La solidarietà nella città multireligiosa

Sono lieto dell’invito ad aprire questo ciclo di incontri per ricordare i 440 anni della Augustissima Arciconfraternita ed Ospedali della SS. Trinità dei Pellegrini e Convalescenti di Napoli. Credo sia opportuno, anzitutto, tornare – seppure brevemente – a quegli anni che videro nascere la nostra Arciconfraternita. E’ il primo punto di questa mia riflessione. Dobbiamo cogliere la forza che in quegli anni mostrarono le innumerevoli confraternite che nacquero dovunque in Europa, nei piccoli centri delle campagne, come nelle grandi città di tutta Europa. Si tratta di migliaia e migliaia di associazioni che- iscritte in un ordinamento canonico – hanno portato la Chiesa a legarsi in maniera virtuosa ai poveri dando così alle città un respiro solidale. La nostra Arciconfraternita ha vissuto in maniera egregia questa missione nella città di Napoli e fuori. Nel secondo punto della riflessione, con un salto di quattro secoli, passerò ai giorni nostri accennando all’impulso che Papa Francesco sta dando alla Chiesa perché si ponga “in uscita” verso le periferie – esistenziali e cittadine – per ritessere il tessuto lacerato delle città contemporanee. E concluderò accennando alla forza storica della carità nella città multietnica di oggi.

La città moderna e la carità

Siamo nel Cinquecento, il secolo che vide nascere l’Europa moderna: sbocciavano gli stati nazionali, l’orizzonte geografico e culturale si era allargato con la scoperta di nuovi mondi e il primo capitalismo iniziava la sua marcia. Ma, proprio in quegli anni, la povertà assumeva aspetti drammatici, manifestandosi agli occhi dei contemporanei, come una realtà di massa. I poveri erano diventati pericolosi. Faceva paura il loro numero che invadeva le città. Non furono più chiamati con il termine “vicarius Christi”, un titolo che prima di essere dato al papa veniva riservato ai poveri. Al contrario scattarono nei loro confronti forti misure di sicurezza accompagnate anche da accanite controversie dottrinali. Uno storico di quel periodo, Bronislaw Geremek, scrive: «Nell’età moderna il ritmo di degradazione sociale diventa più rapido e più vigoroso.  Sembra che la ricchezza generi la povertà; accanto a una rapida accumulazione di ricchezze abbiamo la pauperizzazione materiale di larghe masse della popolazione; accanto all’arricchirsi di gruppi sociali, e di singoli individui, l’impoverimento crescente delle masse». Le istituzioni pubbliche tentarono una risposta al pauperismo con forme repressive funzionali all’ordine sociale dell’assolutismo e alle esigenze del mercato moderno del lavoro. Ma fu subito chiara l’insufficienza delle politiche pubbliche. Si rendeva indispensabile una risposta più ampia, più generosa, più creativa. Molti Ordini religiosi nacquero per rispondere alla sfida sia del pauperismo che di una rinascita spirituale. E apparve anche una straordinaria creatività laicale per far fronte alle innumerevoli domande di aiuto che salivano dalla nuova povertà di massa. Per questi laici, i nuovi poveri, non erano “pericolosi”, ma fratelli da aiutare e accompagnare.

E’ questo il senso dell’affermarsi delle confraternite in quegli anni. Si trattò di un risveglio religioso che univa la preghiera alla solidarietà con i poveri. L’esempio più chiaro di questo risveglio religioso dell’inizio del Cinquecento sono le “Compagnie del Divino Amore”. Si trattava di gruppi di fedeli laici, fondato a Genova dal Vernazza, che si diffuse rapidamente nell’intera penisola italiana con l’intento di ritrovare uno slancio religioso che sfociasse anche in un rinnovamento sia della Chiesa che della società. Il Concilio di Trento – è quel che farà il Concilio Vaticano II – raccolse queste istanze riformatrici e si impegnò ad una nuova definizione del compito pastorale dei vescovi e dei parroci, ponendo uno stretto rapporto tra Chiesa, società e poveri. I nuovi ordini religiosi – dai Gesuiti agli Oratoria­ni – scelsero la regola della povertà e del servizio ai poveri. Ci furono anche alcune Congregazioni che nacquero con lo spe­cifico scopo di venire incontro ai numerosi bisogni delle fa­sce più deboli della società, come gli ordini ospedalieri.

