’opera di Jacques Monod, un biologo proveniente da una famiglia protestante dell’alta borghesia francese, il quale, rendendosi conto che nella società contemporanea la scienza e la tecnologia stavano assumendo progressivamente un ruolo determinante e influente non solo nel campo della ricerca biomedica ma nel vissuto quotidiano delle persone, nel 1970 pubblicò un volume che diventò ben presto un best sellers, Il caso e la necessità, in cui smentiva qualsiasi interpretazione antropomorfica dell’universo e della vita. L’evoluzione biologica, secondo lo studioso francese, non era altro che il risultato combinato del caso e della necessità delle leggi della selezione naturale[x].

Il biologo francese, da un lato, costruisce una teoria scientifica della realtà basata su basi sociobiologiche e, dall’altro, espelle sia la cosiddetta «illusione antropocentrica» prodotta dal cristianesimo, che ogni forma di angoscioso esistenzialismo filosofico. Il «male dell’anima» che affligge l’uomo moderno, secondo Monod, è superabile solamente con «un’etica della conoscenza» che permette di assumere la consapevolezza dell’oggettività della natura e di stipulare «una nuova alleanza» con la scienza, escludendo, in tal modo, ogni interpretazione finalistica ed escatologica dell’esistenza. Quella di Monod, dunque, non è solo la proposta di una sorta di “esistenzialismo scientifico” – seppur evidenti sono i punti di contatto con camus – ma rappresenta una delle più compiute teorizzazioni del secondo dopoguerra, in cui un fideismo acritico nei confronti del sapere tecnico-scientifico si combina con un tenace indifferentismo antropologico e religioso[xi]. La ricezione dell’opera di Monod nella cultura occidentale, al di là di tutti i dibattiti dell’epoca, può essere interpretata, oggi, come un esemplare punto di sintesi ideologico tra un pensiero tecno-scientista e una cultura individual-nichilista che, di fatto, legittima i profondi mutamenti della società come una diretta ed ineluttabile conseguenza dei progressi in campo biomedico. Il cui apice, non casualmente, è emblematicamente rappresentato dai “successi” della fecondazione artificiale, la cui età d’oro, per ciò che riguarda la sua diretta applicazione, si riscontra, proprio in questo contesto storico, che va dalla fine degli anni Sessanta alla conclusione del decennio successivo. la nascita di Louise Brown, della prima bambina “concepita in provetta” con il metodo della Fivet, è infatti del 1978.

Indubbiamente, tra tutte le scoperte biomediche che hanno segnato la storia di questi ultimi due secoli, la fecondazione artificiale ricopre un posto di assoluta preminenza, perché, non solo riesce a “generare la vita” ma perché obbliga a riflettere su come una società “pensa” la famiglia e sull’annoso rapporto tra cultura e natura. La fecondazione artificiale, infatti, mettendo in relazione il rapporto genitori/figli e quello tra paternità e maternità, evidenzia con forza il rapporto problematico tra l’uomo, la natura e la scienza e arriva a simboleggiare o, addirittura, a vaticinare l’affermazione di un «prossimo futuro post-umano dominato dalla tecnica»[xii]. Un futuro prossimo che rimanderebbe, dunque, ad una sorta di drammatica riproposizione del visionario romanzo scritto nel 1932 da Aldous Huxley, Il Mondo nuovo, in cui la riproduzione umana, che avviene “in serie” secondo il modello fordista, è completamente extrauterina e gli embrioni vengono prodotti e fatti sviluppare in apposite fabbriche.

Questi due processi che ho sommamente descritto – sociale e ideologico – portano, sostanzialmente, a due esiti molto importanti per la società odierna: la creazione di un senso comune pregiudizievolmente favorevole ad ogni progresso biomedico; e una sorta di “politeismo delle prospettive morali” che, di fatto, finisce per minare e destrutturare l’istituzione familiare.

Nel primo caso, si viene a creare quello che Jacques Ellul ha definito come lo «slittamento di giudizio» ovvero quella «tendenza tipica delle società tecnologiche ad accettare sempre in modo acritico le innovazioni tecniche, anche se, alla nascita, sono oggetto di condanna generale». Dopo un certo lasso di tempo, evidenzia Ellul, la novità sembra divenuta inevitabile e la spinta a essere moderni fa il resto inducendoci ad accettarla, anche se le riserve non sono sciolte. «Una proposizione morale», scrive Ellul, «verrà considerata valida per un dato periodo solo se sarà conforme al sistema tecnico, se concorderà con esso». In questo modo, dopo alcune resistenze iniziali, l’innovazione viene accettata dalla società e una volta codificata come un evento “normale” diventa molto difficile elaborare un pensiero critico nei confronti di queste innovazioni tecno-scientifiche[xiii].

