La dignità del vivere e del morire

Il mio libro Sorella morte nasce dalla lunga esperienza nella Comunità di Sant’Egidio, con cui già nel 1974 abbiamo cominciato ad accompagnare gli anziani, a prenderci cura di loro nella solitudine fino alla fine; un’esperienza a cui, negli anni successivi, si è aggiunto l’accompagnamento dei giovani colpiti dall’Aids, in un’epoca in cui l’Aids era una condanna a morte.

Ricordo che quando andavamo a trovarli allo “Spallanzani” ci veniva raccomandato di non toccarli perché c’era il rischio del contagio e ricordo di aver passato con loro diverse volte la festa di capodanno, sapendo che molti non avrebbero festeggiato l’anno successivo.

Questa esperienza credo che ci abbia affinato una certa attenzione a non essere fugaci né accaniti cristianizzatori ma delicati e cauti in tutti i gesti e in tutte le parole.

Ecco, di fronte a  questo patrimonio enorme di sensibilità, ci è parso davvero poco attento il ricorrere a una disposizione legislativa che non tenesse conto di questa complessità e abbiamo pensato di offrire questa riflessione al dibattito pubblico: non volevamo che la legge rappresentasse una forma di deresponsabilizzazione su un tema delicatissimo che ci compete tutti.

Inizialmente l’idea era di scrivere una ventina di cartelle: una sorta di manifesto per porre all’attenzione queste problematiche, con l’intento di farsi portavoce delle migliaia di persone che abbiamo accompagnato.

Entrato nella fase della scrittura, io stesso mi sono trovato di davanti a un mare magnum di letteratura, di opinioni e di prospettive. E così da una sorta di grido si è passati al dialogo, perché è importante incontrarsi con tutti idealmente e ripensare anche le stesse personali convinzioni.

D’altra parte è vero che anche nella prassi ordinaria della Chiesa cattolica è raro sentir parlare delle cose ultime, come se si avesse il timore di entrare in certi argomenti: sono giunto alla conclusione che anche tra noi è come calato quel silenzio che la cultura contemporanea impone su questi temi: non se ne deve parlare, bisogna tacere e  i bambini vanno segregati da questo argomento.

Il libro è diventato così l’occasione per una riflessione a tutto campo, un modo per dire: “Parliamone, perché sono cose che ci riguardano”.

La morte ci interroga perché ci pone davanti a una dimensione di una universalità non solo dell’oggi, ma di ieri e di domani: un crocevia di domande e di riflessioni che riguardano la storia e la vita.

Ecco perché sono particolarmente contento che la pubblicazione del libro abbia aperto un dibattito che ha coinvolto anche rappresentanti di altre religioni.

Mi ha fatto riflettere la testimonianza di un medico che mi ha detto: “Tra tanti malati terminali che ho assistito nessuno mi ha mai chiesto di mettere fine alla sua vita”. Questo conferma la complessità e la delicatezza di questo tema, che per parte mia coinvolge il credente in modo molto robusto. Ecco perché, ad esempio, io farò sempre i funerali anche a chi si toglie la vita.

Il poeta Dario Bellezza, che viveva nella mia parrocchia, ha passato il suoi ultimi giorni di vita nella solitudine e nella tristezza. A chi andava a trovarlo diceva: “Sono sfiduciato ormai, sto malissimo, ora dovrei prendere l’antibiotico, ma non c’è nessuno a farmi una spremuta d’ arancia, e io non ce la faccio ad alzarmi dal letto”.

Quando è morto ho celebrato il suo funerale sentendo un debito di amore nei confronti di una richiesta di vicinanza che era stata inevasa.

In questo senso il prendersi cura gli uni degli altri è la ragione di fondo di questo libro, dove c’è anche tutta la dimensione del credente.

Come spiegava il Rabbino Capo di Roma in uno degli incontri organizzati per presentare il libro, nella Bibbia ebraica si è mano a mano consolidata la convinzione della resurrezione dei morti, ma un teologo protestante di grande fama avvertiva i credenti cristiani che c’è una grande differenza tra la convinzione sull’immortalità dell’anima  – che è propria della cultura greca ma non della Scrittura e della cultura cristiana – e la resurrezione.

I cristiani credono nella resurrezione della carne, che è altra cosa rispetto all’immortalità dell’anima. Fu proprio questo il punto del dibattito nell’aeropago di Atene tra Paolo e i filosofi.

Ecco perché questo è un tema che per i cristiani va richiamato: non a caso leggendo i Vangeli potremmo dire che la fatica più grande che Gesù ha fatto con i suoi discepoli è stato convincerli della resurrezione della carne, visto che ci ha messo ben quaranta giorni. Ecco perché è un tema che per noi credenti risulta decisivo e ci chiede di meditare su tutto questo. Che è poi esattamente quello che è accaduto a me: mi sono trovato a ripensare tutto il tema del Giudizio, di che cosa vuol dire l’oltre, delle realtà ultime. Sono tutti temi che a mio avviso richiedono una pensosità nuova e una responsabilità molto più attenta.

Forse per noi cristiani è giunto il tempo di ritrovare parole nuove, o meglio ancora, di ridare senso nuovo a parole antiche fino a capire che inferno e paradiso non sono solo dopo: cominciano già qui e l’accompagnamento o l’abbandono significano paradiso o inferno già da ora; per questo quello dello stare insieme è un senso profondo, che fa comprendere ancora meglio che noi più che nell’aldilà crediamo in una vita eterna e abbiamo la responsabilità di costruirla già da ora.

L’immagine che mi viene più chiara da proporre è quella del tenersi per mano nel momento della morte. Perché se ci teniamo per mano anche la morte viene vinta, perché chi ha stretto quella mano se la ricorderà per tutta la vita e chi passa all’altra vita porterà quella mano stretta con sé.

(dal quadrimestrale Pegaso, n.198 – maggio-agosto 2017)