E’ questo l’orizzonte spirituale che spinse i cinque artigiani napoletani a fondare la Confraternita della Trinità dei Pellegrini. Avevano certamente saputo che già 28 anni prima a Roma San Filippo Neri aveva fondato una confraternita per accogliere i pellegrini che venivano a Roma per l’anno giubilare del 1575. Questi cinque “confratelli” – assieme a coloro che si univano in questa opera di solidarietà – testimoniarono una nuova operosità apostolica e cari­tativa a Napoli e nelle altre confraternite associate. La loro religiosi­tà e la loro carità affermarono nel contesto citta­dino quel nuovo volto di società cristiana i cui lineamenti erano stati riproposti nel dibattito tridentino. Questo innumerevole reticolo di aggregazioni laicali, composte da ar­tigiani, professionisti, cittadini comuni, si opponevano alla disgregazione della città e offrivano una struttura di prote­zione solidale per i più deboli.

Non c’era problema sociale che non venisse affrontato dalle confraternite: da quello dei malati a quello dei pellegrini – come la nostra arciconfraternita -, dai car­cerati ai condannati a morte, dalle donne «pericolanti» ai bambini, dalle scuole popolari per i ragazzi poveri all’aiuto ai nobili decaduti. Questa rete di solidarietà cercò di imbrigliare la vita delle città e delle campagne in una sorta di cristianizzazione della società, di cui l’aspetto assi­stenziale fu uno dei cardini. All’operosità di queste istituzioni faceva riscontro anche una nuova riflessione teologica sulla carità. Ne faccio solo un cenno. La controversia attorno alla carità emerse sia in campo cattolico che in quello protestante, e nasceva non tanto in base a problemi di ordine dottrinale (sebbene nella critica protestante ci fossero motivi contro un modello di cristianesimo devozionistico), quanto da problemi concreti suscitati dai poveri e che rendevano problematico il tessuto cittadino. Un teologo del tempo, Paracelso, stigmatizzava la ricchezza che, a suo parere, “genera naturalmente, tra i tanti mali, anche le «città del demonio», dalle quali i poveri vengono cacciati”. E a riprova diceva: è sufficiente vedere dove vanno a fini­re le ricchezze per capire se esse vengono o no dal maligno: quelle che non rifluiscono sui poveri come una pioggia be­nefica sono sicuramente d’origine diabolica. E il demonia­co, nell’economia – continua il suo pensiero -, è la produzione di beni di lusso, dal vellu­to ai vetri tondi, dalle finestre al pane bianco, fatti apposta per essere di pochi. E aggiunge: «È inammissibile che una città eriga uno splendido e fastoso palazzo municipale, fornito di tutti gli immaginabili lussi, mentre i tuguri dei poveri sono carichi di miseria e flagellati ogni giorno dalla pioggia e dal vento». Non vado oltre. Ma già questi pochi cenni mostrano la forza di tali aggregazioni laicali, come la nostra Arciconfraternita.

Papa Francesco: una Chiesa povera per i poveri 

Vi dicevo che avrei fatto un salto di quasi cinque secoli dalla nascita della nostra Arciconfraternita, per giungere ai nostri giorni. Ovviamente va evitato ogni parallelismo. Tuttavia resta vero anche oggi, seppure in maniera nuova e diversa rispetto al Cinquecento, che le città sono nuovamente nel crocevia della storia. Dal 2006 più di metà della popolazione mondiale vive nelle città. E la previsione è che nel 2050 sarà il 75% della popolazione mondiale a vivere nelle città. E ritroviamo nelle città contemporanee l’emergere di nuove e molteplici forme di povertà. Nella loro diversità sono però tutte legate da un comune denominatore: i poveri, oggi, sono gli esclusi, gli scartati, direbbe Papa Francesco. In effetti, i poveri di Abidjan o di Calcutta, di Città del Messico o di New York, di Mosca o di Milano, di Buenos Aires e di Roma, non sono solo poveri, sono emarginati, sono “di troppo”, possono essere anche dimenticati, allontanati, senza che accada nulla. E tuttavia – è uno dei punti centrali della testimonianza di Papa Francesco – essi sono nel “cuore” delle città. Anche se invisibili e dimenticati. E’ bella questa poesia di Padre David Maria Turoldo, credente e poeta:

C’è una povera in via Giovasso
che non può più camminare,
e dorme entro giornali
nessuno di quelli che stanno
di sopra
ha tempo di scendere a salutare.
Per lei è di troppo
Un po’ di scatole per guanciale
E stare
Nel cuore di Milano.

La Chiesa deve lasciarsi interpellare dalle grandi città contemporanee. Lo sa bene la Chiesa di Napoli e il suo arcivescovo! Vorrei dire che le città contemporanee chiedono che la Chiesa riprenda ad essere il Buon Samaritano che si china sulle sue numerose ferite, spesso nascoste, ma non per questo meno gravi. Mi pare ovvio affermare che il futuro del pianeta dipenderà dalla qualità della vita delle città. E il futuro stesso del cristianesimo dipenderà da come i cristiani sapranno comunicare il Vangelo nelle città di oggi. La Chiesa deve mostrare la via di una nuova prossimità: deve vedere e fermarsi. Benedetto XVI, nell’enciclica Deus caritas est, scrive che la Chiesa è un “cuore che vede”. E’ in questa linea la storia bimillenaria della Chiesa. Ogni volta che nelle comunità cristiane si è affievolito l’amore per i poveri, si è indebolita anche la sua testimonianza evangelica. Al contrario, ogni volta che i cristiani hanno cercato di riprendere a seguire con più chiarezza il il Vangelo, si sono coinvolti in maniera più generosa con i poveri.

Ricordiamo tutti Papa Francesco che, nella prima intervista concessa ai giornalisti, disse, sospirando: “Come vorrei una Chiesa povera per i poveri!”. Una Chiesa povera è quella che si affida solo alla forza del Vangelo. E necessariamente diviene Chiesa “dei” poveri. I poveri, per la Chiesa, non sono “utenti” o estranei, non sono un problema a cui prestare attenzione e soluzione. Essi sono suoi membri a pieno titolo. Per questo la Chiesa non può essere – come Papa Francesco ripete spesso – “una ONG pietosa”. La Chiesa sente i poveri come parte di se stessa, anzi la parte da amare e da privilegiare. “Il nostro impegno – dice papa Francesco – non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione all’altro considerandolo come un’unica cosa con se stesso… Il povero, quando è amato, è considerato di grande valore, e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia” (EG 199).

E il perché di tale privilegio papa Francesco lo spiegò nella Veglia di Pentecoste del 2013, ai movimenti. “I poveri, per i cristiani non sono “una categoria sociologica”, ma la “carne di Cristo”. Si poneva con decisione nella tradizione profonda della Chiesa, iscritta nel mistero della incarnazione di Cristo. Non basta più dire che Dio si fa carne per comprendere fino in fondo il mistero. Si deve esplicitare che si fa carne affamata, assetata, malata, carcerata… Non mancano infatti carni “profumate” attorno, anzi il giorno che la carne di Cristo fu profumata, cominciarono subito le questioni di denaro e fu Giuda a sollevarle. Dio si è fatto carne scartata. E’ questa ad essere “sacramento” di Cristo.