Nel secondo caso, invece, legandosi alla rivoluzione sessuale e alla realizzazione individuale, prende corpo, invece, un “politeismo delle prospettive morali” che, da un lato, legittima l’ideologia del gender e, dall’altro lato, produce una critica serratissima nei confronti dell’istituzione familiare. La famiglia, in questo contesto, non viene più intesa come il fondamento della società ma, all’opposto, viene interpretata come «il luogo d’origine di ogni autoritarismo, come la fonte di ogni alienazione, come l’istituzione tesa alla normalizza-zione dei comportamenti dell’individuo»[xiv]. Tra la miriade di libri e pamphlet prodotti dalla cultura della “critica della famiglia”, spicca un volume dal titolo fortemente evocativo, The Death of Family, pubblicato in Gran Bretagna nel 1971 dallo psichiatra David Cooper e ancora oggi in catalogo in molti Paesi europei. Cooper sostiene che la famiglia svolge un ruolo fondamentale nell’inculcare «la base del conformismo, cioè la normalità, tramite la primaria socializzazione del bambino» e, in definitiva, finisce per limitare la stessa identità dell’individuo perché lo sottomette al primato dell’istituzione imprimendogli un radicato sistema di tabù, vincoli e costumi necessari alla sopravvivenza della famiglia stessa. Quel volumetto, al di la di molti passaggi discutibilissimi che oggi lo rendono essenzialmente un documento storico, ha il merito di sintetizzare, efficacemente, l’humus culturale dell’epoca in cui è stato pubblicato. Un humus culturale che è poi diventato, attraverso sentieri controversi, un elemento fondante del modus vivendi delle attuali società occidentali.

Naturalmente, quel volume, rifacendosi ad una lunga e antica tradizione letteraria di critica alla famiglia – a partire dalle elaborazioni di Lewis Henry Morgan e di Friederich Engels fino a quelle della Scuola di Francoforte – rappresenta il momento estremo di una destrutturazione simbolica dell’istituzione familiare che, se fino allora era stata appannaggio di ristretti cenacoli intellettuali, da quel particolare momento storico emerge poderosamente come un elemento caratterizzante del senso comune diffuso della modernità secolare e consumistica.

L’affermazione progressiva di questo senso comune fortemente critico nei confronti della tradizionale famiglia monogamica e stabile – a favore, invece, di nuove forme di convivenza sociale provvisorie e aperte anche ad un unioni tra persone dello stesso sesso – segna una netta cesura storica tra il discorso pubblico sulla famiglia elaborato della chiesa cattolica e quello proposto dai soggetti politico-culturali più importanti della secolarizzata società di massa. Da questo momento in poi, infatti, la rappresentazione sociale della famiglia subisce una divaricazione fondamentale. Da un lato, infatti, si afferma una visione del mondo che, in nome della necessaria rottura dei vincoli che minano la libertà dell’agire e l’autodeterminazione, rappresenta la famiglia come il luogo dell’arbitrio, del conformismo e della repressione. Dall’altro lato, invece, continua ad essere riproposta, ma con sempre meno ricezione pubblica, la tradizionale declinazione della famiglia, “santificata dal cristianesimo”, come cellula fondamentale della società in cui si afferma l’amore e la solidarietà tra le differenti generazioni che la compongono. Due rappresentazione opposte che, come è stato notato, finiscono per essere declinate «l’una come progressista e dispensatrice di libertà, l’altra come inevitabilmente conservatrice e reazionaria»[xv].

D’altra parte, Paolo VI, già nei primissimi anni Settanta, per descrivere la società del tempo, aveva parlato della diffusione di un «pansessualismo ostentato» e «degradante», di un «edonismo frivolo e passionale» che, da un lato, aveva avuto “un effetto anestetizzante per la vita di fede” e, dall’altro, aveva cancellato il «senso dell’onesto e del dovere» sostituendolo spesso con «quello dell’istinto e del tutto lecito»[xvi]. Sulla stessa scia di papa Montini, nell’Esortazione apostolica Familiaris Consortio del 1981, Giovanni Paolo II aveva denunciato la «degradazione di alcuni valori fondamentali» che avevano ormai investito la famiglia: da «una errata concezione teorica e pratica dell’indipendenza dei coniugi fra di loro» alle «gravi ambiguità circa il rapporto di autorità fra genitori e figli»; dalle «difficoltà concrete, che la famiglia spesso sperimenta nella trasmissione dei valori» fino «all’instaurarsi di una vera la scissione tra libertà e responsabilità e tra desiderio e diritto sembrano aver prodotto una sorta di corto circuito simbolico sulle domande ultime dell’esistenza e sul significato essenziale della famiglia»[xvii].

La scissione tra libertà e responsabilità, da un lato, e la profonda sovrapposizione semantico-ideologica tra desiderio e diritto, dall’altro, sembrano aver prodotto, nella società odierna – i cui prodromi sono rintracciabili negli esempi storici che ho appena fornito – una sorta di corto circuito simbolico che si riverbera, dapprincipio, sulle domande ultime dell’esistenza e dello stare-nel-mondo e, poi, di conseguenza, sul significato essenziale di tutte le aggregazioni sociali, a partire dalla famiglia, il cui dibattito sulla normazione giuridica o sulla definizione naturale/culturale testimonia efficacemente l’aporia in cui sembra essere giunta la società occidentale moderna: ovvero, l’esistenza di sempre più risposte possibili, sempre più opzioni percorribili, tutte apparentemente valide, senza che nessuna riesca a prendere il sopravvento sulle altre.

In virtù di quanto detto fin qui, il grande tema di riflessione del mondo contemporaneo, nel quale si inserisce alla perfezione l’anno della fede, è l’ormai conclamata crisi di senso dell’uomo moderno. Una crisi di senso che è il corollario insostituibile della profonda crisi economica della società occidentale che sta de-terminando, come è stato evidenziato, l’esaurimento di quel tecno-capitalismo nichilista che si basava su una crescita esponenziale e quantitativa delle merci e dei prodotti[xviii]. Que-sta angosciosa duplice crisi, non è altro che la dimostrazione, come aveva affermato in più occasioni Benedetto XVI, di come la questione sociale è ormai diventata radicalmente una questione antropologica[xix].

Uno dei grandi drammi dell’attualità, infatti, è l’esistenza delle povertà “immateriali”, che non sono una diretta e automatica conseguenza delle “carenze materiali” ma, all’opposto, si assommano a queste e, per molti aspetti, le anticipano. C’è insomma una crisi della “radice morale” dell’occidente che combina il modus vivendi dei paesi industrializzati con le “nuove povertà” che emergono in queste latitudini. In definitiva, ciò che sta alla base della crisi delle società occidentali, non è altro che la presenza vischiosa di una povertà relazionale, generata dalla rottura di alcuni vincoli sociali fondamentali e dalla messa in discussione della famiglia monogamica come cellula basilare della società. Un tipo di povertà, quindi, non propriamente economica che rimanda direttamente alle riflessioni sui beni relazionali, ovvero su quei beni che non possono essere né prodotti né consumati da un solo individuo, perché dipendono sempre dalle interazioni con altre persone e che, proprio per questo, possono essere goduti solo se condivisi nella piena reciprocità e solo se la relazione, come sostengono sia la filosofa Martha C. Nussbaum che l’economista Luigino Bruni, è il bene stesso: «cioè un rapporto che non è un incontro di interessi ma un incontro di gratuità»[xx].

Questo incontro di gratuità proposto dalla Nussbaum, oltre che evocare l’elaborazione di un “nuovo umanesimo” che possa permettere la costruzione di un nuovo momento d’incontro tra laici e credenti, rimanda irrevocabilmente a quel rapporto d’amore, gratuito e unilaterale, tra dio e l’uomo. E l’anno della fede che si concluderà il 24 novembre 2013, durante la Solennità di Cristo Re dell’Universo, ha voluto rimarcare proprio questo eccezionale incontro nella storia dell’umanità. Un incontro che non si certo è limitato a toccare romanticamente i cuori degli uomini, in una declinazione intimista e privatista oggi troppo spesso in voga, ma ha plasmato storicamente i caratteri dell’uomo, riuscendo a delineare i pilastri etici e morali di una civiltà che per secoli si è fondata su quel «quaerere Deum» che aveva caratterizzato, profondamente, il monachesimo occidentale. Ieri come oggi, in un momento in cui la società occidentale, in particolare quella europea, sempre più polverizzata e atomizzata, sembra aver smarrito il senso del noi condiviso, risulterà assolutamente decisivo impegnarsi nella «ricerca di Dio» ovvero nel «trovare la vita stessa»[xxi].