Queste parole suonarono di scandalo. Quel giorno di Pentecoste chiese ai presenti: “Quando facciamo l’elemosina a un povero, lo guardiamo negli occhi, gli tocchiamo la mano o gli gettiamo la moneta?” E’ un interrogativo davvero semplice, ma nella sua immediatezza e concretezza lacera la coscienza cristiana. E non solo. La povertà – continuò Papa Francesco – non può essere derubricata a “categoria sociologica o filosofica o culturale”: “Una Chiesa povera per i poveri incomincia con l’andare verso la carne di Cristo. Se noi andiamo verso la carne di Cristo, incominciamo a capire qualcosa, a capire che cosa sia questa povertà del Signore. E questo non è facile”. E spiegava che toccare significa “prendere su di noi questo dolore per i poveri”. Il richiamo si fece stringente: “E questo vale ancora di più in questo momento di crisi. Noi cristiani non possiamo preoccuparci soltanto di noi stessi, chiuderci nella solitudine, nello scoraggiamento… Questo è un pericolo: ci chiudiamo nella parrocchia, con gli amici, nel movimento, con coloro con i quali pensiamo le stesse cose… ma sapete che cosa succede? Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala!”

E’ su queste frontiere che la Chiesa deve misurare la sua veridicità evangelica. “La Chiesa deve uscire da stessa” e andare “verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano”. Ed ecco cosa risponde a chi teme incidenti o esagerazioni: “Io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite!”. E attacca con decisione quella che chiama la cultura dello scarto: “Oggi – questo fa male al cuore dirlo – oggi, trovare un barbone morto di freddo non è notizia. Oggi è notizia, forse, uno scandalo. Uno scandalo: ah, quello è notizia! Oggi, pensare che tanti bambini non hanno da mangiare non è notizia. Questo è grave, questo è grave! Non possiamo restare tranquilli!”. E riportò quel midrash della tradizione rabbinica sulla costruzione della Torre di Babele per denunciare quanto ancora oggi, come migliaia di anni fa, la dignità di un operaio conti meno del denaro: “Questo succede oggi: se gli investimenti nelle banche calano un po’… tragedia… come si fa? Ma se muoiono di fame le persone, se non hanno da mangiare, se non hanno salute, non fa niente! Questa è la nostra crisi di oggi! E la testimonianza di una Chiesa povera e per i poveri va contro questa mentalità”.

La Chiesa non può che stare dalla parte dei poveri, degli esclusi, degli emarginati dalla società. Papa Francesco insiste nel dire che i poveri sono nel cuore stesso della Chiesa: “è dalla fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, che deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati delle società”(EG 186). Torna alla mente la tesi del grande teologo del secolo scorso, H. De Lubac, sugli “aspetti sociali del dogma cristiano”: “La fede non è un deposito di verità morte, che si mettono rispettosamente ‘da parte’, per organizzare senza di esse tutta la vita… Per conservarsi soprannaturale, la carità non è costretta a farsi disumana: come lo stesso soprannaturale non si concepisce se non si incarna. Colui che si sottomette alla sua legge, lungi dal liberarsi con ciò dai suoi legami naturali, mette al servizio della società di cui la natura l’ha fatto membro, un’attività tanto più efficace, quanto più libero ne è il principio” (Cattolicismo, p.278).

Per Papa Francesco si deve promuovere “una teologia e una spiritualità dell’opzione per i poveri”. Non basta una semplice opzione sociale o politica e neppure assistenziale. I poveri vanno scelti per il loro valore sacramentale: in essi vi è Cristo stesso. L’ascolto dei poveri è un ascolto religioso, ma non astratto e vuoto. L’ascolto parte dal vedere la loro carne, dall’udire il loro grido di dolore. Rimanere fuori dal grido dei poveri significa mettersi fuori da Dio stesso: “Rimanere fuori da quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto”. “La Chiesa – continua – ha riconosciuto che l’esigenza di ascoltare quel grido deriva dalla stessa opera liberatrice della grazia in ciascuno di noi, per cui non si tratta di una missione riservata solo ad alcuni” (188). I poveri sono parte della famiglia universale della Chiesa. Ed è con questa convinzione che interviene denunciando, richiamando e, soprattutto, dando lui per primo l’esempio.

Reinventare la fraternità

Papa Francesco parla della carità come di una forza che cambia la storia. E’ dalla carità che prende avvio l’impegno per “risolvere le cause strutturali della povertà” e di prenderlo con urgenza (EG 202). Auspica perciò che “cresca il numero dei politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si orienti efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del mondo!” (EG 205). Papa Francesco non teme di denunciare la “dittatura dell’economia” che schiavizza e abbatte i poveri soprattutto: “… la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo continuano a vivere in una precarietà quotidiana con conseguenze funeste. Alcune pa­tologie aumentano, con le loro conseguenze psicologiche; la paura e la disperazione prendono i cuori di numerose per­sone, anche nei Paesi cosiddetti ricchi; la gioia di vivere va diminuendo; l’indecenza e la violenza sono in aumento; la povertà diventa più evidente. Si deve lottare per vivere, e spesso per vivere in modo non dignitoso. Una delle cause di questa situazione, a mio parere, sta nel rapporto che ab­biamo con il denaro, nell’accettare il suo dominio su di noi e sulle nostre società. Così la crisi finanziaria che stiamo attraversando ci fa dimenticare la sua prima origine, situata in una profonda crisi antropologica. Nella negazione del pri­mato dell’uomo! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr Es 32, 15-34) ha trovato una nuova e spietata immagine nel feticismo del denaro e nella ditta­tura dell’economia senza volto né scopo realmente umano” (Discorso ad alcuni nuovi ambasciatori presso la Santa Sede, il 16 maggio 2013).

E avverte: «Il denaro deve servire e non governare! Il Papa ama tutti, ricchi e poveri; ma il Papa ha il dovere, in nome di Cristo, di ricordare al ricco che deve aiutare il povero, rispettarlo, promuoverlo. Il Papa esorta alla solidarietà disinteressata e a un ritorno dell’eti­ca in favore dell’uomo nella realtà finanziaria ed econo­mica … Si formerà allora una nuova mentalità politica ed economica che contribuirà a trasformare la dicotomia as­soluta tra la sfera economica e quella sociale in una sana convivenza». (Riccardi, La sorpresa di papa Francesco, p.94). Potremmo dire che con “Cesare” – la politica – si può trattare, con  Mammona, mai!

L’impegno con i poveri – inteso nel senso della carità evangelica – si potrebbe dire che travalica anche i confini della fede. Basti ricordare la pagina evangelica di Matteo 25 sul giudizio universale. Non saremo giudicati non sulla fede, ma sull’amore; ossia, se abbiamo dato da bere a un assetato, da magiare ad un affamato, visitato un malato e un carcerato. E quando i non credenti diranno al giudice: “Ma noi non ti abbiamo mai visto assetato, affamato, malato e in carcere”, si sentiranno rispondere: “tutto quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”(Mt 25, 40). La via dell’amore scavalca ogni confine e unisce tutti. I credenti in Dio (religiosi) e i credenti nell’uomo (umanisti laici) nell’incontro con i poveri ritrovano una efficacissima alleanza. E’ di qui che si riparte per ritessere il tessuto lacerato delle nostre città. Il coinvolgimento per il riscatto dei poveri traccia una linea di cambiamento: ogni volta che l’uomo viene riposizionato nella sua dignità, credenti e laici riscoprono il radicale umanesimo che unisce. Per il cristianesimo, tale orizzonte, è centrale: chi incontra i poveri, incontra Dio stesso. Questo è l’umanesimo cristiano. Nella Lettera a Diogneto, uno dei testi più significativi della prima Chiesa, l’autore si rivolge all’interlocutore: “Se tu mi dicessi: mostrami il tuo Dio. Io ti direi: mostrami il tuo uomo e io ti mostrerò il mio Dio”. Il legame indissolubile “Vangelo-Chiesa-poveri” chiede un coinvolgimento ben più ampio da parte dei cristiani di quanto accade e assieme una ben più attenta riflessione teologica sul tema. Lo chiede l’impegno che papa Francesco sta ponendo in prima persona in questa direzione. unisce. In una città multi etnica, multi culturale, multi religiosa, la via che può unire tutti, senza distinzione alcuna, è quella dell’amore per i poveri.