Una vita i cui confini epistemologici e morali sembrano essere, però, sempre più in discussione. Da questo punto di vista, le sfide più impegnative del prossimo futuro riguarderanno, indubbiamente, la famiglia e, in una misura ancor più generale, l’identità dell’essere umano. Un’identità che, come ho accennato, è storicamente minata sia dal “sistema tecnico” che da quello “ideologico”. La frontiera attuale del dibattito bioetico sembra sempre più ridurre l’uomo ad un mero agglomerato biologico, derubricando, di fatto, l’umano a modesta materialità e cancellando, del tutto, quell’originaria dualità tra anima e corpo che è il fondamento costitutivo di ogni persona.

Sarà, dunque, un impegno necessario e doveroso “salvaguardare l’umano” sforzandosi pervicacemente di tematizzare un discorso pubblico sulla bioetica che si diriga, sempre, verso l’uomo e, orgogliosamente, in difesa dell’uomo.

 

[i] Sul mondo “post-secolare”, su cui esiste una nutrita pubblicistica, rimando, per brevità, al confronto promosso nel gennaio del 2004 dall’Accademia cattolica di Monaco di Baviera, tra il filosofo Jürgen Habermas e l’allora Cardinale Joseph Ratzinger. Cfr. j. habermas, j. ratzinger, Etica, religione e Stato liberale, a cura di m. nicolEtti, Morcelliana, Brescia 2004; oppure j. habermas, j. ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a cura di g. bosetti, Marsilio, Venezia 2005; vedi anche g. amato – v. paglia, Dialoghi post-secolari, Marsilio, Roma 2006. Sulla nozione di biopolitica si veda, invece, m. foucault, Biopolitica e liberalismo, Edizioni Medusa, Milano 2001.

[ii] v. r. potter, «Bioethics: the Science of survival», in Perspectives in Biology and Medicine, 14 (1970), 127-153; id., Bioethics: Bridge to the Future, Englewood Cliffs, Prentice – Hall, 1971. Sulla storicità del dibattito bioetico si veda l. scaraffia (a cura di), Bioetica come storia, Lindau, Torino 2011.

[iii] concilio ecumenico vaticano ii, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 7 dicembre 1965.

[iv] Ibidem, n. 3.

[v] g. m. vian, «Incomprensioni», in id. (a cura di), Il filo interrotto, Mondadori, Milano 2012, 6.

[vi] l. scaraffia, Tutti contro l’Humanae vitae, in Ibidem, 50.

[vii] Cfr. g. davie, Europe: The Exceptional Case. Parameters of Faith in the Modern World, Longman & Todd, Londra 2002; d. hervieu-leger, Catholicisme, la fin d’un monde, Bayard, Parigi 2003.

[viii] Si veda aa.vv., «Né accanimento, né eutanasia», Quaderni di Scienza&Vita, 1 (2006).

[ix] Sulla rivoluzione sessuale e le sue ricadute sulla cultura occidentale rimando a l. scaraffia, «Lo scenario culturale: la rivoluzione sessuale e i progressi scientifici», in id., Custodi e interpreti della vita, Lateran University Press, Roma 2010, 53-64.

[x] j. monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 2010.

[xi] Ibidem, XIII.

[xii] Una storia della fecondazione artificiale che riflette su questi interrogativi ma che è estremamente critica nei confronti della morale cattolica è quella di e. betta, L’altra genesi, Carocci, Roma 2012.

[xiii] Cfr. j.-l. porquet, Jacques Ellul, l’uomo che aveva pre-visto (quasi) tutto, Jaca Book, Milano 2008; j. ellul, Il sistema tecnico, Jaca Book, Milano 2009.

[xiv] Cfr. d. cooper, La morte della famiglia, Einaudi, Torino 1991 (prima ediz. 1971).

[xv] a. possieri, «La famiglia non è morta», in L’Osservatore Romano, 10 settembre 2011.

[xvi] paolo vi, Esigenze assolute della legge morale nella vita contemporanea, Udienza generale, 14 luglio 1971.

[xvii] giovanni paolo ii, Esortazione apostolica Familiaris Consortio, 22 novembre 1981.

[xviii] m. magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009.

[xix] benedetto xvi, Enciclica Caritas in Veritate, 29 giugno 2009.

[xx] Cfr. m.c. nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino, Bologna 2013; id., La fragilità del bene: fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, il Mulino, Bologna 2004. l. bruni, Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economia e società civile, Bruno Mondadori, Milano 2006.

[xxi] benedetto xvi, Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008.