Ritorna provocante la domanda di Dio a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. Uno degli intellettuali più fini di questo nostro tempo, Jacques Deridda – nel bicentenario della Rivoluzione Francese (1989), il filosofo francese, in un seminario sul rapporto tra fraternità e democrazia – si chiedeva: “Dov’è allora il problema? Eccolo: non ho smesso di chiedermi, chiedo che ci si chieda che cosa si vuol dire quando si dice “fratello”, quando si chiama qualcuno “fratello”. E quando vi si riassume o sussume l’umanità dell’uomo al pari dell’alterità dell’altro… mi chiedo, ecco tutto, e chiedo che cosa ci si chieda qual è la politica implicita in questo linguaggio”. Pochi si sono interrogati sul perché della scomparsa della fraternità rispetto alla trilogia della rivoluzione francese. Si parla di uguaglianza e di libertà, quasi mai di fraternità. La fraternità è la promessa mancata della modernità. Ma su di essa si gioca il futuro delle nostre città e dell’intero pianeta. Siamo chiamati a riscoprirla o, se si vuole, a reinventarla. E comunque la vita della reinvenzione passa dalla riscoperta dei poveri come fratelli e sorelle nostri.

Noi cristiani – noi più dei laici, direbbe Paolo VI – abbiamo un obbligo particolare: uscire da noi stessi e dai nostri recinti religiosi per trasformare le città, ripartendo dai poveri. C’è bisogno di audacia e di creatività. I nostri antichi fondatori della Arciconfraternita, ebbero audacia e creatività. Scrive papa Francesco: “Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità… tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore” (183). C’è bisogno che sorga una nuova cultura solidale: «Non basta essere buoni e generosi: bisogna essere intelligenti, capaci, efficaci».

Quando i cardinali riuniti al Conclave chiesero al neoeletto che nome prendeva, rispose: “Francesco”. Una sorta di brivido percorse la cappella Sistina e tutti i cardinali quasi all’unisono esclamarono “Oh!” Papa Francesco scelse di legarsi a Francesco d’Assisi, il quale volle unire in unità inseparabile il Vangelo e i poveri. L’assisiate non ha cambiato la storia del suo tempo con la politica o le armi, ma con la scelta della predicazione del Vangelo ai “minores” (gli esclusi di allora). Papa Francesco raccoglie – anche per tutti noi – il lungo filo rosso dell’amore che ha traversato la storia bimillenaria della Chiesa – di cui fa parte anche la straordinaria vicenda della nostra Arciconfraternita – e lo fa risplendere perché tutti, credenti e non credenti, riscoprano che “ c’è più gioia nel dare che nel ricevere”, come scrive l’Apostolo riportando una frase di Gesù. E senza chiedere nulla per sé. E’ per questo che i nostri antichi confratelli, mettevano il cappuccio. Doveva risplendere l’amore nella sua gratuità. Non i loro volti. Così fece Gesù, per primo. Padre David Maria Turoldo canta così l’amore per i poveri senza chiedere nulla in cambio. La poesia è intitolata: “E non chiedere nulla” :

Ora invece la terra
si fa sempre più orrenda:
il tempo è malato
i fanciulli non giocano più
le ragazze non hanno
più occhi
che splendono a sera.

E anche gli amori
Non si cantano più, le speranze non hanno più voce,
i morti doppiamente morti
al freddo di queste liturgie:
ognuno torna alla sua casa
sempre più solo.

Tempo è di tornare poveri
per ritrovare il sapore del pane,
per reggere alla luce del sole
per varcare sereni la notte
e cantare la sete della cerva.

E la gente, l’umile gente
Abbia ancora chi l’ascolta,
e trovino udienza le preghiere.
E non chiedere nulla.

(Celebrazioni per il 440° Anniversario dell’Augustissima Arciconfraternita ed Ospedali di Napoli – incontro sul tema “La strada della pace è il dialogo”)